Dopo la messa in onda delle prime due puntate in Gran Bretagna, trasmesse da Sky Atlantic nel maggio 2014, il comico britannico Ricky Gervais ha paragonato, con un tweet piuttosto eloquente, la serie italiana Gomorra a tre dei prodotti di maggiore successo della nuova serialità televisiva contemporanea:

The Wire, serie creata da David Simon e prodotta da HBO, trasmessa tra il 2002 e il 2008, per un totale di sessanta episodi in cinque stagioni, è il prodotto televisivo che più di altri è stato paragonato alla Gomorra seriale, creata da Stefano Sollima e ispirata al libro, ormai best-seller, di Roberto Saviano. Tale giudizio di merito, teso a legittimare la presenza di una serie italiana, seppur con appena due stagioni all’attivo, nel novero delle migliori serie televisive mondiali della storia recente, ha trovato un certo riscontro in buona parte della critica televisiva americana e britannica, che ha più volte riproposto il confronto. I primi, nel 2014, sono stati The GuardianGomorrah doesn't look a million miles away from the Baltimore of David Simon's superlative The Wire») e Variety («If further developed in this direction, “Gomorrah” might well turn into Italy’s answer to The Wire»), seguiti nell’agosto del 2016, subito dopo la messa in onda delle prime puntate della serie italiana sul canale televisivo via cavo americano SundanceTV, dal New York Times («it’s a grim, detailed, quotidian drama about the inner workings of organized crime – which has drawn comparisons to The Wire») e dall’Hollywood Reporter («Gomorrah won’t be a complete revelation because in many ways it pays homage to the best of American television, particularly HBO’s The Wire», e «the directions Gomorrah goes in that neither The Wire or The Sopranos chose»). Lo stesso Andrea Scrosati, Executive Vice-President Programming di Sky Italia, ha commentato, ancora al New York Times: «I don’t think anybody in Baltimore thinks that criminal activity taking place in the port of Baltimore happened because there was The Wire», collegando idealmente tra loro non solo i contenuti delle due serie, ma anche gli esiti dei dibattiti da esse suscitati.

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Nella recente campagna dedicata alle «grandi serie TV» di Sky, è un divano a ospitare i fan di Gomorra e i racconti della loro passione per la serie [fig. 1]. Un divano in stile rococò, sontuoso e riccamente decorato: oggetto d’arredo ideale per evocare, in un colpo d’occhio, le dorate prigioni in cui i camorristi provano a rinchiudere il loro privato.

Ma questo divano nella campagna Sky non funziona solo per sineddoche, e non si limita a una evocazione generica di sfarzosi interni. Piuttosto raddoppia, rappresentandone quasi una copia, un altro divano, un divano specifico, che vediamo entrare [fig. 2] e subito uscire [fig. 3] da casa Savastano nel primo episodio della prima stagione di Gomorra - La serie. Espulso dalla reggia del boss a causa delle microspie che vi erano nascoste, il divano lo ritroviamo una seconda e ultima volta nella bellissima sequenza che chiude l’episodio. Apparizione fugace, ma non per questo meno incisiva.

Il divano ci appare all’inizio come un’incongrua macchia giallo oro, abbandonato ancora perfettamente nuovo tra le erbacce e i rifiuti. Un ragazzino si avvicina furtivo [fig. 4], vi si acquatta dietro, e da dietro la decorazione lignea (che marca la soggettiva) osserva la strada di fronte [fig. 5]. Un altro ragazzino sta di vedetta, sorveglia un’entrata, ma non si è accorto di niente [fig. 6]. È un attimo, da dietro il divano, correre, raggiungerlo, prenderne il posto: «Ho vinto io, ora la faccio io la vedetta!» [fig. 7]. E vediamo il ragazzino beffato andarsene a testa bassa, attraversando la catasta di rifiuti, appena alle sue spalle il divano sgargiante e sullo sfondo la desolazione delle Vele di Scampia.

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«…veramente da vicino non è che fai così paura».

(Roberto Saviano a Salvatore Esposito)[1]

 

 

Quando Arabeschi ha pensato di dedicare una delle sue “Gallerie” ai dieci anni di Gomorra di Roberto Saviano, è stato subito chiaro che quel «Gomorra» non era il libro [fig. 1]. Certo, il libro era stato il punto di partenza, il gesto rivelatore, l’oggetto da cui far scaturire nuove riflessioni sulle forme narrative dell’impegno, ma Gomorra è un universo, di cui il romanzo è solo uno dei pianeti. I dieci anni di Gomorra, dunque, non vanno intesi come il compleanno di quella prima pubblicazione, ma come un lento e inesorabile percorso di ‘colonizzazione mediale’ che ha portato Roberto Saviano, di volta in volta con ‘truppe’ diverse, a marciare sulla carta stampata, sul cinema, sulla televisione, sul web. E tutti sappiamo quanto sia costata a Saviano questa marcia di continuo equivocata e strumentalizzata [fig. 2].

