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L’articolo analizza la dimensione visuale all’interno dell’opera narrativa di Umberto Eco, anche alla luce della produzione saggistica. Vengono indagate la funzione delle ‘immagini seminali’ nell’elaborazione dei romanzi, la riflessione sui meccanismi retorici dell’ipotiposi e dell’ekphrasis, il rapporto tra immagine e memoria e in particolare il ruolo dell’apparato iconico nei due romanzi illustrati, La misteriosa fiamma della regina Loana e Il cimitero di Praga. Emerge così la persistente presenza del tema dell’Apocalisse, dove convergono la dinamica della visione e i meccanismi della rivelazione nel postmoderno.

The article analyzes the visual dimension within the narrative universe of Umberto Eco, also in the light of non-fiction oeuvre. The objects of the investigation are the function of ‘seminal images’ in the elaboration of novels, the reflection on the rhetorical mechanisms of hypotyposis and ekphrasis, the relationship between image and memory and in particular the role of iconographic inserts in two illustrated novels, The mysterious flame of Queen Loana and The Prague Cemetery. In this way it’s pointed out the persistent presence of the Apocalypse theme, where the dynamic of vision and the mechanisms of revelation in post-modern age converge.

 

1. In principio era l’immagine

All’origine della scrittura di Umberto Eco c’è l’immagine. Lo ha rivelato lo stesso autore, in un preciso autocommento sulla preistoria della propria attitudine narrativa:

Di questa produzione giovanile – l’autore fissa l’età del proprio apprendistato da romanziere «tra gli otto e i quindici anni» – è sopravvissuta ai vari traslochi solo un’opera «di genere incerto», dal titolo In nome del “Calendario”, diario del mago Pirimpimpino che «descriveva (e disegnava) l’isola su cui regnava»: nell’archivio dello scrittore è nascosto dunque un quaderno dalle sottili righe orizzontali e dai grandi margini verticali viola in cui «il testo si alternava a disegni e il racconto (che non rispondeva alle regole di alcun genere) sfociava nell’enciclopedia – col senno di poi si vede come le audacie infantili possono determinare le debolezze dell’età adulta».[2] L’autore ammicca al lettore e retrocede agli anni della prima formazione la scoperta della funzione generativa affidata alle immagini. Costruisce così un’ipotesi genetica di lunga durata per la propria scrittura finzionale, che trova conferma nei romanzi.

Dopo aver messo a fuoco l’immagine iniziale, bisogna costruire attorno ad essa la storia, ‘ammobiliare’ un mondo: e così «il resto è nato a poco a poco, per dar senso a quell’immagine», insieme con la decisione di ambientare la narrazione nell’amato Medioevo, «leggendo, rivedendo delle immagini, riaprendo armadi dove si erano accumulate da venticinque anni le mie schede medievali, stese per tutt’altre ragioni».[4]

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L’articolo offre un’analisi di Salons, libro poco noto nella produzione di Giorgio Manganelli, che riunisce trentacinque articoli pubblicati nel corso del 1986 su «FMR». I corsivi commentano delle immagini, sottoposte a Manganelli dall’editore Franco Maria Ricci: raramente assimilabili a vere recensioni, si sviluppano piuttosto come libere digressioni, che spesso implicano un discorso metaletterario o ripercorrono temi cari all’autore. L’impianto del libro, apparentemente rigoroso, in realtà policentrico e imprevedibile nella distribuzione dei contenuti, risponde ad una sensibilità barocca e ricorda la metafora (tratta dalla topica) del libro come meravigliosa architettura. Spesso il rapporto didascalico fra figura e testo viene eluso, o il punto di congiunzione rimane implicito. In molti casi Manganelli, a partire da un particolare aspetto della figura, la proietta entro il perimetro della sua ‘teologia negativa’, in tutta la sua complessità e contraddittorietà. Nel libro ricorre inoltre una questione centrale nell’estetica contemporanea, la relazione fra linguaggio figurativo e verbale: Manganelli tende a subordinare il primo al secondo, oppure a farli coincidere sotto la comune bandiera della retorica. 

