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Quello di Franco Citti è stato uno dei volti più identificativi del cinema di Pasolini, da Accattone (1961) e da Mamma Roma (1962) fino a Edipo re (1967) e al Decameron (1971). Il contributo ripercorre, lungo la produzione cinematografica del poeta-regista, le interpretazioni di Citti, offrendo alcune originali chiavi di lettura correlate alla teoria del cinema pasoliniana e alla ‘tensione figurale’ dei personaggi. 

Franco Citti was one of the most identifying actor of Pasolini’s cinema, from Accattone (1961) and Mamma Roma (1962) to Edipo re (1967) and Il Decameron (1971). The contribution traces Citti’s film roles along the film production of the poet-director, offering some original interpretations related to Pasolini’s theory of cinema and the ‘figural tension’ of the characters. 

E allora bisognerà subito fare, ai margini, un’osservazione: mentre la comunicazione strumentale che è alle basi della comunicazione poetica o filosofica è già estremamente elaborata, è insomma un sistema reale e storicamente complesso e maturo – la comunicazione visiva che è alla base del linguaggio cinematografico è, al contrario, estremamente rozza, quasi animale. Tanto la mimica e la realtà bruta quanto i sogni e i meccanismi della memoria, sono fatti quasi pre-umani, o ai limiti dell’umano: comunque pre-grammaticali e addirittura pre-morfologici (i sogni avvengono al livello dell’inconscio, e così i meccanismi mnemonici; la mimica è segno di estrema elementarità civile ecc.). Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale (Pasolini 1999b, pp. 1463-1464).

Nel suo primo intervento ufficiale sul cinema, Pasolini sottolinea la presenza di uno strato profondo, elementare, barbarico, onirico, infantile, sul quale si costruisce poi ogni film singolo con l’apparenza del racconto. Pre-grammaticale è il termine derivato dal saggio di Contini sul linguaggio pascoliano del 1955: dunque siamo già in ambito di un contesto poetico che si contrappone a una elaborazione prosastica.

Pasolini lo aveva già ampiamente affermato a proposito del suo magnifico discorso intorno alle Notti di Cabiria del 1957. L’analisi inizia dalla descrizione fisica e psichica di Fellini stesso, definito, attraverso una sequenza di metafore, una «enorme macchia», un «polipo», un’«ameba ingrandita al microscopio», un «rudere azteco», un «gatto annegato» (Pasolini 1999a, p. 700): «la forma di uomo che Fellini possiede è incessantemente pericolante: tende a risistemarsi e riassestarsi nella forma precedente che la suggerisce» (ibidem). Da questo essere metamorfico esce una non-voce, un insieme di fonemi, un incrocio di dialetti (romagnolo-romanesco) che viene ricondotto alla ‘pre-grammaticalità pascoliana’. Fellini si esprime con un pre-linguaggio.

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Nella Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini affida a Orson Welles alcune delle sequenze più rappresentative del film, tra le quali, ad esempio, quella in cui Welles, nelle vesti del regista, rilascia un’intervista al giornalista del Tegliesera. Il contributo propone non solo un’analisi dettagliata di tale sequenza, ma ricostruisce anche il rapporto tra Pasolini e Welles alla luce delle collaborazioni mancate tra i due autori, in particolare in relazione ai film del poeta-regista Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) e I racconti di Canterbury (1972).

In Ricotta (1963) Pier Paolo Pasolini entrusts Orson Welles with some of the most representative sequences of the film, including, for example, the one in which Welles, in the role of director, gives an interview to the Tegliesera journalist. The contribution not only offers a detailed analysis of this sequence, but also reconstructs the relationship between Pasolini and Welles on the basis of missed collaborations between the two authors, in particular in relation to the poet-director’s films Edipo re (1967), Teorema (1968), Porcile (1969) and I racconti di Canterbury (1972).

  Io ho una specie di idiosincrasia per gli attori professionisti. Non ho però, sia ben chiaro, una prevenzione totale e ciò perché non voglio mai sottoporre la mia attività a delle regole precise, a delle coazioni. Questo mai. Io infatti non soltanto ho usato Anna Magnani, ma anche Orson Welles. […] Per Orson Welles la questione è stata un po’ diversa. È entrato molto meglio nel personaggio perché nella Ricotta ho fatto fare ad Orson Welles in parte se stesso. Ecco, faceva il regista, faceva se stesso, faceva la caricatura magari di se stesso e quindi rientrava perfettamente nel mio mondo (Pasolini 2001a, pp. 2856-2857).

