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Per secoli l’illustrazione è stata definita come ‘arte del margine’ per la posizione che occupa nella pagina, sorta di cornice del testo scritto, supplemento ornamentale che delimita graficamente le sezioni del libro. Per questo ruolo ancillare, squisitamente estetico, dell’immagine, lo studio dell’illustrazione è stato a lungo relegato nell’ambito della storia dell’arte e della storia del libro. È solo a partire dagli anni Novanta che si è assistito a una nuova specifica tendenza di ricerca, grazie principalmente a tre fattori.

In primo luogo, con la valorizzazione del libro come bene patrimoniale nazionale vengono riscoperti i cataloghi stilati da bibliomani e conservatori, che costituiscono il materiale di base per una nuova ricognizione bibliografica, volta a riscoprire i libri con immagini, in particolare ottocenteschi (fondamentali in tal senso sono stati i lavori di Gordon Ray, Jean Adhèmar, Paola Pallottino). Su quest’onda, in concomitanza con lo sviluppo dei visual studies, sono emersi i primi studi che analizzano l’illustrazione come prodotto culturale, cercandone costanti e varianti stilistiche, interrogando il suo ruolo nella fortuna del romanzo ottocentesco (si vedano in particolare i numerosi studi di Ségolène Le Men). In terzo luogo, la pubblicazione dell’ormai famoso volume curato da Alain Montadon, Iconotexts (Ophrys, 1990), nel quale l’illustrazione è esclusa dalla categoria di ‘iconotesto’, ha scatenato un dibattito critico attorno a questa definizione (sul quale si rimanda ai lavori di Peter Wagner, Benoî Tane, Jan Baetens) che ha portato anche la critica letteraria ad avvicinarsi ai libri con figure.

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Non sto dicendo che riesco costantemente rimanere fedele a questo principio, nel mio lavoro, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre stia nello scopo da cui è mosso il cuore di quell'arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l'amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare di te che ama, invece di quella che vuole soltanto essere amata.

David Foster Wallace, Un antidoto contro la solitudine

 

 

 

In occasione dell’anniversario della nascita di Pier Paolo Pasolini, avvenuta un secolo fa, Arabeschi dedica uno spazio tra le sue pagine a Valentina Restivo, illustratrice livornese, classe 1983, che da anni lavora anche sul poeta corsaro e sull’immaginario cinematografico che ci ha lasciato in eredità.

Partendo da frames estrapolati da alcuni film pasoliniani che fanno la storia della cinematografia non solo nostrana, come Teorema, Il Vangelo secondo Matteo e Salò o le 120 giornate di Sodoma, Restivo ricostruisce fotogrammi di memoria in veste grafica, non rinunciando a tradurre i volti e gli sguardi dei personaggi-attori in tutta la loro densa corposità.

Laureata in Cinema e immagine elettronica presso l’Università di Pisa, gli studi di Restivo su Pasolini risalgono proprio agli anni della sua formazione, avvenuta anche presso la Scuola Internazionale di Arte Grafica, e perdurano fino a oggi, condensandosi dentro un milieu visuale da dove l’autrice continua a trarre le trasposizioni figurative dedicate allo scrittore bolognese. La mostra allestita quest’anno a Parigi, presso la Librairie Italienne Tour de Babel, curata da Silvia Pampaloni, ne è un’ulteriore prova.

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Abstract: ITA | ENG

Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.

Arose from the will of Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), the illustrator Stefano Ricci and the double bass composer Daniele Roccato to work on a common project, Madre made its debut in October 2020 at the Primavera dei Teatri festival in Castrovillari. Core of Marco Martinelli’s scenic poem is a diptych for two voices that do not meet and consume in a soliloquy the impossibility of a dialogue: a mother fallen to the bottom of a deep well and a son who cannot or does not want to save her. A fall that has somehow put in crisis the very idea of creation and generation embodied by the mother. The scene becomes, this way, a place in which the very modality of approaching the world can be rethought from its ground zero, through the ability to listen to it and to be in true connection with it. As Roberto Barbanti would say, a real overturning of the paradigm: from the retinal one, that is detached and one-dimensional, to the acoustic one, which is relational and polyphonic. Madre therefore seems to be precisely the field of action of such a challenge, a field in which we are all called to replace that son unable to listen to the world’s cry for help, before it’s too late.

 1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima

Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.

Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.

