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Non c’è salvezza se non nell’imitazione del silenzio.

Ma la nostra loquacità è prenatale.

Razza di parolai, di spermatozoi verbosi,

noi siamo chimicamente legati alla parola.

 

Cioran

 

La traduzione iconografica della Divina Commedia procede da sempre a fianco al suo secolare commento verbale: una tradizione, quella visuale, che ha consentito di risemantizzare nel tempo le qualità ecfrastiche delle terzine dantesche, consegnandole al denso universo delle immagini moderne, impegnate a tramandare il poema trecentesco fino ai giorni nostri. Le nuove visioni e ricostruzioni iconiche sono diventate uno stimolo e un pretesto.

Anche la spregiudicata libertà immaginifica professata dalle arti del Novecento non si è sottratta al fascino del poema dantesco e ha ritrovato, nei luoghi dell’ultraterreno, nei racconti delle anime sventurate e meritevoli, la metafora perfetta del viaggio dell’uomo, dando nuovo corpo e nuova voce al sentimento di finitezza e smarrimento che disorienta l’uomo moderno.

Gli artisti contemporanei, infatti, per riportare all’attenzione del nostro sguardo un riverbero della poesia dantesca non hanno solo ricercato le forme più audaci e le cromie più consone al loro sentire. Il magnetismo visuale, per niente sbiadito della Commedia, ha concesso loro di vestire i panni del viaggiatore/sognatore in cammino, alla ricerca di un sé frammentato da quella ormai nota modernità baudelairiana, transitoria, fuggitiva e contingente.

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La mia versione del Canto V dell’inferno dantesco viene pubblicata nel 1991 dalla Cooperativa del Raccolto, in una tiratura di duecentotrenta copie numerate e «con una litoserigrafia di Gianfranco Baruchello richiesta dal poeta». Le occasioni storico-contestuali della riscrittura portiana, ultimata il «14.8.1984», sono state pazientemente ricostruite da Alessandro Terreni grazie alla corrispondenza intrattenuta da Porta con il poeta olandese Martin Mooij (Terreni 2014, p. 551). Dall’epistolario portiano apprendiamo che, durante la quindicesima edizione del «Poetry International Festival» di Rotterdam (nel giugno del 1984), gli organizzatori avevano riservato una serata alla letteratura italiana, coinvolgendo personalità del calibro di Edoardo Sanguineti, Amelia Rosselli, Franco Fortini e Giuseppe Conte – come si può verificare consultando l’Archivio storico del Festival. Nel corso di questa soirée nazionale, gli autori non erano tenuti soltanto a declamare i propri versi, ma anche a partecipare attivamente a un laboratorio di traduzione poetica, incentrato monograficamente sul quinto canto della Commedia. In particolare, Porta era intervenuto nel dibattito conclusivo facendosi alfiere della necessità pedagogica di tradurre Dante anche per il lettore italiano contemporaneo.

In una nota programmatica intitolata Perché tradurre Dante (1985), Porta illustrerà le direttrici linguistiche e ideologiche che hanno determinato lo stile dell’esercitazione traduttoria realizzata l’anno precedente, all’insegna di una ritrovata comunicabilità del messaggio dantesco, alleggerito dall’«oppressione del secolare deposito delle interpretazioni solidificato nelle sempre più monumentali ‘note al testo’» (ivi, p. 552). L’esigenza di ‘snellire’ il vocabolario della Commedia può essere ascritta a una precisa querelle storica, che eccede il perimetro del festival olandese. Nel 1985 esce significativamente la nuova edizione dell’Inferno curata da Natalino Sapegno, nelle cui Avvertenze viene esplicitato l’intento di fornire «immediatamente il senso» dei versi danteschi anche al «lettore principiante». L’apparato (agile e informativo) deve mettere il lettore nella condizione di «valutare il peso di una secolare ed ininterrotta tradizione esegetica» (Sapegno 1985, p. v), indispensabile per garantire l’assimilazione della parola dantesca da parte della «sensibilità estetica di oggi» (ivi, p. xv).

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Come è inevitabile per un ‘libro’ che da sempre attira il commento, illustrando la Commedia dantesca spesso le immagini hanno incontrato l’‘esegesi’, raffigurando, più che il testo dantesco, l’esegesi dantesca, e producendo per questa via diasistemi culturali e multimediali molto interessanti da osservare.