This paper analyses Salons, a lesser-known book by Giorgio Manganelli, which brings together thirty-five articles, all previously published (in 1986) on the journal «FMR». Instead of being mere comments on the pictures selected by the publisher, Manganelli’s articles unfold as a series of digressions and reflections on literature. In the first part, I will tackle the organization of Salons showing how a multicentre structure underlies its ostensible geometry and develops the Baroque metaphor of the book as a stunning architecture. Thereafter, I will provide some examples of the, often purposely hidden, interaction between text and images. I In particular, I will show that Manganelli sometimes focuses on a detail of the artwork to develop his own ‘negative theological’ view, subordinating the visual language to the written language as much as bringing them together under the common flag of rhetoric.

 

 

Quali erano le idee di Giorgio Manganelli sulle arti figurative? Se si cercassero nelle interviste le testimonianze dirette dei suoi giudizi, non si troverebbe molto. Laddove, infatti, egli fa costante riferimento alla musica,[1] le arti visive sembrano essere volutamente eluse, anche quando le domande dei giornalisti sembrerebbero stimolarlo ad affrontare il tema.

Da questo tuttavia non si deve dedurre un suo disinteresse per l’argomento: è anzi più plausibile pensare a un consapevole ‘depistaggio’ (procedimento a cui l’autore non sarebbe affatto nuovo). Se infatti, tralasciando le interviste, si ripercorre la produzione letteraria manganelliana, è possibile intuire una passione per l’arte a lungo coltivata e meditata. Negli Appunti critici del 1948-1949, il Nostro nomina Walter Pater dimostrando di conoscerlo a fondo (l’aveva incontrato nei suoi studi di anglistica, forse per tramite di Praz);[2] altrove, in reportage di viaggio e articoli su giornale, egli invoca ripetutamente l’arte a similitudine con la natura, in virtù della qualità di ‘spettacolo’ che è propria di entrambe.[3]

L’opera che tuttavia ci consegna il quadro più completo del rapporto di Manganelli con la visualità è un’altra. Nel 1986, appena un anno dopo la seconda edizione del suo provocatorio manifesto (La letteratura come menzogna, prima ed. 1967), egli riceve da Franco Maria Ricci l’incarico di ‘corrispondente d’arte’ per la rivista «FMR»: da questa commissione risulteranno trentacinque prose, riunite e pubblicate l’anno successivo con il titolo di Salons.[4] Un nome che evoca Diderot e i suoi reportage per Correspondance littéraire (1759-1781), ma ovviamente con fine decostruttivo e ironico. Infatti, laddove nei suoi Salons Diderot aveva seguito con attenzione lo sviluppo della pittura moderna, ‘battezzando’ la nuova figura del critico d’arte, la selezione di opere che Ricci sottopone alla penna di Manganelli sembra obbedire ai soli criteri dell’inattualità e della disomogeneità. Dal tessuto art nouveau alla tabacchiera di fine Settecento, dalla statua africana a Renato Guttuso, questo libro-almanacco ricorda, più che un’esposizione d’arte, una raccolta di preziosi souvenir di viaggio: un viaggio completamente immaginario, escogitato dallo scrittore in realtà immobile alla sua scrivania, e che forse vuole echeggiare (di nuovo con un forte contrasto) i viaggi in terre lontane che Manganelli realmente aveva intrapreso, nella sua lunga carriera di scrittore e di corrispondente.[5]

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In più occasioni Calvino insiste sull’ispirazione visiva dei tre racconti fantastici che compongono i Nostri antenati. Lo scrittore ligure non ammette però che accomuna le tre immagini di partenza la stessa sfera metaforica, ovvero la corporeità e le limitazioni alle quali è sottoposta. L’intervento intende esaminare le declinazioni di questa scrittura per immagini che ruota intorno all’idea di superamento dei limiti della corporeità, quale metafora del «realizzarsi come esseri umani». Le metamorfosi a cui è sottoposto il corpo nel Cavaliere inesistente e la loro rappresentazione vengono analizzate come caso esemplare di questo processo creativo che sta alla base della trilogia di Calvino.

Italo Calvino has often pointed out that the three novels of the trilogy Our Ancestors have their primary inspiration in specific images. He, however, has never remarked that the three visual sources belong to the same metaphorical field: the body and its limits. The article examines how Calvino’s literary development of those images revolves around the central issue of overcoming physical limitations as a metaphor for “self-realisation as human beings”. The metamorphoses of the body in The Nonexistent Knight and their literary representation are here investigated as a foremost example of this pivotal process at the core of Calvino’s trilogy.