Senza esagerare, si può dire che Gomorra abbia rappresentato, in questo decennio, una sorta di passaggio obbligato sulla via di un’autocoscienza non solo civile e politica, ma in qualche misura anche mediale. Intendo dire che ha certamente rappresentato uno snodo decisivo nelle pratiche di avvicinamento dell’opinione pubblica ai temi della criminalità organizzata, ma ha altresì rappresentato un’occasione di riflessione sulla forma romanzo, sulla questione del realismo e dell’epica italiana, sulle nuove strade e sulla tradizione del nostro cinema (che è stato per la verità il medium che ha saputo sfruttare meno questa occasione, ne parla qui Emiliano Morreale), sulla serialità televisiva (dove gli effetti invece sono stati dirompenti, ben testimoniati da questa galleria) e infine sul web. A questo riguardo, nell’ultima pagina del romanzo, c’è un passaggio che può valere come indicazione di metodo per chi studia e combatte la camorra e al contempo come rivelazione del più complesso funzionamento dell’universo Gomorra:

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La catena di trasformazioni narrative che ha portato Gomorra di Roberto Saviano a Gomorra - La serie è sufficientemente ampia da indicare un processo culturale in atto nella scrittura audiovisiva industriale italiana. Sostenuta principalmente da un operatore/produttore come Sky, la serializzazione dei prodotti narrativi (cominciata con Romanzo criminale e giunta all’apice proprio con la serie tratta da Saviano), dà i suoi frutti anche presso altri player, da quelli più tradizionali (si pensi alla RAI e al progetto La mafia uccide solo d’estate) a quelli più innovativi (Netflix e l’operazione Suburra).

L’immagine di Ciro e Genny [fig. 1] che, quasi letteralmente, ‘si mangiano la faccia’, funge da esempio simbolico e indicativo della funzione epica seriale. Chi pensa che nel romanzo di Saviano questo elemento fosse poco presente, dimentica che furono proprio quel testo (di cui si è discusso a lungo, chiedendosi se si trattasse di fiction o non fiction) e quello di Giancarlo de Cataldo a far parlare di New Italian Epic al collettivo Wu Ming.

Categoria troppo presto caduta in disuso, e probabilmente osteggiata dal mondo accademico, NIE è stata (ce ne accorgiamo oggi) una intuizione tutt’altro che peregrina, in grado di spiegare non solo come si stavano muovendo alcuni scrittori contemporanei, ma anche poi come si sarebbero trasformate le operazioni creative dell’audiovisivo italiano. Il passaggio attraverso il film di Matteo Garrone, forse l’autore che più ha ‘raffreddato’ la materia narrativa, non ha in alcun modo interrotto la catena testuale che ha infine portato all’epica trascinante di Gomorra - La serie.

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L’abbigliamento è un codice: il modo in cui ci si veste indica come ci si vuole presentare al mondo. E questa è una carta molto forte da giocare in un film: il primo impatto visivo del pubblico è un abito che deve raccontare con immediatezza la vita delle persone e dei personaggi. Non è un caso se in Gomorra quando ci sono inserimenti di personaggi che vengono da altre realtà è subito evidente lo scarto estetico.

Così la costumista Veronica Fragola, responsabile di tutti gli abiti della serie, sia per la prima che per la seconda stagione, racconta in un’intervista l’importanza dell’abbigliamento per i personaggi della serie.

Gomorra - La serie ha suscitato l’attenzione di tutti gli spettatori per il suo realismo nella messa in scena; gli interni utilizzati per la realizzazione delle case di Scampia e Secondigliano da parte dello scenografo Paki Meduri, sono frutto di un lungo percorso di ricerca estetica. Lo scenografo si è documentato attraverso l’osservazione degli arredi delle case dei veri camorristi, degli affiliati e di tutti coloro che in qualche modo vivono attorno all’ambiente della malavita campana. Meduri ha costruito, oggetto dopo oggetto, mobile dopo mobile, l’aspetto di quel mondo con una fedeltà al reale quasi filologica. Nella costruzione questo immaginario tanto fedele al vero, quanto agghiacciante, non è meno importante la progettazione dei costumi dei personaggi, che – naturalmente – si inserisce nello spazio scenico e con questo dialoga, fino a fondersi.

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1. La circolarità del mito e il racconto seriale

Fra le ragioni del successo internazionale di Gomorra - La serie, produzione originale di Sky Italia basata sul romanzo di Roberto Saviano, c’è anche una riflessione interessante sulla collocazione soggettiva dei personaggi e la loro corporeità.

Il racconto della guerra fra i Savastano e l’alleanza si concretizza in un continuo movimento circolare di coloro che occupano le posizioni di potere. Non è il soggetto, con le sue configurazioni, che connota il ruolo che va a occupare: al contrario, sono le caratteristiche di questo ruolo a dare significato al personaggio; e la sua eventuale eliminazione (più o meno definitiva) non intacca la rappresentazione complessiva. Gli individui mutano la superficie del proprio corpo in funzione della casella in cui si collocano, e vivono le loro esperienze di conseguenza.

Questa condizione ha una concretizzazione nella seconda stagione sul corpo di Patrizia, ambasciatore e strumento della sopravvivenza di Don Pietro. Durante una delle loro prime conversazioni (nell’episodio Profumo di iena), il boss nota un tatuaggio di una leonessa sulla spalla; la giovane gli risponde che era il modo in cui la chiamava il padre, e alla sua morte ha deciso di commemorarlo in quel modo [fig. 1]. «Si tu eri ‘na leonessa non tinivi abbisogno di ‘nu tatuaggio», commenta Don Pietro infastidito (la Leonessa, come noto, era il nome dell’amata moglie, Donna Imma, sulla cui tomba è avvenuto peraltro il primo incontro con Patrizia). Il giorno dopo, la donna ha una estesa ustione sul braccio, con cui ha cancellato il tatuaggio [fig. 2]: per ricoprire il ruolo di donna di fiducia del boss, e poi di sua compagna, Patrizia cambia letteralmente la propria pelle, e di conseguenza il suo modo di leggere il mondo.

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