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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

 

«Non ho voluto raccontare la tragedia […] ma improvvisare e cogliere, in punta di matita, i movimenti, le battute e le espressioni che mi venivano alla mente pensando a questi due ragazzi che si innamorano, si guardano, si sfiorano, si baciano e finalmente realizzano il loro sogno d’amore» (Mattotti 2021, quarta di copertina). A parlare è Lorenzo Mattotti (Brescia, 1954), artista a tutto tondo, i cui interessi spaziano dalla pittura al fumetto, dalla musica al cinema, e questa sua riflessione sembra ritagliata perfettamente su Paolo e Francesca, ma si riferisce invece ad altri due celebri amanti, Romeo e Giulietta [fig. 1], cui l’artista ha recentemente dedicato un prezioso e raffinato, eppur potentissimo, piccolo quaderno in bianco e nero (14 cm di altezza per 18 di base, edizioni Logos). Dunque, Romeo e Giulietta e non Paolo e Francesca, ma la tematica resta la stessa, un amore contrastato e impossibile reso eterno dalla letteratura. E dalle immagini. In questo quaderno è come se Mattotti riprendesse idealmente un dialogo iniziato nel 1999 con l’illustrazione dell’Inferno dantesco per Nuages. In quell’occasione a essere rappresentati erano stati ovviamente i cognati di Rimini [fig. 2], colti al margine del vortice dei corpi, con Francesca in atto di allentare l’abbraccio di Paolo per protendersi verso Dante, serrato nell’angolo in basso a destra dell’immagine. I colori piatti ma vibranti riflettevano le passioni dei due amanti, rossi in volto per la colpa. Una passione giocata sul ritmo coloristico e visivo di forme intrecciate l’una all’altra, spirali morbidamente geometriche in grado di trascendere il riferimento diretto al testo per farsi messaggio universale. Un’immagine singola, capace di sintetizzare la narrazione assolutizzandola, che rivela un metodo di interpretazione visiva del testo che è complementare a quella evidenziata da Mattotti nella citazione d’apertura: in Romeo & Giulietta raccontare vuol dire inventare una storia partendo da uno spunto letterario, traducendolo in immagini che definiscono per certi versi una sequenza filmica, un susseguirsi di baci cercati e abbracci trovati. Sono due concetti di illustrazione, come detto, complementari, che nel presente contributo saranno presi in esame attraverso casi emblematici di artisti contemporanei, assai diversi tra loro sia a livello delle tecniche impiegate sia a livello teorico-concettuale.

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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

Il concetto di ecfrasi dev’essere necessariamente ripensato a seguito di alcune modificazioni tecnologiche, in particolare determinate dal medium fotografico, che ha alterato le modalità dello sguardo e, di conseguenza, la restituzione letteraria dell’oggetto artistico. La descrizione poetica diventa estremamente dettagliata, assumendo uno stile che può essere paragonato a quello dell’iperrealismo americano. Questi temi verranno indagati attraverso una campionatura di testi scelti nella produzione senile di Sanguineti, dove l’aspetto mimetico dell’ecfrasi viene portato alle estreme conseguenze, in quella che il poeta stesso ha definito un’«iperbolica fedeltà» alla fonte artistica.

Some technical innovations, mostly related to the medium of photography, have changed the way we observe reality and therefore the literary description of artworks, that is, the practice of ekphrasis. In this paper I will argue that the very definition of ekphrasis should be reassessed, acknowledging the impact of these technical innovations. In particular, poetic descriptions of artworks became more and more detailed, getting closer to what is called ‘American hyperrealism’. Selected poems by Sanguineti will be the main focus of our analysis. These poems allow to appraise Sanguineti’s claim that ekphrasis fully unfold sits mimetic power when it follows from a ‘hyperbolic accuracy’ to the artistic object of the poetic description. 

