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Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a una enorme proliferazione di fototesti: i romanzi e racconti accompagnati da fotografie dei più interessanti narratori (da Moresco a Siti, da Vasta a Mari), i libri di Ferdinando Scianna e della collana In parole di Contrasto, alcune forme iconotestuali difficili da collocare come l’Autoritratto nello studio di Giorgio Agamben edito da Nottetempo. Il fenomeno è certamente legato alla presenza sempre più invadente delle fotografie nella nostra vita quotidiana; e può dirsi in qualche modo la logica conseguenza di quella follia del mirino di cui parlava Calvino negli anni ’50 (in un saggio poi trasformato quindici anni dopo nel racconto L’avventura di un fotografo) che si è amplificata nell’era di instagram, facebook, pinterest e forse è divenuta tale, cioè una vera follia – almeno se si guarda all’enorme moltiplicazione delle immagini. La fotografia, «arte media» per eccellenza secondo Bourdieu, è diventata molto presto, sin dall’Ottocento, «pratica sociale» di massa, ma le retoriche dei fototesti (che iniziano ad essere studiate in modo sistematico solo di recente) sono cambiate e mutano ancora in relazione al significato sociale (e non soltanto estetico) che la fotografia ha assunto nel corso dei suoi quasi due secoli di storia. In altri termini, se instagram ha cambiato le nostre vite, quel che pare più interessante è capire come abbia influito sul nostro modo di guardare la realtà, di raccontarla e cosa questo cambiamento abbia prodotto in campo estetico. L’ultimo libro di Giorgio Vasta, Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, pubblicato nel 2016 e firmato insieme al fotografo Ramak Fazel, offre uno degli esempi più complessi e affascinanti di fototesto, in cui l’intreccio tematico di spazio, corpo e fotografia emerge dall’incrocio degli sguardi dello scrittore e del fotografo. L’obiettivo del paper è quello di analizzare questo caso di studio a partire dalle tre polarità che sorreggono regime scopico sotteso al testo: lo sguardo, le immagini e il dispositivo fototestuale.

Over the last decade we have witnessed a huge profileration of so-called phototexts: novels and stories illustrated with photographs by the most interesting authors (like Moresco, Siti, Vasta, Mari to mention just a few), the books by Ferdinando Scianna and the “In Parole” series edited by Contrasto, as well as other works which are harder to pin down to a specific genre such as Autoritratto nello studio by Giorgio Agamben, edited by Nottetempo. No doubt it is a phenomenon linked to the ever increasing presence of photography in our daily lives, and it can somehow be understood as the logical consequence of that «follia del mirino» (camera craze) (mentioned by Calvino in the 1950's in an essay which 15 years later became the short novel L’avventura di un fotografo) which exploded in the era of instagram, facebook, pinterest and truly turned into a craze - at least judging by the sheer number of images being produced.  Bourdieu defined photography as the quintessential «art moyen», and since the 19th century the latter has become a mass «social practice», although the forms and contents of phototexts (which only now are becoming the subjects of dedicated research) have changed and continue to evolve in connection with the scope (both social an aesthetic) photography has acquired during its history spanning almost two centurie. In other words, instagram may have indeed changed our lives, but the question is how it has altered the way we portray reality, and the consequences of such impact in the field of aesthetics. The last book by Giorgio Vasta, Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani, published in 2016 and co-authored by photographer Ramak Fazel, offers one of the most complex and facinating examples of a phototext. Its interplay of space, bodies and photography is the combined outcome of the perspectives of both writer and photographer. The scope of this essay is its analysis, based on its three focuses of ‘scopic regime’: gaze, images and photographic device.

 

 

Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani di Giorgio Vasta, pubblicato nel 2016 nella collana Quodlibet Humbolt, offre uno degli esempi più complessi di dispositivo fototestuale[1] e mette a fuoco una griglia tematica dalla stratificata dimensione cronotopica, all’interno della quale si intrecciano spazio, corpo e fotografia. Che «il tempo si può raccontare attraverso lo spazio»[2] Vasta lo aveva già dimostrato nel suo primo romanzo, intitolato appunto Il tempo materiale (2008), per poi ribadirlo nel successivo Spaesamento (2010). Ma questa sovrapposizione delle coordinate spazio-temporali diviene l’asse centrale della narrazione soltanto in questo romanzo in forma di reportage (o reportage in forma di romanzo), in cui l’autore racconta il viaggio compiuto nelle ghost town americane insieme a Giovanna Silva, fotografa e ideatrice della collana, e Ramak Fazel, fotografo e coautore del fototesto. Nel volume – è bene precisarlo – vengono inseriti gli scatti di entrambi: quelli di Silva, in bianco e nero fra le pagine di Vasta, e quelli di Fazel a colori, a fine testo, nella sezione intitolata Corneal Abrasion.

