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 Nel 2004 escono quattro diversi formati editoriali di Pinocchio interpretato da Mimmo Paladino: un doppio portfolio di opere grafiche, il libro illustrato e il catalogo della mostra itinerante (in Giappone) che raccoglie le grafiche stesse. Tre formati per due diversi pubblici: selezionato il primo, più largo il secondo, che tuttavia può godere ugualmente delle ventisei grafiche attraverso le riproduzioni nel libro stampato, arricchito anzi dalla presenza di ulteriori immagini (nel catalogo sono riprodotte invece le grafiche senza ulteriori aggiunte).

Il rapporto che si instaura nel libro è senza dubbio affascinante: non vi è rapporto di subordinazione, ma un dialogo paritario tra testo e immagini, equivalenti anche dal punto di vista concettuale, nel restituire l’idea di ‘metamorfosi’ alla base del capolavoro collodiano. Se infatti le Avventure – romanzo di formazione per eccellenza – raccontano di un ‘passaggio di stato’, Paladino alterna sapientemente registri stilistici differenti, celando la metamorfosi nella varietà tecnica: acquerello, acquatinta, collage, acquaforte, serigrafia, rame in foglia, e tante altre ancora, dando nei fatti, attraverso le sue opere, una sensibile interpretazione di Pinocchio. È una lettura che nella sua originalità espressiva mantiene, come giustamente ha sottolineato Di Martino, «una sorta di spontaneità leggera e poetica che si addice armoniosamente alla manifestazione di ‘valori riconosciuti’ ed ‘emozioni primarie’, caratteristiche della fantasia dei bambini nella quale convivono sempre il bene e il male, la paura e la felicità, l’odio e l’amore, la tristezza e la gioia, in una parola la commistione tra il sogno e la realtà» (Di Martino, 2004, pp. 8-9).

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 In the late 1990s Pinocchio began to appear in Jim Dine’s art – for example, in the 1998 lithograph The Mezzotint Boy – bringing with him memories from the artist’s childhood, and bearing traces of his fascination with the character of the boy-puppet that he first encountered in the 1940 Disney film which he saw when he was six years old. Pinocchio is now established as one of the recurring motifs in Dine’s art, along with hearts, bathrobes, tools, birds and antique statues of Venus. Dine has now produced a series of polychrome, wooden sculptures of Pinocchio exhibited at the Pace Gallery in New York in 2006-2007, a portfolio of some forty prints based on the Pinocchio story exhibited at the New York Public Gallery during the Winter of 2006-2007 and Alan Cristea Gallery in London in Spring 2007, the closely-related illustrations to an edition of Collodi’s original text of Pinocchio published by Steidl in 2007, and even a monumental thirty-foot high bronze figure of Pinocchio for the Swedish town of Boras [fig. 1a]. Since 2012 visitors to the art museum in Dine’s home-town of Cincinnati are now greeted by a twelve-foot high bronze statue of Pinocchio with arms raised to the heavens [fig. 1b].

Things are invested with emotion by Dine, often an emotion associated with childhood: «All these objects come out of my childhood» (Jim Dine in conversation with Germano Celant and Claire Bell, in Celant-Bell, 1999, p. 156). Whether these things are the bathroom fittings sold by his family, or the tinned foods stored in cupboards during the Second World War, Dine’s memories invest them with a personal, even autobiographical quality quite distinct from the fascination with the glamour of commodities and advertising evident in Pop Art. Tools, in particular, are felt by Dine to carry a shared legacy of work in their forms: «A tool can be inspiring […] because this tool is a beautiful object in itself. It has been refined to be an extension of one’s hand, over the centuries, in a process of evolution. And it can inspire you that way» (Celant-Bell, 1999, p. 132). This feeling for objects makes them vehicles for a type of self-portraiture so that, for example, when the bristles of a house-painter’s brush are lengthened to resemble a beard from one state of an etching to another, the brush becomes a portrait of the artist as the legendary Blackbeard. Equally the image of a bathrobe found in a magazine advert becomes a reiterated form of self-likeness in works across different media. Although Pinocchio is a relatively late motif in Dine’s art, he has been present in his practice since his twenties in the form of a cherished object, a commercially produced figure of Pinocchio:

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Tradotto in più di ventotto lingue, tra cui persiano, giapponese, coreano e addirittura due lingue norvegesi, il Pinocchio di Roberto Innocenti, uscito nel 1988, ha segnato un’inversione di tendenza rispetto all’operazione compiuta sin dagli anni Quaranta da Walt Disney, che aveva scalzato Carlo Collodi dal suo ruolo di autore e imposto nel mondo la sua icona del burattino. Le tavole dipinte ad acquarello, con una perizia straordinaria, da Innocenti ripercorrono la storia autentica del burattino ambientandola nella sua terra madre, una Toscana ottocentesca raggelata e segnata dalla miseria e dalla fame. Si riscoprono così la profondità e l’inquietudine del testo originale, insieme alla sofferenza e alla violenza che erano state bandite dalla versione americana. Nel 2005 Innocenti si è di nuovo cimentato col testo collodiano: le tavole più recenti presentano una chiave interpretativa che si discosta da quelle precedenti, rivelando dimensioni meno drammatiche e impiegando colori più limpidi per descrivere, nelle più diverse forme e con straordinaria competenza architettonica, la dimensione urbana e contadina della Toscana.

Anche la tedesca Sabine Friedrichson, pubblicò il suo Pinocchio nel 1988. In origine le sue illustrazioni dovevano accompagnare l’edizione rielaborata Der neue Pinocchio di Christine Nöstlinger. Dopo essersi resa conto dei cambiamenti che l’autrice viennese aveva apportato al testo collodiano, la Friedrichson decise di ritirare il proprio lavoro, che poteva funzionare solo in un’edizione fedele al testo di Collodi. L’illustratrice si concentra infatti su un singolo dettaglio ingrandito al punto da far sparire tutto il resto, oppure forza la prospettiva in modo da cogliere solo uno scorcio in una diagonale estremamente audace. La scena dell’impiccagione, ad esempio, si focalizza sui piedi agilissimi che non toccano più terra, mentre sullo sfondo si vede solo la casetta bianca divenuta una villa tradizionale toscana.

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«Io ero convinto che Pinocchio non lo avrei mai fatto perché ce ne sono tantissimi» (Innocenti, 2014, posizione 717 di 1275). È con queste parole che Roberto Innocenti apre i suoi ricordi legati a Pinocchio, riferendosi alle sue iniziali perplessità, superate poi grazie a un’intuizione: ricollocare Pinocchio in Toscana. Nasce così una delle imprese più fortunate di Innocenti, che al libro di Collodi ha lavorato a lungo e in più occasioni, tra 1988 (data della prima uscita in Inghilterra) e 2005.

«Collocare Pinocchio in Toscana»: si tratta di un’esigenza che periodicamente riemerge tra gli illustratori di Pinocchio, tra cui ad esempio Giorgio Mannini e Piero Bernardini, quasi a identificare la dimensione insieme locale e internazionale (‘glocale’, si direbbe con un termine in voga) del burattino di Collodi, radicato in Toscana e allo stesso tempo tendente a forzare e varcare confini e frontiere spazio-temporali: dalla celebre e pluripremiata edizione del 1911, quando Attilio Mussino ambienta le Avventure a Vernante, in Piemonte, fino all’interpretazione ‘tirolese’ disneyana del 1940.

Eppure, per Innocenti non si tratta soltanto di un’attenzione filologica, ma di un’esigenza etica, che affonda le sue radici in una sorta di autoanalisi introspettiva:

Compartecipazione che diventa quindi immedesimazione, rafforzando in Pinocchio i tratti del Bildungsroman, del romanzo di formazione che lentamente diventa, grazie alla rilettura di Innocenti, romanzo di testimonianza storica. Perché «nella breve frazione di tempo che il lettore impiega a voltare la pagina, Innocenti ha già gettato fondamenta, eretto muri, elevato costruzioni» (Pallottino, 1989, p. 33), tratteggiando «un grande affresco della Toscana contadina e paesana del secolo scorso, dei suoi modi di vita, quotidiani e straordinari» (Rauch, 1989, p. 46).