In questa sede vorrei ragionare su un aspetto particolare (e sostanzialmente trascurato dalla filologia e dall’iconologia dantesche) della storia per immagini della Commedia (e dell’incontro tra esegesi e immagini cui ho appena accennato), ovvero sulla presenza/assenza di Francesca e Paolo nel contesto delle riduzioni disneyane del poema.

Al soggettista e sceneggiatore Guido Martina si deve l’ideazione di L’Inferno di Topolino, realizzato insieme ad Angelo Bioletto per i disegni e pubblicato a episodi (per un totale di 73 tavole) nei numeri 7-12 (ottobre 1949-marzo 1950) di Topolino [fig. 1]: e non sarà un caso che Dante stia all’origine sia delle Grandi parodie Disney (cfr. Catelli-Rizzarelli 2016, pp. 160-161), sia della «prima storia made in Italy creata appositamente per il Topolino nel suo nuovo formato tascabile» (Pietrini 2018, p. 82), nato appunto pochi mesi prima (nell’aprile 1949) con il passaggio da settimanale a mensile.

Questa riduzione disneyana della Commedia costituisce – per giudizio concorde degli studiosi (cfr. in particolare, per citare solo interventi degli ultimissimi anni: Rizzarelli 2016; Pietrini 2018; Barattin 2019) – un perfetto meccanismo parodico, grazie alla sua «riproduzione deformante dell’italiano medioevale» e alla sua «imitazione derisoria degli stilemi della poesia dantesca»; grazie alla sua «ripetizione martellante di alcune citazioni emblematiche del testo della Commedia e [...] loro deformazione ludica»; e soprattutto grazie al suo

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1. Commozione vs realismo

La poesia della Commedia risiede anche nella commozione del viator per la sorte delle anime incontrate lungo l’ascesa, in quel «ricevere e […] risentire – come scrive lo Auerbach di Dante als Dichter der irdischen Welt – i destini altrui che il suo sentimento forte e delicato e il suo intelletto giudicante avevano adunato» (Auerbach 1929, p. 83). Nell’episodio di Paolo e Francesca, nella «pietade» (v. 140) del poeta pellegrino per i due amanti, tale compassione (che nelle interpretazioni da sempre contende il campo alla compunzione per il peccato trascorso) raggiunge il culmine, manifestato somaticamente dallo svenimento di Dante. «E caddi come corpo morto cade» (v. 142): i cinque bisillabi che chiudono il canto sono l’immagine acustica del pulsare amplificato delle tempie prima del venir meno dei sensi.

Dante in precedenza era già svenuto, ma la similitudine verteva sul sonno, fratello della morte (cfr. Ritter Santini 1998), non sulla morte stessa: «e caddi come l’uom cui sonno piglia» (Inf. III, 136); la funzione rivestita dall’evento era inoltre precipuamente narrativa, onde giustificare il portento del passaggio dell’Acheronte. Nel canto V dell’Inferno, invece, la perdita dei sensi è diretta conseguenza dello struggimento del poeta: «come si strugge la neve al fuoco», commenta Boccaccio, collegando i turbamenti del cuore a quelli della memoria dopo il compimento del viaggio («così la neve al sol si disigilla», Par. XXXIII, 64).

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Un pittore italiano che, negli avanzati anni Ottanta dell’Ottocento, si proponga di dipingere un quadro su un tema dantesco, e dei più abusati, quale vantaggio ha su un suo collega di venti o trenta anni prima alle prese con lo stesso tema? Credo che questa sia una buona domanda per cominciare a interrogare il Paolo e Francesca di Gaetano Previati [fig. 1].