La difficile definizione della forma testuale appare in relazione alla materia raccontata e al set del viaggio, i labili argini del modello del baedeker affidato ai quattro occhi di uno scrittore e di un fotografo vengono infranti sin da subito, si direbbe quasi per effetto della relazione con uno spazio dai limiti incerti: la scrittura odeporica si trasforma, infatti, lungo il percorso «in qualcosa di diverso e indefinibile, senza confini precisi come non ne hanno i deserti».[3]

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Tra il 1960 e i primi anni Settanta Giosetta Fioroni, artista legata alla Scuola di Piazza del Popolo, sperimenta l’uso dello smalto industriale colore argento dapprima, per realizzare opere monocrome in cui le valenze esistenziali attribuite dall’arte informale alla stesura pittorica vengono raffreddate, poi, dal 1963, per dipingere quadri basati sulla proiezione di immagini fotografiche, appartenenti ad ambiti diversi: la réclame, la storia dell’arte, il vissuto personale e familiare, le fiabe di magia, la storia del fascismo e, infine, i paesaggi del Veneto. Si tratta di opere dotate di una temporalità complessa, in cui, grazie al carattere evocativo e allusivo del colore argento che richiama il baluginio delle lastre specchianti dei dagherrotipi, le immagini del presente vengono trasfigurate e riportate a una dimensione temporale altra. Il saggio si concentra su questa importante fase dell’opera di Fioroni al fine di porre in luce i tratti peculiari e i momenti di snodo della serie dei 'quadri d’argento', letta alla luce del contesto artistico romano degli anni Sessanta e in particolare delle coeve ricerche della Pop Art e della Scuola di Piazza del Popolo. Lo scritto analizza anche la varietà delle fonti visive dell’artista, che si riferiscono alla fotografia, al cinema, alla letteratura, alla storia, all’antropologia e al folclore. 

Between 1960 and the early 1970s Giosetta Fioroni, an artist linked to the Scuola di Piazza del Popolo, experiments with silver industrial enamel. At first she paints monochrome works in which the existential values that the informel attributes to the brushwork are almost obliterated; then, from 1963 onwards, she paints works based on photographs pertaining to very different fields: advertising, art history, personal and family experiences, magic tales, the history of fascism and, finally, the landscapes of the Veneto. These works have a complex temporality: thanks to the evocative and allusive character of silver, which recalls the glimmer of the mirror plates of daguerreotypes, contemporary images are transfigured and given another temporal dimension. This paper focuses on this important phase of the work of Fioroni: it analyzes the peculiar aspects and the most important episodes of the series of ‘silver paintings’, puts them into the context of the art of the Sixties in Rome and, especially, it compares the “silver paintings” with contemporary Pop Art and Scuola di Piazza del Popolo artworks. The paper analyzes also the coexistence of different sources in Fioroni’s works: photography, film, literature, history, anthropology and folklore.

La tua maniera di togliere invece di aggiungere, di dare importanza al vuoto invece che al pieno, di definire attraverso l’assenza invece che attraverso la presenza, ti introduce senza che tu te ne accorga nella compagnia dei pittori e dei poeti giapponesi, maestri nel farci vedere ciò che non c’è.[1]

Così Alberto Moravia commenta l’opera di Giosetta Fioroni Il ristorante Baffone (1970), esposta nella personale alla galleria Il Naviglio di Milano nel 1971, cogliendone il carattere rarefatto ed essenziale. L’opera appartiene al ciclo dei Paesaggi d’argento presentato l’anno precedente nella mostra Laguna, tenutasi nel novembre del 1970 alla galleria La Tartaruga di Roma, centro nevralgico della vicenda artistica della Scuola di Piazza del Popolo: la serie è costituita da un gruppo di disegni a matita su carta, lumeggiati con rapide pennellate di smalto colore argento, raffiguranti paesaggi, scorci e architetture di Venezia e della campagna veneta, luogo d’origine di Goffredo Parise, compagno dell’artista per oltre vent’anni. La resa topografica di queste opere, in cui è viva la memoria del vedutismo veneto del XVIII secolo (i precedenti della serie sono stati spesso indicati nei dipinti di Guardi e Bellotto), è trasfigurata dall’uso della vernice argentata, stesa con pochi e agili tocchi che illuminano i profili e l’ossatura degli edifici, rendendoli evanescenti e quasi spettrali. L’aspetto metafisico dei Paesaggi d’argento è accentuato dall’allestimento progettato per la mostra, dove i disegni – tutti della stessa dimensione (100x70 cm.) – sono appesi alla parete a distanza ravvicinata l’uno dall’altro, formando una sequenza ininterrotta, al culmine della quale è collocata l’opera da cui trae origine il titolo della mostra, Laguna: si tratta di un «quadro di luce»[2] realizzato proiettando su una tela dipinta di bianco la silhouette di una veduta di Venezia.