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 Mentre i primi illustratori di Pinocchio, Mazzanti (1883) e Chiostri (1901), tendono a rappresentare la Fata come una donna comune, intensificando il processo di naturalizzazione del fantastico già in atto nel testo, gli illustratori successivi cercano di fare emergere altri aspetti di questo personaggio così eclettico, che si presta alle più svariate rappresentazioni e interpretazioni. Attilio Mussino, ad esempio, nella prima edizione a colori di Pinocchio (1911), si serve proprio del colore per fare emergere il fantastico, con una punta di ironia, disegnando in alcune immagini una Fata interamente azzurra, pronta però ad assumere forme e cromatismi diversi a seconda delle situazioni. Altri illustratori, come Luigi e Maria Augusta Cavalieri (1924) o Vittorio Accornero (1942), esaltano l’atmosfera magica e fiabesca della prima apparizione della Fata, ricorrendo all’iconografia tradizionale in cui le fate indossano cappelli a punta e lunghi abiti lussuosi. Questa Fata di straordinaria bellezza può addirittura assumere le sembianze di una diva del cinema nelle immagini di Bernardini (1924), Bianchi (1926) o Cervellati (1946).

Lontane dall’atmosfera magica o dal divismo cinematografico sono invece le immagini di Sto (Sergio Tofano, 1921), Angoletta (1951) e Jacovitti (1945 e 1964, escluse le versioni a fumetti), che inscenano una versione comica o parodica della Fata. Nel Pinocchio di Sto – l’inventore del signor Bonaventura – la Fata è personaggio secondario, che compare solo due volte: la prima come presenza angelica dall’abito bianco, ma vista da dietro, la seconda come donna comune che regge la brocca sulla testa mentre rivolge uno sguardo di rimprovero a uno sgomento Pinocchio [fig. 1a]. Bruno Angoletta, il creatore della recluta Marmittone, disegna una Fata boccoluta dalle labbra pitturate, un po’ diva ma in versione casalinga, che indossa un abitino con maniche corte a sbuffo e colletto inamidato [fig. 1b]. Ma è Jacovitti a distanziarsi dalle immagini più seriose del personaggio, disegnando una Fata decisamente brutta che pure nel suo palazzo con candelabri e colonne tortili indossa un grembiulino bianco [fig. 2]: per fare diventare donna comune quella fata ordinaria, gli basta sistemare la sua coroncina di fiori a ornamento di un buffo cappello.

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La Fata è personaggio mutevole, sfuggente, enigmatico. Appare per la prima volta come fantasma, bambina morta dal viso di cera nella casina bianca in mezzo al bosco, per poi rivelarsi potentissima fata nella sua lussuosa dimora dalle pareti di madreperla; ma in seguito perde i suoi fiabeschi orpelli barocchi per divenire una «buona donnina» (Collodi, 2012, p. 145) del popolo, una elegante signora col medaglione, una capretta e un’immagine di sogno. Anche i suoi rapporti di parentela col burattino cambiano nel corso della storia: da spettatrice indifferente di un dramma diventa sorellina, poi mamma di Pinocchio. Non abbiamo neppure notizie certe sulla sua età; sappiamo che abita nelle vicinanze del bosco «da più di mill’anni» (Collodi, 2012, p. 111), ma la incontriamo per la prima volta bambina per poi ritrovarla donna. Ben poco conosciamo del suo ‘vero’ aspetto al di là delle sue trasformazioni e dei suoi travestimenti, se non che è bella e che ha i capelli turchini. Il colore turchino, in effetti, pare l’unico elemento identitario a permanere nelle varie metamorfosi: pure la capretta che osserva dallo scoglio Pinocchio in mare ha il pelame turchino. Più definito, invece, è il suo carattere, per quella tendenza allo scherzo crudele a fini pedagogici che la spinge persino a fingersi morta.

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 Creatura moderna per eccellenza, Pinocchio vede la luce nel secolo del burattino, della marionetta, del corpo meccanico. Dal mostro del dottor Frankenstein, assemblaggio meccanico e industriale, protagonista del romanzo di Mary Shelley (1818), a Olympia, bambola automatica del Sandmann (1816) di E.T.A. Hoffmann, il secolo Diciannovesimo consegna il treno e la locomotiva, le mastodontiche macchine tessili della prima rivoluzione industriale e l’industria elettro-meccanica alla guardinga ma speranzosa penna di poeti e illustratori.

Tra le nostalgie pastorali e il trascinante tempo di una modernità tanto incipiente quanto sinistra, in Italia numerosi poeti, scrittori e intellettuali, tra i quali Carducci, D’Annunzio, Marinetti e lo stesso Collodi, si uniscono al coro dei circospetti sostenitori del progresso tecnologico e meccanico, spesso contemplato attraverso lenti retoriche e neoclassiche. La riflessione marxista sulle modalità del lavoro nell’economia capitalista e la meccanizzazione del corpo operaio, tra entusiasmo per la macchina simbiotica e preoccupazione per gli effetti della ripetizione automatica sul corpo umano, che solleciterà qualche decennio successivo le pertinenti riflessioni di Antonio Gramsci, rimane tuttora velata.