Così, fin dai primi anni della sua attività di regista cinematografico, Pier Paolo Pasolini si era espresso sui motivi della propria predilezione per gli attori non professionisti, aggiungendo in un’altra, successiva occasione che «la differenza principale è che l’attore ha una sua arte. Ha il suo modo di esprimersi, la sua tecnica che cerca di aggiungersi alla mia – e io non riesco ad amalgamare le due. Essendo un autore, non potrei concepire di scrivere un libro insieme a qualcun altro, e, allo stesso modo, la presenza di un attore è come la presenza di un altro autore nel film».

Nella risposta di Pasolini, si avverte una contraddizione, perché da un lato egli nega l’apporto creativo di un attore che non può mai essere un altro ‘autore’ all’interno del suo film; dall’altra, ammette di avere ‘lasciato fare’ a Orson Welles, che quindi, sulla base delle indicazioni di massima del poeta-regista – che, com’è noto, non dirigeva ogni gesto, ogni intonazione e sguardo dei suoi attori, ma preferiva ‘metterli in situazione’ –, evidentemente ebbe piena libertà di forgiare come voleva il suo personaggio dato che lo plasmò in un modo che piaceva a Pasolini.

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Una delle attrici più rappresentative del cinema di Pasolini è certamente Silvana Mangano, il cui volto ha contribuito non poco a definire la poetica cinematografica pasoliniana. Il contributo ripercorre la produzione filmica del poeta-regista e – in un contrappunto con le interpretazioni di Mangano in La terra vista dalla luna (1967), Edipo re (1967), Teorema (1968) – propone una lettura del loro rapporto artistico alla luce di prospettive legate alla ‘spettralizzazione’ dell’immagine e al perturbante.

One of the most representative actresses of Pasolini’s cinema is certainly Silvana Mangano, whose face has contributed to defining Pasolini’s poetics of cinema. The contribution traces the film production of the poet-director and – in a comparison with the interpretations of Mangano in La terra vista dalla luna (1967), Edipo re (1967), Teorema (1968) – offers an analysis of their artistic relationship in the light of perspectives linked to the ‘spectralization’ of the image and the perturbing.

 

Il 16 novembre del 1968, nel pieno del processo a Teorema, Pier Paolo Pasolini pubblica sul Tempo illustrato una Lettera aperta a Silvana Mangano, sottolineando di aver scelto questa formula insolita proprio per dare più valore al suo scritto e al suo gesto. E in effetti è un testo di grande bellezza, che prende spunto dall’amarezza per la sensazione di non averle dato piena soddisfazione con il lavoro comune, solo in parte stemperata dal piacere di vedere a Parigi il successo che sta avendo l’altro grande film girato insieme in quegli anni, Edipo re. Buona parte della Lettera sviluppa un’interpretazione della figura di Dioniso, dio della metamorfosi e dell’irrazionalità, capace di passare, nella suprema indifferenza, da giovane pieno di grazia e bellezza a criminale feroce. Sulla base di questo grande mito che era stato uno dei sottotesti di Teorema, Pasolini delinea un rapporto ambivalente fra regista e attrice, basato su identificazione e specularità. Entrambi hanno riconosciuto Dioniso, non lo hanno rifiutato come ha fatto il mediocre buon senso della società contemporanea; ma questa esperienza di felicità ha provocato un vuoto e una paura, a cui rispondono in modi antitetici: Pasolini con un impegno nevrotico, Mangano con una nevrotica indifferenza. Prima di questo parallelismo contrastivo, Pasolini schizza un ritratto molto suggestivo di Mangano, che vale la pena citare per intero:

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La collaborazione tra Pier Paolo Pasolini e Massimo Girotti, che recita in Teorema (1968) e Medea (1969), si contraddistingue per una rielaborazione del paradigma intertestuale associabile alla sua tipicità divistica: il regista prosegue sulla scia dell’operazione compiuta da Visconti trent’anni prima, ma ribalta totalmente la posizione dei personaggi interpretati dall’attore, i quali per la prima volta, messi da parte i panni degli eroi romantici e virtuosi, subiscono fatalmente l’irruzione dell’estraneità e tornano a essere soggetti della visione.