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La dimensione visiva si impone come elemento dominante nell’economia di un romanzo come Qui pro quo, giallo divertissement dato alle stampe da Bufalino nel 1991 con un corredo di immagini concordato dall’autore insieme ad Elisabetta Sgarbi. Tali inserti iconografici, puntualmente riferiti a precisi luoghi del testo, non si rivelano affatto meri ornamenti illustrativi, ma risultano costantemente messi in relazione con la specifica attenzione alla sfera visuale che condiziona vistosamente le dinamiche narrative e semantiche dell’intero libro.

The visual dimension stands out as the prevailing element in the development of a novel such as Qui pro quo, a detective divertissement published by Bufalino in 1991, with a set of illustrations agreed by the author with Elisabetta Sgarbi. Such ichnographic inserts, accurately referred to specific places in the text, aren’t mere illustrative ornaments, but are always connected with the specific attention to the visual field which influences markedly the narrative and semantic dynamics of the whole book.

Qui pro quo, il giallo divertissement di Bufalino che fa il verso ad Agatha Christie, esce da Bompiani nel 1991, lo stesso anno in cui lo scrittore licenzia in edizione non venale Il Guerrin Meschino. Ad accomunare i due volumi è la presenza di illustrazioni a corredo del testo, ulteriore conferma dell’antico e sempre fitto dialogo intrattenuto dal professore di Comiso con le arti visive.[1]

Nella surreale detective story data alle stampe quell’anno, il ruolo delle immagini, ben al di là dell’intento decorativo e di ricostruzione di un’atmosfera cui esse rispondono nel Guerrin Meschino, si pone come strettamente correlato all’andamento della narrazione, in un sodalizio rimarcato dalle brevi citazioni dal testo che accompagnano, a mo’ di didascalia, quattordici delle quindici opere (con la sola eccezione di quella posta a chiusura del libro), scelte come supporto iconografico del romanzo.[2] Si tratta in realtà di una ristretta selezione rispetto alle numerose ipotesi prese in considerazione da Bufalino e documentate dalle carte preparatorie del volume,[3] testimoni di una originaria intenzione dell’autore ad arricchire ‘visivamente’ il suo Qui pro quo ancora più di quanto poi non dimostri l’esito finale.[4] Attestata dagli scartafacci di appunti è altresì l’idea di incrementare il corredo iconico anche con disegni, ritratti e fotografie di sconosciuti, nonché di associare ad ogni personaggio del libro il volto di un attore, «allo scopo di fornire al lettore qualche supporto visivo».[5]

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Ferdinando Scianna è sempre stato «un fotografo che scrive», ma se in un primo momento parole e immagini sono state da lui utilizzate parallelamente nell’attività fotografica e in quella giornalistica, con Quelli di Bagheria (2002), con La geometria e la passione (2009) e soprattutto con i suoi libri più recenti, ha scelto di coniugare in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale, confermando le sue indubitabili doti di doppiotalento. Nel saggio vengono analizzate proprio quelle opere in cui, a partire da Quelli di Bagheria fino ai Ti mangio con gli occhi (2013) e Visti&Scritti (2014), dalla sovrapposizione e dall’accostamento della «scrittura di luce» a quella d’inchiostro nascono straordinari esempi di narrazione fototestuale.

Ferdinando Scianna’s always been «un fotografo che scrive». At the first time he used separately words and images both in photography as in the journalism; in recent years he reveals his ‘doubletalent’, making use of verbality and visuality in the same format.  The aim of this paper is to analyze the books, from Quelli di Bagheria to Ti mangio con gli occhi (2013) and Visti&Scritti (2014), which represent typical examples of phototexts, origined by unusual combination of «light writing» and ink writing.

 

Sin da quel primo straordinario libro d’esordio, che resta forse ancora dopo cinquant’anni il suo testo più affascinante, Ferdinando Scianna ha sempre sentito il bisogno di accompagnare le sue fotografie con le parole. Feste religiose in Sicilia (1965), infatti, oltre ad essere introdotto dal saggio di Leonardo Sciascia Una candela al santo una al serpente e oltre le epigrafi scelte dallo scrittore siciliano in un repertorio vasto che va dai testi letterari alle immaginette votive, presenta nella prima edizione, in appendice, delle brevi didascalie narrative di pugno del fotografo (scomparse poi nella più elegante seconda edizione dell’87) che raccontano le feste rappresentate negli scatti.[1]

Del resto, che fosse «un fotografo che scrive»[2] Ferdinando Scianna lo lascia intuire chiaramente con Quelli di Bagheria (2002) e La geometria e la passione (2009), e in più lo dichiara lui stesso nell’Autoritratto di un fotografo (2011), scritto par lui-même qualche anno fa, mentre continua a ricordarcelo ogni tanto con quelle straordinarie cartoline che appaiono sul portale di Doppiozero. Sembrano proprio queste ultime a suggerire la formula più congeniale a Scianna per far dialogare alla perfezione i suoi scatti e le sue parole e per dar voce ad un racconto che – confermandoci ormai le sue indubitabili doti di doppiotalento – coniuga in un’unica sintassi l’espressione verbale e quella visuale.

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