 

1. Il volto degli antenati

L’attività di autoriflessione di artisti e scrittori è fenomeno ben noto e prezioso per la critica letteraria, dal momento che negli spazi di autocommento spesso si annidano rivelazioni illuminanti sui testi e la loro genesi.[1] Se in molti casi gli autori sono stati parchi nel fornire commenti alle proprie opere, Italo Calvino, per contro, si è dedicato a tale attività in modo potremmo dire sistematico e cospicuo. L’autore ligure non soltanto ha frequentato in modo estensivo la forma saggio, autoinvestigando attraverso gli strumenti della saggistica le proprie scelte poetiche, ma in più occasioni ha dichiarato intenti e significati dei suoi scritti in introduzioni e prefazioni prodighe di dettagli e spiegazioni sui testi che accompagnavano.

La Prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno è forse lo scritto più noto della produzione calviniana di autocommento. Non meno rilevanti e illuminanti, però, sono altri testi prefatori, come ad esempio i due scritti, uno edito e l’altro emerso grazie ai Meridiani mondadoriani, che illustrano genesi e significati della trilogia araldica dei Nostri antenati.

Nel 1960, in occasione della pubblicazione dei tre romanzi in un volume complessivo, Calvino sente infatti la necessità di illustrare le ragioni che fanno di queste opere un ciclo unitario e compiuto. I volumi che compongono i Nostri antenati, benché nati in momenti lievemente differenti (’52, ’57, ’59) – e fortemente ancorati alle circostanze storiche in cui vennero concepiti –, condividono una matrice genetica comune, sulla quale Calvino insiste sia nella versione edita della Postfazione sia nello scritto che non venne pubblicato: questi romanzi – come molte altre opere calviniane – non sono nati da concetti ben distinti e chiari per l’autore, che attraverso la trasfigurazione fantastica li ha voluti descrivere, sono sorti invece da tre immagini, dalle quali poi hanno preso forma delle questioni che in seguito rimangono sempre centrali per Calvino.

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La presenza di alcuni pittori indipendenti nello studio fotografico di Nadar nel 1874 a Parigi inaugura una nuova storia dello sguardo. In quella stessa occasione monsieur Manet presenta al Salon ufficiale La ferrovia, cercando più un dialogo con la tradizione che uno scontro accademico. Quest’opera tanto chiacchierata apre il saggio-racconto di Victor Stoichita, Effetto Sherlock (il Saggiatore, 2017).

Quello che il critico rumeno presenta nelle duecentoquarantatré pagine del suo ultimo lavoro è in parte suggerito dal sottotitolo all’edizione italiana: Occhi che osservano, occhi che spiano, occhi che indagano.

La copertina ospita un’enigmatica elaborazione grafica: una lente d’ingrandimento quasi sovrapposta a un’altra contiene il teleobiettivo del voyeur Jeff che dalla finestra sul cortile di Hitchcock (1954-55) è intento a spiare un ‘uomo alla finestra’, affacciato da una pittura di Caillebotte (1875). Questo incontro/scontro produce la sagoma di un terzo occhio che sembra spiarci, interrogare l’osservatore. L’invito dell’autore è chiaro: ci suggerisce di dare uno sguardo. Con stile impeccabile, con rigore logico e leggerezza immaginativa, Stoichita ci aiuta a indossare i panni dell’investigatore di immagini, accompagnandoci verso una storia dello sguardo da Manet a Hitchcock.

