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Guido Martina, Giovan Battista Carpi, Paperopoli liberata, in Topolino, nn. 598-599, 1967

 

Guido Martina ha dato vita nel corso della sua lunga carriera a molti rifacimenti o parodie dei classici della letteratura italiana (e non solo), utilizzando tutte le forme e le soluzioni possibili nel rapporto con il testo parodiato: dalla ricerca di un’aderenza fedele, sino alla più libera reinterpretazione dell’originale, alluso in alcune sue parti, ma rispettato solo parzialmente nei suoi principali elementi. La riscrittura della Liberata di Torquato Tasso rientra nella seconda polarità appena indicata, cioè in un gioco di relazioni con l’opera di partenza piuttosto libero. La storia infatti, articolata in due puntate (per un totale di 66 tavole), illustra l’assedio mosso da Paperino e dai suoi nipoti per liberare Paperopoli, presa in ostaggio dalla Banda Bassotti e da Pietro Gambadilegno, che hanno approfittato del nuovo penitenziario costruito da Paperone per incarcerare lui e tutte le autorità cittadine, e poter così, senza intralci, svaligiare il tanto bramato deposito. A Paperino, che si era allontanato dalla città per non essere costretto a partecipare ai lavori di costruzione del penitenziario, si uniscono ben presto anche Topolino e Pippo, giunti in prossimità di Paperopoli a bordo di un drago meccanico volante, un mezzo di trasporto ideato da un lontano antenato di Pippo, Leonardus Pippus. Questa unione tra gli eroi del mondo di Topolinia e quelli di Paperopoli, non così frequente nell’universo disneyano, risponde a un principio latamente tassiano o, almeno, proprio alla narrazione epica, dato che contrappone due schieramenti nettamente divisi, in nome di valori etici e attanziali alternativi (buoni e cattivi). L’assedio mosso congiuntamente da Topolino e Paperino, non senza che quest’ultimo si mostri geloso dei suoi alleati e desideroso di avere lui solo la palma del liberatore, quasi con un ricordo delle intemperanze giovanili del Rinaldo tassiano, è reso difficile dalla presenza di una speciale cinta muraria, una cupola trasparente ideata da Archimede Pitagorico, che impedisce l’accesso alla città. Per aggirare l’ostacolo si muove un attacco a Paperopoli su due fronti: dall’alto, da parte di Pippo e Topolino, e dal basso, grazie a Paperino e, soprattutto, al faticoso lavoro di scavo imposto ai suoi nipotini. Il tutto si risolverà felicemente, con la liberazione della città, anche se, in nome di un copione piuttosto usuale, Paperino invece di godere la gloria della vittoria si troverà a fuggire dall’ira di Paperone, furioso perché il nipote ha vanificato lo stratagemma con il quale aveva inteso proteggere il suo oro.

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Luciano Bottaro, Paperin furioso, in Topolino, nn. 544 e 545, 1966

 

Tra gli esempi più noti della fortunata serie delle Grandi Parodie Disney, Paperin furioso, frutto della rinomata firma di Luciano Bottaro (autore sia dei disegni che della sceneggiatura delle 63 tavole), costituisce il secondo episodio del ‘ciclo paperingio’, inaugurato da Paperino il Paladino nel 1960. Come molte delle riscritture disneyane, questa rivisitazione delle avventure ariostesche nel mondo dei paperi presenta le caratteristiche di una perfetta decostruzione parodica. Bottaro, infatti, riesce a scomporre e ricostruire alcuni degli elementi narrativi del poema di Ariosto e a tradurli nella grammatica dell’universo fumettistico. Tale opera di transcodificazione, narrativa e visiva, fa sì che il lettore che meglio conosce le ottave del Furioso, ma anche le sue trasposizioni iconiche, possa attraversare le pagine del fumetto scorgendo in filigrana le tracce dell’ipotesto letterario e della lunga serie delle sue interpretazioni figurative. La lettura del Paperin furioso si trasforma così in una sottile sfida volta a ritrovare le allusioni al testo ariostesco e alle sue visualizzazioni che l’ingegnoso autore ha disseminato nel secondo capitolo delle avventure cavalleresche di Paperino, interamente incentrato sul protagonista che dà il titolo al fumetto e sulla sua follia amorosa (tralasciando dunque gli altri fili narrativi intessuti da Ariosto).