The collaboration between Pier Paolo Pasolini and Massimo Girotti, who plays in Teorema (1968) and Medea (1969), is marked by a rielaboration of the intertextual paradigm referred to his stardom type: the director carries on the operation made by Visconti thirty years early, but he overturns the position of the characters played by the actor, who undergo, for the first time, the strangeness break-in and they become subjects of vision.

Nel 1952 Elsa Morante realizza un breve e particolareggiato ritratto dell’attore Massimo Girotti per il volume collettaneo Volti del cinema italiano (il testo è stato recentemente ripubblicato per Einaudi in una raccolta di scritti a cura di Goffredo Fofi): Lo studio di un viso d’attore è l’esercizio d’una scienza fantastica: perché sul viso di un attore si può ritrovare il disegno, e perfino il nome, dei suoi personaggi. Massimo Girotti conosce i grandi successi; ma la fatua soddisfazione del successo ha risparmiato il suo viso. Al suo viso imbronciato, interrogante e pensoso, non basta (e non importa) d’essere giovane e d’esser bello. È scontento. Forse perché il suo personaggio ideale, lui, non l’ha incontrato ancora. Come sarà questo personaggio? Gli occhi di Massimo rispondono: “Avrà la mente giovane, fiduciosa”. E la fronte: “Ma il cuore tormentato, adulto”. La bocca dice: “Indolenza e malinconia”. I sopraccigli: “Memoria e severità”. E il sorriso (che si vede pur nella serietà) confessa: “Alla fine, la cosa più bella del mondo è lasciarsi incantare”. Che nome avrà questo personaggio? Adolfo? Werther? Antonio? Amleto? Fra simili specchi incantatori, caro Massimo, scegli il tuo; e lasciati incantare da lui, anche se farai dispetto all’arte neorealista (Morante 2017, p. 130).

All’epoca il trentaquattrenne Girotti è già apparso in circa 36 film, tra i quali certamente alcuni tra i titoli più significativi della sua carriera, eppure l’impressione è che la pasoliniana Morante gli stia suggerendo, nemmeno troppo indirettamente, di aprirsi a più vaste prospettive interpretative. Tra i vari tratti evidenziati nello studio della scrittrice spicca senz’altro la personalizzazione di questo sorriso un po’ ambivalente, sfuggente, incerto, «che si vede pur nella serietà» e che vagheggia un inesauribile desiderio d’incanto. Le occorrenze, in effetti, sono numerose: tra le più note ci sono sicuramente il finale di Un pilota ritorna (Rossellini, 1942) [fig. 1] e, soprattutto, quello di Ossessione (Visconti, 1943): la mdp disegna sul volto dell’attore un’espressione in cui «il pianto si confonde col riso» (Scandola 2020, p. 42) [fig. 2]. C’è da dire che anche Pasolini ripropone un’espressione similmente ambigua nel Creonte di Medea (1969) – si tratta, in realtà, di una serie di micro-espressioni –, mentre in Teorema l’operazione più eclatante riguarda lo stravolgimento dei connotati di Girotti, che vengono degradati nell’emblematico urlo «destinato a durare oltre ogni possibile fine» (Pasolini 1998, p. 1056) dopo aver corso «pieno di uno spavento sacro» (ivi, p. 1055) lungo i fianchi polverosi del deserto-vulcano [fig. 3]. Anche se in un’altra scena, quella epifanica del risveglio che potrebbe corrispondere al capitolo del romanzo intitolato È la volta del Padre, è ancora un sorriso accennato (ed estasiato) a essere fissato nello splendore del primo piano e a costituire uno di quei ‘momenti di verità’, tanto agognati dal regista, che a volte lampeggiano anche negli sguardi e nei sorrisi degli attori professionisti. Scrive Pasolini «Camminando sull’erba bagnata, cercando tra le piante, egli ha nel volto, colpito dal sole radente – di un rosa ch’è pura luce – un lieve sorriso strabiliato e quasi teatrale – tanto è l’incanto» (Pasolini 1998, p. 934) [figg. 4-5].