 

 

1. Premessa

Al di là di qualunque astrazione teorica e retorico-stilistica, l’evoluzione e la rimodulazione del concetto di ecfrasi in epoca contemporanea deve necessariamente intercettare alcune modificazioni materiali dei mezzi di produzione e riproduzione delle immagini.[1]

Nel momento in cui, attraverso l’istantanea fotografica, un’icona si offre all’osservatore secondo modalità di fruizione illimitata, con un incremento progressivo della nitidezza e della resa dei particolari grafici, lo sguardo dispone propriamente di un nuovo oggetto di visione (e, conseguentemente, di rappresentazione). Non si registra più la necessità di recarsi in pellegrinaggio estetico di fronte all’opera né di consultare riproduzioni sgranate e in bianco e nero; l’immagine è accessibile in ogni momento e con un grado di leggibilità e precisione addirittura superiore rispetto alla normale osservazione soggettiva, viziata da accidenti empirici o da allestimenti poco lungimiranti che non consentono un avvicinamento materiale dell’osservatore. La possibilità di disporre di un museo domestico senza barriere o vincoli spazio-temporali (per la durata potenzialmente infinita dell’atto di osservazione e per l’annullamento delle distanze e delle barriere dimensionali tra spettatore e opera d’arte) comporta, in alcune modalità contemporanee di scritture ecfrastiche, una resa iperrealistica e spregiudicatamente mimetica della fonte.

La prima conseguenza statisticamente rilevante riguarda la preponderanza dilagante dei casi di actual ekphrasis (ossia, secondo la definizione di John Hollander, componimenti ecfrastici costruiti a partire da quadri o sculture ‘reali’).[2] Rispetto alla reinvenzione del referente a opera della fantasia dell’autore (fino alla costruzione, a posteriori, di un quadro squisitamente letterario, come avviene spesso nella Galeria mariniana),[3] l’ecfrasi mediata dalla fotografia tende a risolversi in un gioco interlineare con la fonte, considerata alla stregua di un testo visivo con cui avviare una forma eccentrica e medialmente aggiornata di intertestualità. Lo sguardo fotografico, tuttavia, non rappresenta mai una traslitterazione neutra del contenuto iconico, giacché la visualizzazione di un quadro in fotografia (soprattutto se in bianco e nero) comporta alcuni fraintendimenti, errori di prospettiva, e in generale la focalizzazione su elementi diversi rispetto alla visione diretta della fonte – soprattutto per quanto riguarda le sculture, che la fotografia restituisce in una sola dimensione e attraverso la scelta autoritaria di un lato isolato dell’osservazione. Come asserisce Barthes in un saggio capitale dedicato al messaggio fotografico, la presunta oggettività dell’immagine fotografica come analogon del reale, privato del dualismo tra connotazione e interpretazione, è semplicemente un «mito» o un «paradosso estetico».[4]

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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

Protagonisti della Nuova Figurazione in Italia, Achille Perilli e Gastone Novelli intrecciano stretti rapporti di collaborazione con gli scrittori del Gruppo 63, in particolare, con Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani e Giorgio Manganelli, cui sono legati da una profonda amicizia e da una forte consonanza di intenti culturali. In questo contributo vengono rintracciate le affinità esistenti al livello delle poetiche tra i cinque autori a partire da alcune significative testimonianze della loro collaborazione, come la fondazione della rivista Grammatica, alcune pubblicazioni collettive, le “illustrazioni” ai testi letterari degli amici scrittori da parte di Perilli e Novelli e i testi critici o di poesia dedicati da Giuliani, Pagliarani e Manganelli alle opere dei due artisti. Dall’analisi delle opere emergono i particolari criteri che definiscono le modalità di interrelazione tra arte figurativa e letteratura stabilite dagli autori, assieme ad alcuni aspetti inediti sul rapporto tra le tendenze nate in reazione all’Informale e la letteratura della Neoavanguardia.

Achille Perilli and Gastone Novelli, protagonists of the so called ‘New Figuration’ in Italy, weave close collaborative relationships with the writers of Group 63, in particular, with Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani and Giorgio Manganelli, to whom they are linked by a deep friendship and a strong consonance of cultural intent. In this article, the affinities at the level of poetics among the five authors are traced starting from some significant proves of their collaboration, such as the foundation of the review Grammatica, some collective publications, the “illustrations” to the literary texts of the writers friends by Perilli and Novelli and the critical or poetry texts dedicated by Giuliani, Pagliarani and Manganelli to the works of the two artists. The particular criteria that define the modalities of interrelation between figurative art and literature established by the authors emerges from the analysis of the works, together with some new aspects of the relationship between the tendencies born in reaction to the Informel and the literature of the Neo-vanguard.