La storia prende le mosse da una riunione in campagna della ‘parentela dei paperi’: Paperino e Ciccio, sottraendosi alla raccolta delle mele, decidono di schiacciare un pisolino sotto una quercia. Per punire la loro pigrizia la strega Nocciola trasforma la pennichella dei fannulloni in un’avventura onirica ai tempi di Papero Magno. Due topoi della tradizione letteraria, la magia e il sogno come viaggio nel tempo, sono dunque i primi elementi coinvolti nel travestimento parodico e danno avvio all’avventura di Paperino in un altrove cavalleresco. La scelta del protagonista pennuto al quale affidare l’impresa coglie un tratto essenziale dell’eroe a cui si ispira: il conte Orlando, prima ‘innamorato’ e poi ‘furioso’, sottoposto da Boiardo e da Ariosto a un abbassamento ironico che evidenzia i tratti umani dell’eroe, è qui interpretato dal goffo e imbranato Paperino. Come terrà a sottolineare egli stesso in preda al ‘furore e matto’: «Sarò svitato … ma non tollero che mi si chiami fortunato!» (fig. 1). Il nipote pasticcione e sfortunato di Paperone è dunque il candidato ideale per assumere le sembianze del conte del Furioso, che anche Ariosto aveva talvolta descritto con un’empatia venata di comicità.

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Guido Martina, Giovan Battista Carpi, La saga di Messer Papero e di Ser Paperone, in Topolino, nn. 1425-1431, 1983

 

Fatto non consueto per un kolossal disneyano, la saga di Messer Papero e di Ser Paperone ha un’origine d’occasione (fig. 1). Fu infatti concepita al fine di accompagnare sul settimanale Topolino un’importante mostra disneyana che in concomitanza si sarebbe dovuta tenere a Firenze. Discende da questa circostanza il vincolo dell’ambientazione toscana che costituisce il principale elemento di coesione dei diversi episodi. In visita alla città del giglio e ispirato dai luoghi emblematici della cultura e dell’arte italiana, Paperone inventa la storia di due suoi presunti antenati, erranti per le più importanti città toscane del Trecento (Messer Papero De’ Paperi) e del Cinquecento (Ser Paperone). Entro tale cornice si sviluppa così una sorta di tour storico-culturale della regione: il racconto ha avvio a Firenze, da dove Messer Papero e suo nipote Paperino vengono esiliati per aver aiutato Dante Alighieri a sfuggire ai suoi avversari politici, e tocca poi le città di Pisa, Arezzo, Livorno, Lucca e Siena. L’intento educativo e celebrativo è evidente nell’insistita farcitura di riferimenti artistici e letterari che corrobora gli episodi in costume e occupa gran parte dei dialoghi nella cornice. A ogni tappa, la riproposizione dello schema narrativo tipico delle storie dei paperi – il viaggio, l’intraprendenza di Paperone nel difendere le proprie ricchezze e nel cercare ogni occasione per guadagnare denaro, la comica inconcludenza di Paperino costretto a faticare per conto dello zio, la scena finale di inseguimento o di fuga – è l’occasione, a tratti un po’ forzata, per passare in rassegna personaggi, avvenimenti, luoghi e opere rinomati.

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Guido Martina, Giovan Battista Carpi, Paolino Pocatesta e la Bella Franceschina, in Topolino, n. 1261, 1980

 