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Pasolini e Ferreri sono accumunati da una vena nichilista, da una rivolta incessante contro le istituzioni statali, religiose, morali, politiche e culturali, che si manifesta attraverso la messa in scena di situazioni e atti estremi. In Porcile (1969) Ferreri entra in una sorta di passerella simbolica tra i corridoi e le stanze della villa settecentesca di Stra, immergendosi in uno stilizzato balletto di presenze emblematiche che partecipano a una specie di carnevale ideologico e filosofico. Il contributo propone un’analisi dello stile recitativo di Ferreri nel ruolo del tedesco Hans Günther all’interno del secondo episodio del film, e insieme elabora un’attenta riflessione sull’utilizzo di Pasolini dei suoi personaggi cinematografici, intesi come ‘strumenti’ vividi e singolari di un pensiero che si mette in gioco in termini di parabola estrema.

Pasolini and Ferreri share a nihilistic vein, an incessant revolt against state, religious, moral, political and cultural institutions, which manifests itself through the representation of extreme situations and acts. In Porcile (1969) Ferreri enters in a kind of symbolic parade through the corridors and rooms of the 18th-century villa in Stra, immersing himself in a stylised ballet of emblematic presences participating in a kind of ideological and philosophical carnival. The contribution proposes an analysis of Ferreri’s acting style in the role of the German Hans Günther within the film’s second episode, and at the same time elaborates a careful reflection on Pasolini’s use of his cinematic characters, understood as vivid and singular ‘instruments’ of a thought that expresses itself in terms of extreme parable.

Fin dall’inizio della sua esperienza di regista Pasolini non si è limitato a intrecciare costantemente i corpi popolari della borgata con quelli degli attori professionisti. Una delle particolarità più significative nella sua scelta degli interpreti riguarda il ricorso continuo ai volti o alle voci degli amici e conoscenti scrittori, poeti, giornalisti, critici letterari, registi, artisti, intellettuali di varia provenienza. Si tratta quasi sempre di ruoli da non protagonisti, che immettono dentro il film un’aura particolare, facendo vibrare sia le corde della poetica pasoliniana sia quelle legate al sentire e all’immaginario di un determinato momento storico. Si comincia con l’apparizione di Elsa Morante dentro un carcere, mentre legge un fotoromanzo in Accattone (1961), e di Paolo Volponi vestito da prete in Mamma Roma (1962). Si finisce con le voci di Giorgio Caproni, Marco Bellocchio e Aurelio Roncaglia che, in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975-1976), doppiano rispettivamente gli attori Giorgio Cataldi e Aldo Valletti e il giornalista-scrittore Umberto Paolo Quintavalle. In mezzo si pone una vera e propria sfilata di personaggi e di voci della cultura, dell’arte e dello spettacolo: Giorgio Bassani, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, Francesco Leonetti, Natalia Ginzburg, Giorgio Agamben, Gabriele Baldini, Domenico Modugno, Carmelo Bene, Julian Beck, Cesare Garboli, Giuseppe Zigaina e tanti altri, fra cui Orson Welles che interpreta in maniera emblematica il ruolo del regista in La ricotta (1963).

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La presenza cinematografica di Ninetto Davoli nei film di Pasolini rappresenta un campo di tensioni estetiche e ideologiche. Prima di tutto apparendo nella vita e nelle opere di Pasolini quando stava perdendo la fede e l’amore nella realtà e nel sottoproletariato romano. Davoli è visto come un simbolo di sopravvivenza di grazia e purezza e, in alcuni scritti di Pasolini, come colui che è in grado di dar vita a momenti unici di espressione di felicità. Da Edipo Re (1967) in avanti, la sua figura appare come un Anghelos, un presagio del cambiamento e della sventura, in una crescente visione pessimistica della società.

Ninetto Davoli's cinematic presence in Pasolini's films constitutes a field of aesthetic and ideological tension. Firstly appearing in Pasolini's life and works when the author was losing faith and love in reality and in the Roman underclass, Davoli is seen as a surviving symbol of grace and purity and, in some of Pasolini's writings, he brings to life some unique moments of happiness. From Edipo Re (1967) onward, his figure appears as an Anghelos, a harbinger of mutation and misfortune, in an increasingly pessimistic view of society.