L’opera, inviata dall’artista alla Esposizione Permanente di Milano nel 1887 (una scelta sotto tono: c’era piuttosto da aspettarsi da lui l’invio di un quadro così importante alla coeva Esposizione Internazionale di Venezia, magari appeso accanto alle scandalose Fumatrici di haschisch), venne subito letta dai contemporanei come un episodio di rottura nella iconografia pittorica della Commedia. Le due recensioni maggiori di cui fu oggetto insistevano proprio su questo punto. Giuseppe Mongeri si diceva stupito e insieme ammirato per il coraggio dimostrato dall’artista nell’innovare un tema «pesto e ripesto, e servito in tutte le sue salse da oltre mezzo secolo» attraverso l’inaudita invenzione «dei due infelici amanti trafitti, l’uno nell’altro, dalla stessa spada, così doppiamente omicida, con un colpo solo» (Mongeri 1887). L’abitualmente cauto Alfredo Melani ammetteva di essere rimasto stregato, quasi suo malgrado, dalla straniante ambientazione contemporanea e da una regia luminosa che sottolineava la sovrapponibilità tra l’estasi della passione amorosa e l’orrore della morte (Melani 1887): un cortocircuito che nessuno, a Milano, chiamava ancora ‘decadente’. Se non veniva in aiuto il titolo non era così immediato associare il contenuto del quadro all’episodio conclusivo del V canto dell’Inferno: non c’è infatti traccia dell’omicida Gianciotto e neanche del libro galeotto la cui lettura condusse al primo bacio tra Paolo Malatesta e Francesca da Rimini; c’è invece, e di grandezza insolita, un letto senza età e senza fronzoli che allude all’amplesso prossimo. Basta sfogliare le pagine di cronaca della Perseveranza o del Corriere della Sera degli stessi anni per trovare trafiletti dove le vicende di amanti uccisi o suicidi sono date in pasto con crudele realismo ai lettori. Le ambientazioni che vengono raccontate in queste cronache sono sempre interni urbani, cupi e sinistramente peccaminosi, non troppo diversi da quelli del quadro di Previati: gli eccessi della bohème contaminano in modo preoccupante le abitudini della borghesia; solo che per amore si uccide, o ci si uccide, nella Milano del 1887, con la rivoltella o con il veleno, non con la spada.

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  Se le sale dell’Ermitage all’improvviso dessero fuori di matto, se i quadri di tutte le scuole e di tutti i pittori, all’improvviso si staccassero dai chiodi, penetrassero l’uno nell’altro, si mischiassero fra loro e riempissero di urla futuristiche e di una furiosa eccitazione cromatica l’aria che odora di chiuso, ne deriverebbe qualcosa di simile alla Commedia dantesca (Mandel’stam 2007, p. 118).

In un passo della sua Conversazione su Dante, il poeta russo Osip Mandel’stam concepisce l’opera dantesca come una fusione cromatica intensa e violenta e compone, a parole, un’immagine che desta fascino e terrore. Dentro questa bufera di colori l’autore scopre un Dante diverso, nuovo, che la tradizione letteraria è restia a tramandare; ci presenta un poveraccio, «un uomo senza fiducia in se stesso», goffo, tormentato e ramingo, incapace di mettere un piede avanti all’altro e costretto a farsi accompagnare da un poeta latino. L’intento di Mandel’stam è di tramandare la Commedia che sente più reale e vera, non ancorata agli aspetti simbolisti e romantici esibiti dalla cultura europea e vivi nella Russia del suo tempo; un poema, per usare i termini dello stesso autore, «sonoro e minerale», in grado di andare oltre la visione esclusivamente storica, politica e teologica di Dante. È «un’inquietudine spirituale», scrive Mandel’stam, che fa da sfondo alla scrittura del poeta fiorentino, «una imprimitura psicologica» – e ritorna di nuovo la pittura – che conferisce all’intero poema incanto e dramma.

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Del bacio fra Lancillotto e Ginevra se ne parla nella grande compilazione intitolata Lancelot-Graal (o Vulgata), di autore anonimo e redatta tra il 1214 e il 1224. Si tratta di un macrotesto composto da cinque grandi romanzi (Estoire del Saint Graal, Merlin, Lancelot, Queste del saint Graal e Mort Artu) di cui il Lancelot contiene la storia dell’innamoramento fra Lancillotto e Ginevra. Ed è proprio qui che si narra del bacio, ed è proprio questo passo che fa del libro arturiano, allo stesso tempo, «oggetto di rappresentazione e soggetto d’azione» (Pioletti 1988, p. 101). Dante può aver letto una versione in francese, ma non è da escludere che abbia potuto leggere del bacio tra i due in italiano visto che sono stati reperiti da Daniela Delcorno Branca (1988, p. I) sedici manoscritti che traducono il testo francese, sebbene non tutti presentino l’episodio del bacio.