Per il rilievo che la vicenda di Paolo Francesca ha assunto nella lettura romantica e contemporanea del poema, l’episodio narrato nel canto V dell’Inferno è stato oggetto nel corso degli ultimi due secoli di una vastissima serie di adattamenti nelle più diverse forme e linguaggi, in una misura e con picchi qualitativi di gran lunga superiori rispetto a qualsiasi altro, pur celeberrimo, personaggio o vicenda della Commedia. Paolino Pocatesta e la Bella Franceschina è il contributo disneyano a questa ricca messe di riprese, riscritture, ‘rimediazioni’; l’anello di intersezione tra questa tradizione e quella non meno florida delle Grandi Parodie a fumetti dei classici della letteratura prodotte dalla Disney italiana. Gli autori sono di assoluto prestigio. Soggetto e testi sono di Guido Martina, lo sceneggiatore più prolifico della Disney italiana, ideatore delle Grandi parodie, non nuovo a misurarsi con la Commedia fin dall’Inferno di Topolino (1949-1950), opera che ha dato avvio alla lunga serie delle Grandi Parodie disneyane. Di non minore statura Giovan Battista Carpi, disegnatore e autore Disney fin dagli anni Cinquanta, considerato dalla critica il più importante maestro della scuola italiana – insieme a Romano Scarpa. A fronte di questi illustri natali, tuttavia, Paolino Pocatesta e la Bella Franceschina non può essere annoverata tra le prove più notevoli di re-interpetazione dei classici della letteratura per le quali la Disney Italia è celebre. L’impasto di elementi letterari e trouvailles storico-filologiche, tipico di Martina, non raggiunge lo spessore di un’ispirata rivisitazione; si risolve invece in sketch di facile comicità, giustapposti in un intreccio senza troppe pretese e in qualche punto, specie nel finale, un po’ rabberciato.

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Guido Martina, Angelo Bioletto, L’inferno di Topolino, in Topolino, nn. 7-12, 1949-1950

 

Può un capolavoro generare un altro capolavoro? Il quesito nasce spontaneo ogni qual volta ci si trovi ad analizzare una transcodificazione; e spesso purtroppo la risposta è negativa. Ciò non vale, però, per l’Inferno di Topolino, la prima delle grandi parodie Disney, nata dalla collaborazione tra Guido Martina (autore dei testi) e Angelo Bioletto (creatore dei disegni). Dietro l’articolato ingranaggio narrativo delle memorabili 73 tavole apparse per la prima volta nei numeri da 7 a 12 di Topolino tra l’ottobre del 1949 e il marzo del 1950 si nasconde, infatti, un grande genio creativo. Forse sarebbe meglio dire che una creatività incontenibile, quella di Martina – vero factotum della Disney italiana del Dopoguerra –, trova una degna controparte nei disegni raffinati e divertenti di Bioletto. La macchina di questo poliedrico universo infernale funziona in virtù della perfetta collaborazione della coppia di autori, che riesce a reinventare il capolavoro di Dante. La riscrittura e la parodia funzionano così bene che la prima cantica dantesca ne risulta trasformata ma al contempo perfettamente riconoscibile. Ciò che lo rende possibile, insieme al titolo, è la geniale trovata di Martina (‘il professore’ della Disney Italia), autore della «verseggiatura», che si cimenta in una spericolata riscrittura, naturalmente in terza rima, dell’opera di Dante. Le terzine incatenate di Martina fungono da didascalie nella parte inferiore delle vignette, in cui i dialoghi contenuti nei balloon fanno da commento, o contrappunto, ai versi e alla loro narrazione continua. L’ingranaggio narrativo segue dunque due linee che si intrecciano, ma rimangono autosufficienti o forse rivolte a destinatari differenti. Negli intenti di Martina e Bioletto sembra di poter riscontrare la volontà di creare una partitura a due voci, in cui quella in versi non sembra poter fare a meno di quella più tipicamente fumettistica. La complementarietà delle due forme testuali è dichiarata nell’incontro tra Topolino e Cosimo, nipote di Clarabella (qui parodia di Pier delle Vigne), nel quale Dante/Topolino chiede al suo interlocutore: «Ora rispondi alla domande che ti faccio nei versi qui sotto!» – e l’altro ribatte: «Leggi i versi qui sotto e avrai la risposta» (fig. 1). Ne risulta un dispositivo diegetico sofisticato che si regge sulla magistrale orchestrazione tra la duplice voce testuale e la variopinta umanità dei dannati, creata da Bioletto ispirandosi alla lunga fortuna figurativa della Commedia (soprattutto alle illustrazioni di Gustave Doré).