 

Sintomo e riflesso di una traumatica condizione storica, l’Informale, denunciando l’esaurimento delle forme della rappresentazione, si fa interprete di un momento di crisi dell’intero sistema artistico, che investirà anche la letteratura italiana, in tutta evidenza, con l’avvento delle poetiche elaborate dai Novissimi. Una marcata corrispondenza rispetto all’Informale sembra infatti connotare la poesia ‘novissima’ nel suo programma di decostruzione delle forme tradizionali del verso.[1] Tuttavia, al momento dell’edizione della nota antologia del ’61, con l’intervento di Sanguineti ‘Poesia Informale?’ accolto al suo interno, viene invero prospettata una strategia di superamento delle questioni poste dall’Informale, collocando i Novissimi in una posizione postuma rispetto ad esso e assimilandone la poetica alle pratiche pittoriche ricadute sotto il nome di Nuova Figurazione. Se nel suo intervento Sanguineti indica la strada per una riprogettazione della forma poetica e la necessità di un recupero della capacità, in sostanza, di ‘dire qualcosa’, a partire tuttavia dall’informe[2] – una fuoriuscita dalla ‘palude’ dell’Informale, ma con le ‘mani sporche di fango’ – similmente, la Nuova Figurazione si pone come il tentativo di rinnovare la facoltà comunicativa del segno pittorico dopo le derive dell’Informale, rielaborandone la lezione e mantenendosi a distanza da qualunque ritorno al mimetismo.

In diverse occasioni la critica ha già approfondito la posizione di Sanguineti rispetto all’Informale e alla Nuova Figurazione, focalizzandosi sui rapporti dell’autore con il gruppo dei Nucleari e con Enrico Baj in particolare;[3] rimangono tuttavia meno indagate le collaborazioni, assieme alle relazioni a livello delle poetiche, istauratesi tra gli artisti della Nuova Figurazione italiana e altri membri del nascituro Gruppo 63, che pure appaiono consistenti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

Le immagini ispirate al trittico araldico dei Nostri antenati non solo hanno saputo cogliere un aspetto essenziale delle tre opere di Calvino, ma spesso ne hanno fornito interpretazioni assai acute e inattese. L’intervento intende esaminare una recente transcodificazione visiva del Barone rampante, ovvero il Cosimo di Roger Olmos (2016). Il racconto per immagini dell’artista spagnolo sa dar conto e interpretare uno dei temi chiave del Barone, come di tutta la trilogia, ovvero le metamorfosi del corpo, che nel volume di Olmos divengono il fil rouge della narrazione iconica delle avventure di Cosimo Piovasco di Rondò e dei personaggi a lui vicini. Le trasformazioni fisiche a cui vengono sottoposti i protagonisti del romanzo di Calvino danno conto delle passioni incontenibili che accomunano tutti i personaggi che ruotano intorno al Barone, i cui corpi si fanno specchio e icona di tali monomanie che segnano la loro esistenza.

The images inspired by the trilogy Our Ancestors not only have grasped an essential aspect of Calvino’s work, but have often provided acute and intriguing interpretations of the three novels. The paper examines a recent visual transcoding of The Baronin the Trees, Roger Olmos’Cosimo (2016). Re-telling the story through images only, the Spanish artist focuseson one crucial theme of the Baron, as well as the entire trilogy, namely the metamorphoses of the body.In Olmos’ volume this theme thus provides the fil rouge for narrating the adventures of Cosimo Piovasco di Rondò and the other characters. In Olmos’ pictures, their physical transformations are shown to signify the overwhelming passions that affectthem, whose bodies become a mirror and an icon for the monomanias marking their existence.

 

 

1. Le immagini degli Antenati

Nel 1960, ripubblicando in un volume complessivo la trilogia dei Nostri antenati, Calvino riflette su ciò che lega le opere che la compongono.[1] Lo scrittore ligure insiste sulla comune matrice iconica dei tre romanzi, che li accomuna a molte altre opere calviniane.[2] Parlando del secondo volume della trilogia, il Barone rampante, l’autore rivela l’immagine che lo ha ispirato: «Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? sale, ed entra in un altro mondo; no: sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita».[3] Si tratta di uno dei, non numerosi, casi in cui Calvino traccia uno schizzo dell’immagine da cui ha tratto ispirazione.[4] Ma le icone di partenza celano, naturalmente, una spiccata dimensione metaforica che allude a scottanti questioni storiche ed esistenziali.[5]