Che cosa può aver letto Dante? Lorenzo Renzi (2007) ricostruisce assai bene, anche sulla scorta di una bibliografia ampia sulla questione, le circostanze che danno luogo al bacio tra Lancillotto e Ginevra. Va anzitutto precisato che l’innamoramento fra i due si realizza sin dal loro primo incontro e che viene descritto cogliendo tutti i tratti degli sguardi fugaci tra due che si piacciono. Ma è soprattutto Lancelot che viene rapito dalla bellezza della regina:

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1. Lettrici pericolose

Che cosa c’è di più pericoloso di una donna che legge? Per rispondere a questo interrogativo è sufficiente osservare delle rappresentazioni di una lettrice in arte e in letteratura: perlopiù danno luogo a temibili crisi mimetiche; il libro si trasforma nella porta d’accesso per mondi ‘altri’, nei quali le donne si lasciano risucchiare confondendo realtà e finzione, bene e male.

Il noto episodio dantesco dei due cognati di Rimini rientra a pieno titolo in una galleria visiva e letteraria di lettrici affette da pericolose patologie legate ai libri. Francesca, infatti, occupa il centro della scena come protagonista quasi assoluta di tutto il canto; anche nella scena della lettura, nella quale a Paolo viene momentaneamente trasferita la agency – saldamente detenuta per il resto dalla cognata – nel momento del fatidico bacio, il fulcro della narrazione resta inequivocabilmente la lettrice, fino al «punto che li vinse» (v. 132).

Tuttavia, sebbene la centralità della lettura e dei suoi effetti sia innegabile, i commentatori del canto V dell’Inferno, sin dai tempi di Boccaccio, spesso si sono lasciati distrarre da elementi accessori rispetto alla straordinaria essenzialità e forza narrativa con cui Dante mette in scena l’incontro con i due «peccator carnali» (v. 38). La vicenda di amore e morte ha suscitato infatti reazioni molto accese sia in coloro che, sull’onda dell’Esposizione sopra la Comedia di Boccaccio, hanno voluto assolvere Francesca da ogni colpa, sia in chi ha acerbamente castigato la fedifraga signora di Rimini (su questi due schieramenti opposti si veda almeno la ricostruzione di Renzi 2007, pp. 105-240).

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Nell’esplosione della fama di Paolo e, soprattutto, Francesca nell’Europa del xix secolo, gli artisti che si sono confrontati con la trasposizione figurativa di Inf. v sono stati tanto sedotti dalla coppia riminese che «hanno relegato in secondo piano o cancellato del tutto il giudizio morale implicato dall’Alighieri» (Battaglia Ricci 2018, p. 167). Del resto, autorevoli critici quali Ugo Foscolo scagionavano completamente la bella fanciulla del secondo cerchio: Dante l’avrebbe collocata all’inferno solo per obbedienza ai dettami della Chiesa e per tutelarsi da un Gianciotto ancora vivo e vegeto e possibilmente vendicativo, «but he introduces her in such a manner, that human frailty must pity her. Nature had given to her character the poetic cast» (Foscolo 1818, p. 346). Nel moltiplicarsi delle illustrazioni dedicate al soggetto, dunque, scompaiono progressivamente gli elementi strettamente infernali, pressoché onnipresenti nelle rappresentazioni medievali e rinascimentali, lasciando spazio a una commovente storia di amore e morte e alla trionfale bellezza dei due amanti sfortunati. In questo processo, la prima metà del canto viene sostanzialmente eclissata dallo spazio figurativo insieme ai suoi protagonisti, ovvero la «schiera ov’è Dido» (Inf. v, 85) e, con lei, «più di mille / ombre» di illustri lussuriosi puntualmente identificati da Virgilio. Mentre si consolidano diversi moduli iconografici interamente dedicati alla coppia (il bacio della storia seconda, la morte, l’ascensione di fronte al pellegrino) gli altri dannati, cui Dante dedicava ben quattrodici terzine (Inf. v, 31-72), nei rari casi in cui sono ancora presenti vengono relegati a una posizione del tutto marginale. Ne è un esempio il dipinto di Ary Scheffer datato intorno al 1835, in cui il riflettore è puntato su Paolo e Francesca e sulla reazione di Dante e Virgilio alle loro parole, mentre gli altri lussuriosi sono ridotti a un fondale indistinto sul lato destro del quadro, appena abbozzati e completamente messi in ombra [fig. 1].

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