Nel quadro La ferrovia (1872-73) accade che non ci sia nessuna ferrovia. La cancellata nera elimina la possibilità della bambina (e la nostra) di scorgerne un solo frammento. L’opera sembra essere la cronaca di un oggetto fantasma che ci interroga sul possibile senso nascosto. Dialogando con la tradizione pittorica europea Stoichita trova nuove disquisizioni semantiche per indagare sull’accaduto. Profila sin da subito un leitmotiv che accompagna l’intero saggio: «lo sguardo ostacolato». Partendo dalla ferrovia di Manet, lo ritrova già nella pittura medievale, disegnando così, è il caso di dirlo, una strada ferrata che attraversa la tradizione del Seicento per giungere al cinema degli anni Sessanta. In questa lettura di viaggio, finestrini d’immagini della storia dell’arte e del cinema scorrono come paesaggi, sempre vari e contrastanti, accomunati dallo stesso tragitto semantico. Muovendosi dalle «figure-filtro» che nelle pitture impressioniste imitano la direzione dei nostri occhi, ostacolandola, Stoichita analizza un «sistema di filtri» (tende, umidità, alberi, e persone) che costringono a un continuo e frustrante «esercizio intellettuale della rivelazione». Il visibile non è più rassicurante: ostacolato perché opaco, singolare perché soggettivo, perde il punto di vista centrale e guarda da un’altra ‘prospettiva’.

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La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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The Adventures of Pinocchio (2007) del compositore inglese Jonathan Dove (nato a Londra nel 1959) sono una felice rivisitazione del capolavoro collodiano entrata ormai nel repertorio teatrale, almeno nei paesi anglosassoni: non è l’unica, s’intende, rilettura musicale recente della figura del burattino, perché per esempio una musicista italiana più o meno della stessa generazione di Dove, Lucia Ronchetti, ha vestito di suoni nel 2005 il Pinocchio. Un libro parallelo di Giorgio Manganelli (risalendo nel tempo, si può citare, restando in Italia, anche il Pinocchio di Marco Tutino, 1985); recentissimo è poi il Pinocchio del musicista belga Philippe Boesmans, presentato al Festival di Aix en Provence nell’estate 2017. Jonathan Dove è riuscito a scrivere un’opera che avesse tutti gli ingredienti e le costrizioni del genere senza perdere di vista le esigenze della popolarità, sul versante, affascinante ma anche scivoloso, della destinazione infantile (non scordiamoci che Pinocchio, mille volte seriosamente anatomizzato, è alla fine una favola): l’Inghilterra ama del resto, più di ogni altro paese in Europa, offrire teatro e musica ai bambini [fig. 1]. Ma Dove non è un musicista (solo) per bambini. Ebbe il suo primo successo operistico con una parabola contemporanea volta in incubo kafkiano: Flight (presentato al Glyndebourne Festival del 1998, su libretto di April De Angelis), che rievoca la storia vera di un richiedente asilo iraniano rimasto diciotto anni ‘in transito’ presso il Terminal 1 dell’aeroporto Charles de Gaulle di Parigi (la vicenda ispirò, indipendentemente dall’opera di Dove, il noto film The Terminal di Steven Spielberg, 2004, con Tom Hanks nella parte dello stralunato protagonista): nella realtà lo sfortunato iraniano fu ‘liberato’ solo nel 2006. Favola certo meno amara, ma non priva di tocchi di surrealtà è quella di Pinocchio, un libro che Dove racconta di aver sempre amato, sin da bambino: non tramite il troppo facile e chiassoso medium disneyano, ma attraverso l’ascolto e poi la diretta lettura di un libro che recava anche vivaci illustrazioni; particolarmente tenaci nella memoria del bambino, e poi dell’adulto, erano rimasti i conigli che portano la bara in casa della fatina, poi la balena, il pescatore-mostro, il grillo parlante, e altro ancora. Memoria visiva dunque [fig. 2], riaccostata dal musicista durante una gita italiana compiuta in età adulta presso il Parco Pinocchio del paese di Collodi, dove si può davvero camminare dentro la celebre storia.