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Una delle obiezioni che si muovono a ricerche del genere [...] è di aver posto in opera un apparato culturale esagerato per parlare di cose di minima importanza, come un fumetto di Superman [...]. Ora, la somma di questi messaggi minimi che accompagnano la nostra vita quotidiana, costituisce il più vistoso fenomeno culturale della civiltà in cui siamo chiamati ad operare. Nel momento in cui si accetta di fare di questi messaggi oggetto di critica, non vi sarà strumento inadeguato, e si dovrà saggiarli come oggetti degni della massima considerazione.

Umberto Eco

 

L’idea di approfondire la ricezione dei poemi narrativi nella nona arte è nata partendo dallo studio della ricca e precocissima fortuna illustrativa dei romanzi cavallereschi, dalle xilografie delle prime edizioni a stampa fino alle opere degli artisti contemporanei. All’interno di questa fiorente tradizione, il ‘pensiero disegnato’ del fumetto si è inserito naturalmente, nei primi decenni del Novecento, sia sviluppando l’eleganza grafica e la capacità di ‘emblematizzazione’ raggiunte dagli illustratori, sia cogliendo a pieno e reificando due caratteristiche intrinseche della poesia narrativa: da un lato l’enargeia e la predisposizione alla creazione di immagini vivide, alla rappresentazione immediatamente visibile e memorabile delle azioni dei singoli personaggi per mezzo delle risorse della versificazione; dall’altro la prossimità ai generi letterari più vicini alla performatività. Attraverso differenti modalità di trasposizione, o travestimento, e persino di libera riscrittura in versione parodica, le ‘traduzioni’ fumettistiche di queste opere in versi si sono cimentate in un confronto con il dettato poetico originario volto non soltanto a dare concretamente corpo all’implicita componente iconica delle storie, ma anche a trasferire nel linguaggio del comic i meccanismi stessi della narrazione poetica, mettendo in scena la pervasiva dialogicità che la caratterizza e spesso riproponendo sul piano grafico talune metafore e allegorie del testo di partenza.

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Io e Luzzati

di

     

In occasione della mostra Alice voluta dal Museo Luzzati di Porta Siberia, un secolo e mezzo esatto dalla prima uscita della fiaba di Lewis Carroll Alice’s Adventures in Wonderland, abbiamo incontrato Stefano Bessoni e gli abbiamo chiesto di regalarci un pensiero su Emanuele Luzzati. La mostra, visitabile fino al 15 maggio 2016, comprende circa 120 opere dei due illustratori: «due filoni opposti, due diverse voci che ben rispecchiano le avventure di Alice – spiegano i curatori – una più serena, una più ‘oscura’. Due modi per ritrovare un simbolo di un’infanzia che esplora, libera e irriverente, un mondo parallelo riletta e ridisegnata infinite volte e oggi raccontata in modo nuovo».

*Sono passati tanti anni da quando, per scelte di vita, abitai per qualche mese a Genova. In quel periodo ero proiettato completamente sul cinema e sognavo da bravo incosciente una folgorante carriera sullo schermo. Certo, scarabocchiavo e anche parecchio, ma non immaginavo che un giorno sarei diventato un illustratore. Durante quei mesi guardavo con ammirazione e un pizzico di sana invidia il lavoro di un genovese geniale e poliedrico: Emanuele Luzzati.

In lui mi colpirono tanti aspetti del suo creare, dal lavorare velocemente, con una felicissima e riconoscibile sintesi espressiva, allo spaziare in diversi campi d’espressione, dall’illustrazione all’animazione, dal teatro alla grafica. Mi folgorò il suo uso del colore, i suoi pastelli, le matite, il collage, il suo creare come un bambino che sa di essere adulto e che se ne infischia allegramente.

Lele, mi piace chiamarlo affettuosamente così, aveva già fatto breccia nel mio immaginario, fin da bambino. Non potevo e non posso tuttora fare a meno di canticchiare la canzoncina di Brancaleone senza vedere stagliate davanti ai miei occhi le sue sagome animate, ancora più geniali ed efficaci di un film che di per sé era e rimane un gioiello di rara ironia e poesia. E poi La gazza ladra, Pinocchio, Pulcinella... Inutile dire che l’opera di Emanuele Luzzati divenne uno dei mattoncini fondamentali della mia ricerca poetica e stilistica.