Come sottolineato in altra sede, lo scrittore ligure sembra non prendere in considerazione, o non voler mettere in evidenza, nella sua autoriflessione un altro aspetto che tiene insieme i romanzi della trilogia. Le tre icone che ispirano i Nostri antenati condividono un campo metaforico ben preciso: la realizzazione di questa insolita umanità delineata da Calvino si concretizza nel travalicare dei limiti fisici, corporei.[6] Ispirandosi forse all’amato Ovidio citato in molte pagine calviniane, gli Antenati subiscono delle profonde metamorfosi del corpo.[7] Per ottenere una piena completezza interiore, si passa attraverso il dimidiamento fisico, la scissione in parti antitetiche; per affermare la propria presenza, il proprio ruolo sulla terra, bisogna sperimentare la distanza, diventare creature appartenenti a un altro modo, arboreo e non terrestre; infine, per esistere, per esserci, si deve rinunciare al proprio corpo, sperimentare l’assenza, la trasformazione estrema nel nulla dell’armatura vuota di Agilulfo. Per questa ragione Il cavaliere inesistente può essere considerato l’approdo, il compimento, della trilogia, non soltanto per ragioni cronologiche, ma perché mette in scena la metamorfosi più radicale della corporeità come metafora della realizzazione umana.[8]

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  • Arabeschi n. 15→
Abstract: ITA | ENG

È una frequentazione ormai pressoché costante, negli ultimi anni, quella della coppia di artisti e fotografi Adam Broomberg e Oliver Chanarin con l’opera fototestuale di Bertolt Brecht. Al 2011 risale la pubblicazione del fototesto War Primer 2, un autentico Abicí della guerra al quadrato che i due autori hanno composto sovrapponendo alle originarie immagini brechtiane una selezione di fotografie che raccontano momenti della "guerra al terrore" inaugurata dall’amministrazione Bush. Il risultato è un’opera sincretica dove le foto scelte da Broomberg e Chanarin, incastrate fra le parole e dentro le foto di Brecht, producono un insieme a tre voci non svincolabili l’una dalle altre, se non a rischio di una inevitabile perdita di senso. Si tratta di un’opera che mette evidentemente in crisi il concetto di autorialità, e in cui la relazione fra le parole e le immagini non è mai diretta o puramente illustrativa, ma sempre obliqua, “tensionale”. Il contributo approfondisce prevalentemente la forma, ancora non indagata, di questo fototesto e, con essa, la sua relazione strutturale e poetica con quello di Brecht. Ci si interroga inoltre sugli eventuali effetti di verità che le fotografie scelte dai due artisti innescano sulla memoria individuale e collettiva dei lettori/osservatori.

In recent years, artist/photographers Adam Broomberg and Oliver Chanarin have collaborated on an ongoing interaction with Berthold Brecht’s photo-textual work War Primer, which was released after long gestation in 1955. In 2011 Broomberg and Chanarin published War Primer 2, a veritable squaring of Brecht’s montage of photography and poetic epigrams, in which they replaced Brecht’s images of World War II with photographs of the Bush administration’s “war on terror”. The result is a syncretic work in which the photos selected by Broomberg and Chanarin, placed between and within Brecht’s, produce a chorus of voices distinguishable one from another only at the risk of sacrificing a sense of the whole. War Primer 2 thus pushes the concept of authorship to the breaking point: the relation between word and image is never direct or purely illustrative, but always oblique and “in tension”. This contribution concentrates on the still largely unexamined question of form in the Broomberg-Chanarin photo-text in its structural and poetic relation to Brecht’s, with particular attention to the truth effect that the photographs used by the two artists trigger in the individual and collective memory of reader/observers.

 

 

 

Photographs are the most capricious objects – way less faithful than words. They can’t be trusted.

Adam Broomberg, Oliver Chanarin

 

The real question to ask when confronted with these kinds of image-text relations is not «what is the difference (or similarity) between the words ant the images?» but «what difference do the differences (and similarity) make?» That is, why does it matter how words and images are juxtaposed, blended, or separated?

