1. Alterità
Nel panorama trionfante delle dive italiane degli anni Dieci del Novecento, Diana Karenne ha rappresentato il primo luogo il fascino (e di conseguenza il potenziale respingente) dell’alterità: straniera orgogliosamente ‘nordica’ in un paese in preda al patriottismo bellico, magra in un mondo di attrici procaci, cerebrale e indipendente in un contesto che certo non riconosceva in queste caratteristiche il modello femminile dominante.
Vero è che, in una società e in un cinema tradizionalisti come quelli italiani dell’epoca, guadagnarsi fama di eccentrica non era poi così difficile. Orlando Calvi racconta in prosa estatica una delle prime apparizioni della futura diva nel bel mondo della società romana, quando si recò a teatro indossando una vistosa parrucca bianca che si stagliava tra le chiome banalmente bionde, brune e castane delle signore presenti; vessillo artificiale proposto da Calvi e probabilmente dalla stessa Karenne come simbolo di una ben più sostanziale «originalità d’arte».
In effetti, al di là dell’eccitante immagine pubblicitaria di russa ‘un po’ matta’ (non era russa, anche se fu spesso presentata come tale, e nemmeno così matta come la definiva il produttore Gioacchino Mecheri, almeno a giudicare dalla pacatezza ragionevole dei suoi pochi scritti), l’originalità di interprete le fu immediatamente riconosciuta, già nel suo primo film importante, Passione Tzigana (1916). Titolo in cui, non a caso, secondo le recensioni d’epoca osò già infrangere il tabù di recente conio che vietava agli interpreti lo sguardo in macchina, rivolgendo direttamente agli spettatori i suoi occhi ‘di ghiaccio’.