 


 

1. Costretti a essere

 

In queste celebri righe dell’Abiura dalla “Trilogia della vita”, scritte da Pier Paolo Pasolini qualche mese prima di morire e uscite postume, colpisce uno strano verbo: ‘costretti’. Chi costringeva, fino a qualche anno prima, i giovani sottoproletari romani, immondizia umana, imbecilli, squallidi criminali, vili inetti, a essere adorabili, simpatici e innocenti? La risposta è, mi pare, implicita nel testo (e a un passo dalla confessione): Pasolini stesso, il suo sguardo, e diciamo pure la sua logica del desiderio.

Da qui, forse, occorre partire per afferrare il senso ambiguo della presenza di Ninetto Davoli nel suo cinema. La figura dell’attore è indissolubilmente legata a quella del regista, è (insieme a quello di Franco Citti in Accattone) il volto con cui il suo cinema è spesso identificato. Eppure tra le due figure c’è un abisso. Il corpo, i gesti di Ninetto Davoli sono in Pasolini un campo di tensioni erotiche, estetiche e ideologiche: una creatura che miracolosamente appare mentre il suo mondo va scomparendo (o va morendo negli occhi e nel cuore del poeta), forse l’ultima speranza che i giovani e i ragazzi non siano, ‘già allora’, così e così.

Davoli arriva nel cinema di Pasolini, paradossalmente, quando questi, ben prima dell’abiura della Trilogia, sta dicendo addio al mondo delle borgate, al presente, a ogni forma per quanto complessa e contraddittoria di realismo. Si sta spingendo verso l’apologo, la favola, la parabola, il mito – ma si porta dietro, come un fantasma, Ninetto. Lo aveva conosciuto quattordicenne all’epoca delle riprese della Ricotta, lo fa comparire per la prima volta come pastorello nel Vangelo secondo Matteo e poi lo mette al centro della scena, a fianco a Totò, in Uccellacci e uccellini. In mezzo si è consumata una cesura, simboleggiata anche fisicamente dal crollo fisico e dal ricovero del poeta, nel marzo del 1966.

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Fra i vari film girati tra il 1967 e il 1970 (da Buñuel a Bertolucci, Garrel e Cavani), l’incontro dell’attore Pierre Clémenti con Pier Paolo Pasolini sul set di Teorema e poi per le riprese di Porcile (1969) diede il via a un legame artistico e personale fruttuoso anche sul piano delle riflessioni sulle relazioni fra attore, personaggio, regista, attorialità e cinema. La prova filmica pasoliniana, infatti, diede l’opportunità all’ex allievo di Marc’O di rompere le convenzioni con il teatro di parola, il naturalismo e l’approccio razionale per mezzo del linguaggio di un corpo adattabile in maniera plurale. Pasolini, dal suo canto, intrecciò – dai casting alla «performance della cinepresa» – il piano attoriale espresso da Clémenti come un «magma invisibile», in cui l’attore e la sua fisicità sono parte di un’unica materia cinematografica.

Among the many movies filmed between 1967 and 1970 (from Buñuel to Bertolucci, Garrel, and Cavani), actor Pierre Clémenti's encounter with director Pier Paolo Pasolini on the set of Teorema and later for the filming of Porcile (1969) marked the beginning of a successful creative and personal relationship as well as discussions on the relationships between actor, character, director, actorhood, and cinema. The former Marc'O's student had the chance to transcend Word Theatre, realism, and the rational approach conventions by using the language of his plural and adaptable body in Pasolini's film. For his part, Pasolini combined the actorly plan, expressed by Clémenti, as a «invisible magma», in which the actor and his physique are part of a larger cinematographic force.