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Nella figura di Pinocchio è insita una profonda ambiguità che la rende metamorfica e sfuggente alle classificazioni. Pinocchio è e non è allo stesso tempo: la sua è la storia della trasformazione di un pezzo di legno in bambino, ma è anche qualcos’altro di inspiegabile, una oscura e perturbante eccedenza di senso. Proprio sull’indagine della sfasatura tra significato di superficie (la storia del burattino) e significato nascosto (le innumerevoli altre storie possibili) si fonda il Pinocchio: un libro parallelo (1977) di Giorgio Manganelli [fig. 1]. Allo scrittore, ossessionato da Pinocchio (tanto da tenerne sempre una copia sulla sua scrivania), era stato affidato il compito di redigere un commento dell’opera collodiana, ma egli non può tenere a freno la sua immaginazione e scrive un libro autonomo, un ‘libro parallelo’ che sviluppa in tutte le direzioni le storie potenziali sommerse nell’originale attraverso una serie di divagazioni che risultano al medesimo tempo plausibili e improbabili. Per Manganelli un ‘libro parallelo’ non si configura semplicemente come una lamina che imita e trascrive l’originale, ma come un cubo, perché «esso è percorribile non solo secondo il sentiero delle parole sulla pagina, coatto e grammaticalmente garantito, ma secondo altri itinerari, diversamente usando i modi per collegare parole e interpunzioni, lacune e ‘a capo’». Se un libro viene inteso nelle sue tre dimensioni, allora «diventa così minutamente infinito da proporsi, distrattamente, come comprensivo di tutti i libri paralleli, che in conclusione finiranno con l’essere tutti i libri possibili». La regola aurea del ‘parallelista’ non può che essere formulata così: «Tutto arbitrario, tutto documentato». Nel testo originale sono presenti tutti gli indizi che, una volta sviluppati, conducono verso territori inesplorati, storie ulteriori, ambigue e contraddittorie [figg. 2-4].

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«Per aver fatto la scoperta che ho fatto d’esser fratello d’una sorellina buona come te, – rispose Pinocchio – sarei contento d’aver lasciato tutte le terre di questo mondo!»; così, con la scelta del protagonista di trattenersi sulla Luna e con il definitivo ricongiungimento alla sorella selenita di nome Rosina, da cui il burattino era stato accidentalmente separato alla nascita, si conclude Pinocchio nella luna, pubblicato nel 1924 (alcuni repertori segnalano una prima stampa nel 1919), presso la casa editrice Bemporad, dal padre scolopio Tommaso Catani (1858-1925). Insegnante di storia naturale alle Scuole Pie di Firenze e prolifico autore di testi scolastici e di libri per ragazzi, Catani aveva già dato alle stampe nel 1910, presso lo stesso editore, il «romanzo umoristico» Rosellino nella Luna. Mutati il titolo e i nomi di alcuni personaggi (Pinocchio e Rosina sostituiranno Rosellino e Terrina), variatane in parte la struttura narrativa (originariamente organizzati in tre parti, i trentaquattro capitoli saranno poi preceduti da didascalie riassuntive) e inseriti sparsi richiami alle Avventure collodiane, l’autore riproponeva la storia con l’aggiunta di sedici tavole a colori realizzate dal fiorentino Corrado Sarri (1886-1944), illustratore di un’edizione di Pinocchio uscita nel 1923 per i tipi della Società Editrice Toscana (su licenza temporanea della Bemporad), e poi più volte ristampata.

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Sulla scia di chi si è imbattuto nel personaggio di Pinocchio e non ha potuto fare a meno di ‘dialogare’ con lui si colloca Stefano Bessoni, scarabocchiatore (come lui stesso ama definirsi), regista e animatore romano, che nel 2014 ha proposto un’interessante e intensa riscrittura figurativa e testuale dell’originale collodiano con il suo Pinocchio. Anatomia di un burattino.

Già nel 1997 Bessoni aveva riletto l’opera di Collodi in forma di videoteatro con Pinocchio apocrifo, contaminando le avventure del burattino con influenze lombrosiane e shelleyane. In quell’occasione la ribellione della creatura forgiata dalle mani di Geppetto rimandava alla creazione in vitro dell’Homunculus di Paracelso o al perturbante Frankestein di Mary Shelley.

È lo stesso Bessoni a dichiarare della pagine del suo blog come l’anatomia, la teratologia, la patologia e altre forme di scientificità ossessiva facciano da sfondo a un nucleo di personaggi «riprodotti secondo una logica molto vicina a quella dell’uomo tardo medievale, come se Pinocchio fosse stato scritto, anziché da Carlo Lorenzini, da un sanguigno commediografo elisabettiano, per poi passare nelle mani di pittori come Bosch o Bruegel». Il primo Pinocchio bessoniano, muto e infelice, mostra i tratti del ‘delinquente nato’ di Cesare Lombroso, e su tutti aleggia il fantasma di Antonin Artaud che trasmuta il mondo in un luogo crudele e spietato, fatto di dolore e thanatos.

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