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Nel bel mezzo dell’inverno

vi era in me un’invincibile estate

Albert Camus

 

 

L’esposizione Frida Kahlo. Fotografie di Leo Matiz (in mostra alla galleria ONO Arte Contemporanea di Bologna dal 14 gennaio al 28 febbraio 2016) sorprende per intensità ed efficacia comunicativa. Le immagini dicono sempre qualcosa, sono concepite per comunicare, spesso però nella fotografia la forza dell’evidenza satura la percezione generando un surplus nozionale che riempie la vista ma indebolisce la riflessione: quando la foto Ê»parla troppoʼ, secondo Barthes, non è pensosa, non suggerisce un senso, non induce a meditare. Qui, invece, gli scatti quasi solo in bianco e nero del fotoreporter colombiano Matiz, amico di Frida e del marito Diego Rivera, prendono la via di una comunicazione intima, evocativa, che non rivela, e tuttavia illumina la complessa interiorità della grande artista messicana.

Il percorso espositivo della mostra, articolato in 27 fotografie di diversi formati, alcune ai sali d’argento e altre al platino, non è quindi un vortice di suggestioni visive, ma piuttosto un intenso, quanto riflessivo, itinerario estetico, che consegna allo sguardo dello spectator l’immagine di una Frida inedita, ritratta dal fotoreporter dal punto di vista privilegiato dell’amicizia e della lunga frequentazione, all’interno dell’amata Casa Azul (casa azzurra) nel quartiere natale di Coyoacán a Città del Messico.

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6.1. Salinas e Clerici: Amor, mundo en peligro

di Alessandro Giammei

Dopo aver realizzato Frammenti di una sconfitta e Diario Bolognese di Sereni e Gentilini a metà del ’57, Riva si dedicò a lungo a questo secondo volume dei “Poeti Illustrati”. Uscito all’inizio dell’anno successivo e, al pari del precedente, «pubblicato a Milano da Vanni Scheiwiller» (come recita il colophon), Amor, mundo en peligro è il primo libro illustrato delle Editiones Dominicae a raggiungere, forse anche grazie alla natura non poi così privata della sua diffusione, un immediato prestigio internazionale. Compare infatti nel catalogo della mostra The artist and the book 1860-1960, tenutasi a Boston a fine decennio, e lo stampatore lo raccoglierà – insieme ad altri quattro tra i primissimi della serie – nella minima tiratura (sette esemplari) di Cinque poeti illustrati: una vera rarità bibliografica che celebra, nel ’64, la maturità del progetto editoriale.

Affidandosi a Fabrizio Clerici, allora già affermato pittore neo-barocco e post-metafisico, Riva sa di poter contare su un professionista dell’acquaforte e su un lettore raffinato. Appena compiuta la vetrata dedicata a Santa Caterina nella basilica senese di San Domenico e con alle spalle diversi libri illustrati realizzati con Mondadori, l’artista era, alla fine degli anni Cinquanta, in procinto di dedicarsi ad alcuni tra i maggiori cicli della sua carriera: quello del Principe per Laterza, quello, più tardo, per Il Milione introdotto da Moravia (e poi, in una riedizione, da Manganelli), e soprattutto quello monumentale per l’Orlando Furioso uscito, con un saggio di Bacchelli, in una preziosa edizione Electa ancora oggi oggetto di studio. Beniamino della società letteraria, profondamente ispirato dai classici e dagli scrittori suoi sodali, Clerici è scelto dallo stampatore veronese per la sua modernità sorniona, capace di rielaborare il Novecento maggiore senza angosce avanguardistiche. In Il mio dimestico torchio è infatti annoverato tra quegli illustratori che, nel panorama delle sue collaborazioni, «depongono tutt’altro che a favore di un tradizionalismo insensato e chiuso», nel segno di uno sperimentalismo tipografico estremamente consapevole della tradizione ma aperto a nuove soluzioni e insolite figurazioni, specie quando si tratta di sposare un’immagine a versi contemporanei.

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