 

«Je n’aime pas travailler. J’aime les aventures. C’était une période de retour à la beauté, de retour à la nudité aussi. […]. C’est une période où j’acceptais de faire des films seulement si je ne parlais pas dedans. J’ai aussi refusé le Satyricon de Fellini, parce qu’il me demandait de rester enfermé dans le studio pendant six mois, pour être à sa disposition» (Clémenti in Bonnaud 2000). Con queste parole Pierre Clémenti, «incarnation idéale de toutes les aventures de la modernité cinématographique» (Bonnaud 2000), ha rievocato – un anno prima di morire – quella che è stata indubbiamente la stagione più feconda della sua breve ma intensa carriera artistica, ovvero il triennio 1967-1970. Nel giro di pochi anni, infatti, l’ex-allievo di Marc’O – il cui magistero risulterà fondamentale nella formazione del suo stile – diventa la musa maschile del cinema engagé, offrendo alla cinepresa di Buñuel (Belle de jour, Bella di giorno, 1967), Bertolucci (Partner, 1968), Pasolini (Porcile, 1969), Garrel (Le lit de la vierge, 1970) e Cavani (I cannibali, 1970) il magnetismo inquieto di una presenza schermica che, come ha confermato la stessa Liliana Cavani, non aveva bisogno della parola per comunicare.

Quello di Clémenti è un corpo ambiguo, al contempo rabbioso e aggraziato, violento e fragile, maschile e femminile: da un lato lo sguardo tenebroso e i capelli corvini, tinti di biondo da Visconti per ingentilire il figlio del principe di Salina (Il gattopardo, 1963), dall’altro quel collo slanciato e quelle mani bianche che seducono, tra gli altri, proprio Pier Paolo Pasolini. Per il quale – come si legge nell’intervista concessa dal regista a Jean Duflot – la criminalità del personaggio di Porcile non è quella del selvaggio, ma quella dell’intellettuale, di un ribelle che – come il suo interprete – infrange leggi, tabù e convenzioni per salvaguardare la propria libertà. Tra le prime convenzioni trasgredite da Clémenti c’è proprio quella del teatro di parola, la cui tradizione secondo Marc’O – regista e drammaturgo vicino agli ambienti del surrealismo e del lettrismo – stava trasformando gli attori in semplici esecutori di un testo. Nella compagnia dell’American Center, frequentata – tra gli altri – anche da Bulle Ogier, Clémenti segue corsi di danza e impara a padroneggiare tutte le risorse della mimica, che Marc’O integra con suoni e musica dando origine a un «théâtre musical» dalla forte connotazione politica.

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Dopo l’abbandono del progetto da parte di Orson Welles per Tiresia per l’Edipo re, nel 1967 Pasolini si rivolse a Julian Beck del Living Theatre. Il cambio si rivelò uno stimolo per il ripensamento del personaggio sfruttando l’aura, la fisicità androgina e dissacrante dell’attore. In dialogo ma anche in autonomia rispetto alla comunità teatrale di appartenenza, Pasolini ricorrerà a una inaspettata sottrazione del corpo, al centro dell’attività dell’interprete, per esaltare la potenza sacrale ma anche umoristica del suo volto.

Pasolini engaged Julian Beck of the Living Theatre in 1967 after Orson Welles decided to back out of the performance of Tiresias for Edipo Re. The shift significantly contributed for reconsidering the role by utilizing the aura, androgynous physique, and disrupting the body language of Beck. In the dedicated scenes, Pasolini used an unexpected reduction of the body, which was at the center of the performer's activity, to amplify the holy but also humorous force of his face, acting both in dialogue with and independently from the theatrical group to which he belonged.

La scelta di Julian Beck per l’interpretazione di Tiresia in Edipo re è un ripiego in corso d’opera. Pasolini scrive la sceneggiatura pensando a Orson Welles, descrivendo il personaggio come un «vecchio uomo, grasso, pesante, segnato dalla vecchiezza su un viso restato infante» (Pasolini 2001a, p. 1006). L’idea è forse quella di tracciare un filo sottile tra i personaggi del regista della Ricotta e dell’indovino di Edipo re, uniti idealmente dalla sagacia dell’intellettuale che osserva stancamente l’inutile agitarsi dell’umanità, con «una dimensione morale, insaporita dall’intelligenza e dalla sua crudeltà consuete: sarebbe stato un Tiresia accusatore», come spiega a Jean-André Fieschi (Pasolini 2001a, p. 2924). Ma Welles rinuncia, optando negli stessi mesi per un altro Edipo re e un altro Tiresia: nell’estate 1967 partecipa infatti alle riprese del film Oedipus the King di Philippe Saville, in cui interpreta proprio il veggente cieco. Così, poco prima, nell’aprile 1967, nel bel mezzo della produzione, Pasolini deve cercare rapidamente un «ripiego» (Chiesi 2006, p. 20).