William J.T. Mitchell

 

 

Racconta Milan Kundera, all’inizio del suo Libro del riso e dell’oblio, che su un balcone di un palazzo nella piazza della Città Vecchia di Praga ha inizio la storia della Cecoslovacchia comunista. Da lì nel febbraio del 1948 Klement Gottwald, affiancato fra gli altri dal compagno Vladimir Clementis, tiene il suo discorso ufficiale di presa del potere in una piazza gremita di gente. Fa freddo quel giorno, e il premuroso amico cede a Gottwald il suo berretto di pelliccia. Ed è così, con accanto Clementis e il suo colbacco in testa, che Gottwald è immortalato nelle fotografie ufficiali di quello storico discorso. Qualche anno dopo Clementis, accusato di tradimento, è giustiziato. Cancellato dalla storia, è cancellato definitivamente anche da quella storica fotografia, dove Gottwald da lì in avanti comparirà sì da solo, ma con il colbacco di Clementis ancora sul capo, a svelare platealmente l’inganno.

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Nel 1975, per i tipi di Franco Maria Ricci, esce il volume Ex-voto. Storie di miracoli e di miracolati, una galleria di riproduzioni di tele e tavole di legno che illustrano miracoli che Santi, Anime Purganti e la Vergine Maria avrebbero concesso ai committenti di quegli ex-voto. Giorgio Manganelli, chiamato a introdurre e presentare le immagini del volume e la selezione dei testi che le accompagnano, dà vita a un ‘testo parallelo’ che diviene l’occasione per il proprio ennesimo e vertiginoso viaggio negli abissi del sentire contemporaneo, intorno alle idiosincrasie tra la coscienza e l’esistente, tra il reale e la conoscenza più profonda di esso, tra il linguaggio e ciò che esso racchiude nelle proprie nominazioni. Ennesima prova del fatto che Manganelli si colloca in quell’interregno tra letteratura e filosofia, con un particolare legame con la cosiddetta ‘filosofia della differenza’, in compagnia di personalità altrettanto proteiformi come Bataille, Klossowski e Blanchot.

In 1975 Franco Maria Ricci publishes the volume Ex-voto. Storie di miracoli e di miracolati, a gallery of reproductions of canvas and wooden boards which illustrate miracles bestowed by Saints, Souls of Purgatory and Virgin Mary to the people who commissioned those ex-votos. Giorgio Manganelli is asked to introduce and present that images and the selection of texts published next to them. His ‘parallel text’ becomes the opportunity for his umpteenth and dizzy trip inside the abyss of contemporary feeling and inside the idiosyncrasy between conscience and life, reality and the deepest knowledge of it, language and what’s enclosed in its nominations. An umpteenth demonstration that Manganelli belongs to that interregnum between literature and philosophy, with a particular connection to the socalled ‘philosophy of difference’, among equally protean personalities such as Bataille, Klossowski and Blanchot.

 

 

Percepire è riconoscere ciò che soltanto ha valore, ciò che soltanto esiste veramente. E che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?

Cristina Campo

 

1. Un testo parallelo al non-testo delle immagini

È il 1987 quando, all’interno della collana Morgana, nelle preziose edizioni di Franco Maria Ricci, viene dato alle stampe quell’unicum nella carriera di Giorgio Manganelli intitolato Salons. Quella galleria di brevi saggi che egli aveva scritto a commento di altrettante immagini che l’editore parmense gli aveva sottoposto nei due anni precedenti, dando vita così a prose che spiazzavano la critica d’arte, conducendola, come di consueto avviene con Manganelli, a esiti paradossali ed estremi, che decostruivano in modo straordinario il rapporto tra immagine ed estetica, tra l’oggetto e le possibilità di una sua descrizione, interpretazione o commento.[1]

Ma dodici anni prima, nel 1975, un altro volume a firma di Giorgio Manganelli era già uscito per i tipi di Franco Maria Ricci: si tratta del numero 17 della collana I segni dell’uomo, intitolato Ex-voto. Un volume stampato in sole 3000 copie e dedicato, come da sottotitolo, a Storie di miracoli e di miracolati: un’ampia galleria di riproduzioni di tele e tavole di legno – scelte tra il XV e il XX secolo –, che la devozione popolare ha consacrato alla rappresentazione di un determinato miracolo che si riteneva fosse avvenuto. La Madonna, le anime del Purgatorio o i santi, ringraziati per aver concesso una grazia e ‑ con mano solitamente naïf e con capacità tecniche non proprio raffinate – immortalati in compagnia del miracolato nell’istante prodigioso, in quadretti di piccola dimensione che testimoniano l’evento e la riconoscenza di chi ne avrebbe beneficiato.

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