Il corpo meccanico che agita e sconquassa l’Ottocento industriale europeo trova espressione eloquente nelle arti visive non meno che in letteratura. Nelle trasposizioni visive, il legnoso e angolare burattino collodiano si colloca all’interno di un’estesa genealogia di automi e creature robotiche che celebrano o demonizzano gli albori della prima civiltà industriale.

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Il volume L’Orlando furioso. Incantamenti, passioni e follie. L’arte contemporanea legge l’Ariosto (Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale, 2014), nato in occasione della mostra ideata e curata da Sandro Parmiggiani per celebrare il cinquecentenario della prima edizione del Furioso (Reggio Emilia, Palazzo Magnani, 4 ottobre 2014 - 11 gennaio 2015), mira programmaticamente ad andare oltre l’occasione espositiva e a offrire, a un pubblico di specialisti e non, una serie di sguardi critici inediti su alcuni aspetti centrali del poema. Il libro – spiega nel saggio introduttivo il curatore – si pone così alla stregua di un attraversamento ideale in cui a quattro sezioni d’immagini, volte a dar conto della ricchezza del percorso espositivo, formato da opere di oltre cinquanta artisti, tra pittori, scultori, illustratori, autori di fumetti e fotografi, si accompagnano altrettante sezioni di saggi, affidati a quindici autori scelti tra studiosi di letteratura, storici dell’arte, antropologi, poeti, scrittori e scienziati. Alle testimonianze dell’ampia produzione artistica contemporanea, nata in prevalenza in occasione della mostra, si associano poi, poste in apertura e a corredo dei saggi, le riproduzioni delle illustrazioni delle principali edizioni antiche illustrate del Furioso, nonché di stampe sciolte, di tele e di disegni che il poema ha ispirato dal Cinquecento ad oggi. La mancanza di una ricostruzione in sede espositiva dei momenti salienti della plurisecolare fortuna figurativa del poema, imposta dalle ristrettezze dei fondi pubblici, è così, almeno in parte, colmata, offrendo un’occasione preziosa per ammirare, tra gli altri, i documenti della straordinaria raccolta ariostesca ‘Angelo Davoli’ della Biblioteca municipale ‘Antonio Panizzi’ di Reggio Emilia. L’organizzazione del volume sollecita quindi un dialogo sottile tra immagini e parole, che – spesso non facilitato, ma neanche condizionato, da rimandi espliciti – apre di fronte a chi legge un ampio panorama di questioni e ne propone una varietà di letture, racchiuse in una molteplicità di linguaggi e codici.

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Per i tipi del Verri, è uscito nel 2014 lo studio di Alessandro Giammei Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja. Topi, toponimi, tropi, cronotopi, risultato dalla rielaborazione della tesi di laurea dell’autore. Lo studio è apparso subito meritevole, tanto da essere insignito del prestigioso Edinburgh Gadda Prize – Novecento in saggio (edizione 2015), istituito dall’Università di Edimburgo. Il libro ricostruisce accuratamente la storia culturale della produzione poetica di Toti Scialoja (dalle rime zoomorfe ai poemi in prosa, agli ultimi componimenti), nel quadro di una storia del nonsense italiano, rifiutando una volta per tutte la presunzione di Tomasi di Lampedusa che quella italiana sia una letteratura condannata alla serietà (p. 11). Centrale, e senz’altro innovativo rispetto alla bibliografia esistente, è lo studio della biblioteca dell’autore a via di Santa Maria in Monticelli a Roma. Il libro è ispirato, direi addirittura nutrito anche dalle prime esperienze di Giammei come insegnante di italiano a studenti principianti presso la New York University, e ancora prima presso la sede romana del Dartmouth College – oggi Giammei insegna letteratura italiana a Princeton – testimonianza dell’emergere di una nuova coscienza linguistica, «un’idiomatica fanciullezza» (pp. 8-9). Questo libro sfrutta la sensibilità specialissima del suo autore per i confini delle possibilità espressive dell’italiano, verificate sull’opera di Toti Scialoja, un autore che aveva cominciato la propria esplorazione metalinguistica proprio durante e attraverso un’esperienza di esilio linguistico all’estero, precisamente a Parigi.

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