Proprio in quei giorni, dal 5 al 7 aprile, va in scena al Teatro delle Arti di Roma l’Antigone del Living Theatre, la compagnia che due anni prima aveva folgorato Pasolini con una pratica teatrale spregiudicata e coinvolgente, politica e rivoluzionaria, contribuendo alla nascita della stagione della sua scrittura tragica. Nello stesso teatro, l’8 e il 9 aprile il gruppo americano propone anche Le serve. È quasi inevitabile che la folgorazione si rinnovi: Pasolini invita a cena Judith Malina e Julian Beck, di cui elogia l’interpretazione femminile nelle Serve, e propone all’attore di partire subito per il Marocco per interpretare Tiresia, promettendo non solo una regolare paga ma anche, come ricorderebbe Francesco Leonetti (che nel film interpreta il servo di Laio), «un camioncino» (Boriassi 2017-2018, p. 76). Beck accetta, previa «cortese concessione del Living Theatre», come si legge nei titoli di testa: «senza il consenso del clan, infatti, Julian non si può allontanare dalla sua comunità di vita e di lavoro» (Possamai 2011, p. 44).

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Laura Betti vive a fianco di Pasolini un’avventura artistica esaltante che la porta a esplorare un modo ‘paradossale’ di recitare davanti alla macchina da presa. Il suo stile rimane inconfondibile e si caratterizza per un mix spregiudicato di mimica ed espressività vocale. I ruoli interpretati nel cinema di Pasolini ci consegnano i tratti di una personaggia ingenua e ambigua allo stesso tempo, autentica e camaleontica.

Laura Betti lives alongside Pasolini an exciting artistic adventure that leads her to explore a 'paradoxical' way of acting in front of the camera. His style remains unmistakable and is characterized by a mix of facial expressions and vocal expressiveness. The roles played in Pasolini's cinema give us the traits of a naive and ambiguous character at the same time, authentic and chameleonic.

  Ho fatto circa cinquantacinque film e mi pare di aver capito, solo ora, che per quanto io abbia ben nascosto la parte di me che sono io, evitando eccessive confusioni con il mio doppio programmato mica male proprio da me, Pier Paolo riusciva a capirmi (spesso non me ne accorgevo e lo negavo beffardamente) meglio di chiunque altro (Betti 1991, p. 189).

 

Il rapporto simbiotico fra Betti e Pasolini raggiunge sul set livelli di intensità non comune, testimoniati dagli scatti dei fotografi di scena, da dichiarazioni, interviste, tutte impronte di un frammentario discorso amoroso che si ricompone poi nell’assolutezza dei fotogrammi. Lungi dall’essere solo ‘tracce vaporose’ (Nacache 2006, p. 19) di una mitografia leggendaria e inafferrabile, questi documenti rinviano alla concretezza di un rapporto di complicità capace di illuminare lo stile del regista, di sollecitarne l’ispirazione fino al punto di sospendere le riprese di Teorema in attesa che Betti si convinca a interpretare Emilia. Questo episodio è solo uno dei tanti aneddoti che è possibile ripescare grazie alla spinta affabulatoria di Betti, sempre pronta a suggerire nuovi spunti pur di ribadire in pubblico la forza del suo legame con Pasolini, ma ciò che più conta è la reciprocità dello scambio performativo e artistico, ovvero la possibilità per il regista di ‘giocare’ con le diverse maschere della sua ‘pupattola bionda’. La relazione artistica fra Betti e Pasolini appartiene allora a quelle che Nacache definisce «associazioni privilegiate» (Nacache 2003, p. 79), contraddistinte da un’intesa ‘amorosa’, una collaborazione appassionata. Quel che scaturisce da tali ‘associazioni’ è «la permanenza di uno sguardo su un volto» (ibidem) e con essa una galleria di piani e sequenze che contrappuntano la declinazione dell’atto cinematografico. Per capire quali siano gli effetti della prolungata esposizione dell’attrice allo sguardo del suo ‘autore’ basta ancora una volta affidarsi alle sue dichiarazioni, sempre puntuali nel riferire la natura del loro legame.

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