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In un articolo scritto in occasione di una rappresentazione parigina de La locandiera con la regia di Visconti (1956), Roland Barthes sostiene di non riscontrare, in Goldoni, i caratteri tipici della Commedia dell’Arte: i personaggi anticipano e già appartengono, invece, a quella commedia borghese che il binomio Ponzio-Latella si cura, oggi, di far emergere con forza ancora maggiore attraverso un valido tentativo di riconfigurazione dell’ambiguità pura della maschera, secondo una chiave contemporanea che punta all’essenza, seppur complessa, di ciascun personaggio. A proposito delle simbologie tradizionali che attraversano il testo, lo spettacolo sembra rifarsi ancora una volta a Barthes, poiché del simbolo il testo mette in luce la costanza, mentre ciò che varia è la coscienza che la società ne ha e i diritti che gli accorda.

A gestire la tensione tra il palco e la platea, per mezzo di un interfono, è il locandiere Brighella (interpretato da Massimo Speziani): un concentrato di energie, contornato dal frac come da un preciso segno di pennarello. Perduti i rombi colorati del costume, l’Arlecchino di Roberto Latini è vestito del bianco che è la somma di tutti i colori. La sua trasparenza, quella di un prisma rifrangente la luce, è il contrappeso di uno spettacolo tutt’altro che pallido. Il suo corpo è acrobatico, la voce è masticata a fondo prima di essere emessa, articolata in un polifonico, talvolta inceppante, grammelot. Il timone della creazione è nel suo sguardo libero, spietato e penetrante, una lente che sembra ingrandire il senso delle parole del testo laddove si appoggia sulle pagine della sceneggiatura, chiarendole.

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Ritratto

di

     

[…] Si riconosceranno?: domanda goyesca.

Risposta siciliana: no, non si riconosceranno.

Caruso lo sa bene come siamo, come viviamo, come moriamo. La morte non è, finalmente, uno specchio in cui riconoscersi ma ancora una menzogna in cui nasconderci. L’ultima menzogna. E la prepariamo, la lievitiamo, la custodiamo. E perciò vorremmo morire «prima». Prima di morire. Per vederci morti in anteprima, in prova generale: ché lo spettacolo fili, ché la menzogna funzioni oltre la morte. E quasi sempre funziona.

Restiamo in due a riconoscerci: Renato Guttuso (quando si è qualcuno: la stanchezza, il tedio, l’angoscia) e io. In quella specie di morte che è un ritratto.

L. Sciascia, Al modo di D’Ors: glossario sui disegni siciliani di Bruno Caruso (1972)

Piaceva molto a Sciascia l’Autoritratto da finto morto di Luigi Capuana, forse proprio perché esemplificava perfettamente quelle osservazioni che nascono a margine della lettura dei ritratti di Bruno Caruso: il ritratto come «anteprima», come «prova generale» dell’ultima ed estrema menzogna. L’equazione quasi perfetta fra ritratto e morte, che Sciascia trova nel serrato e ammiccante dialogo ekphrastico con le opere esposte da Caruso alla Galleria La Tavolozza nel 1972, congiunge del resto le sporadiche riflessioni sciasciane dedicate al ritratto figurativo (si ricordi in primo luogo il saggio L’ordine delle somiglianze, 1967; ma anche il breve commento ai Ritratti scultorei di Mario Pecoraino, 1978) alla più compiuta analisi condotta sul Ritratto fotografico come entelechia (1987). Prescindendo – inevitabilmente in questa sede – dall’evidenziare le intertestualità presenti nell’opera narrativa, non si può però non pensare a Sciascia collezionista di ritratti di scrittori, ma anche soggetto accondiscendente di ritratti pittorici, scultorei, fotografici, nonché promotore della mostra Ignoto a me stesso, allestita presso la Mole Antonelliana con gli scatti dei volti di molti autori (da Edgar Alla Poe a Jorge Luis Borges). L’esposizione dei pezzi della collezione raccolti da Sciascia con cura e passione da amateur d’estampes (allestita a Racalmuto nel 2008 e ora divenuta permanente), ancora con il titolo Ignoto a me stesso, rappresenta chiaramente la naturale prosecuzione di quella ideata nel 1987 e conferma inequivocabilmente l’ossessiva presenza dell’oggetto ‘ritratto’ nell’immaginario dello scrittore.

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