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Nel suo «poema d’amore per le città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città» (Calvino 1993, p. IX), Italo Calvino guarda agli spazi urbani nei loro elementi fondanti, che scorpora e isola dal tutto facendone – volta per volta – delle metonimie per riflettere sulla vita sociale di uomini e donne. In questo contesto, la categoria della ‘città e gli scambi’ si pone come una considerazione ‘discontinua’ (sulla discontinuità come caratteristica principale dell’opera cfr. Belpoliti 2005, pp. 57-58) sull’interazione umana nelle e con le città, un elemento che evidentemente – secondo Calvino – veniva progressivamente a mancare negli spazi sempre più invivibili dei tardi anni Sessanta. È lo stesso autore a dichiarare che «le città sono luoghi di scambio, come spiegano tutti i libri di storia dell’economia, ma questi scambi non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» (CI, p. 1362). In questa sezione, dunque, si esplicita una declinazione particolare della natura politica delle Città invisibili: la rivendicazione di una dimensione sociale che non può essere solo economica, ma che deve avere al suo centro l’elemento umano e – se si può dire così – sentimentale.

Nelle ‘città e gli scambi’, allora, Calvino rimette al centro le parole grazie alle storie che si raccontano a Eufemia, il desiderio erotico e la «vibrazione lussuriosa» (CI, p. 398) che serpeggia tra gli abitanti di Cloe, la volontà di trasformazione delle dinamiche umane dell’eternamente mutevole Eutropia, i legami incorporati dai fili a Ersilia, le vite clandestine che si nascondono nelle vie secondarie di Smeraldina. Non si può non ricordare, a questo proposito, che, tra gli «usi politici giusti» della letteratura, Calvino aveva inserito l’«imporre modelli di linguaggio, di visione, d’immaginazione, di lavoro mentale necessari a ogni progetto d’azione politica» (si tratta del testo di una conferenza tenuta in un’università americana, poi raccolto in Una pietra sopra: Usi politici giusti e sbagliati della letteratura, in Calvino 1995, pp. 351-360): le ‘città e gli scambi’ sono proposte politiche su come immaginare varie dimensioni della socialità.

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Più espressamente che per altre Città invisibili, a Ottavia, la «città-ragnatela», Marco Polo premette la condizione del patto di fiducia, una netta sospensione dell’incredulità: «se volete credermi, bene» (CI, p. 421). Calvino la colloca tra Lalage ed Ersilia: da una parte, la città sognata dal Kan a cui la luna ha concesso il privilegio di «crescere in leggerezza» (ivi, p. 420); dall’altra, la città in cui gli abitanti tessono «ragnatele di rapporti intricati» (ivi, p. 422) con fili tesi tra gli spigoli delle case. Appesa nel baratro tra due montagne scoscese, la città sottile Ottavia è sospesa sul vuoto, a centinaia e centinaia di metri d’altezza, «legata alle due creste con funi e catene e passerelle» (ivi, p. 421). Il fondo s’intravvede appena, spiraglio lontano tra le nuvole. Gli abitanti camminano con cautela tra trasparenze, traversine di legno e maglie di canapa, incessantemente consapevoli del burrone sottostante.

Il piano su cui si forma il tessuto urbano di un insediamento è sempre il livello del passaggio: da lì, elevandosi in verticale, si forma la città. A Ottavia, lo sviluppo è antitetico, e il nucleo abitativo è appeso sotto:


 

È il luogo della sospensione, della fragilità, della relazione fra il tutto, e soprattutto della precarietà esplicita: «sospesa sull’abisso, la vita degli abitanti d’Ottavia è meno incerta che in altre città. Sanno che più di tanto la rete non regge» (ibidem).

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A differenza di altre città invisibili più impalpabili o rarefatte, Zenobia è facilmente immaginabile. Seconda delle cinque città sottili, è descritta innanzitutto per le sue caratteristiche strutturali:

Chi legge, si figura subito alti pali a sorreggere casette, l’intrico dei terrazzini a diverse altezze che si mescolano a scale e belvederi, meccanismi di argani e pulegge. Non si sa perché Zenobia sia stata costruita così, ma sicuramente le palafitte, all’apparenza fragili e inutili su terra, proteggono da predatori e inondazioni. Riflettendo sull’origine della città, Calvino nomina i due centri nevralgici di questo luogo: la memoria e il desiderio:

Se nella città di Isidora «i desideri sono già ricordi», qui avviene forse l’opposto: è il ricordo a lasciar spazio al desiderio. Sebbene Zenobia non sia inserita fra Le città e la memoria e né Le città e il desiderio, in lei la relazione tra memoria e desiderio è così potente da creare una felicità non esibita:

E così fanno le trasposizioni visive di questa città, combinando, in modi diversi, elementi di uno stesso modello: altissimi pali, case di bambù, ballatoi, balconi, scale a pioli, marciapiedi pensili, tettoie a cono, girandole, serbatoi d’acqua, carrucole, gru.

La maggior parte di queste raffigurazioni privilegia l’idea delle palafitte: l’architetta e illustratrice peruviana Karina Puente, che dal 2015 ha intrapreso il progetto [In]visible cities, lo fa in maniera piuttosto geometrica e regolare, con pali equidistanti, la scelta di una pulita tricromia (nero, bianco e ocra) e una simmetria del caos tipicamente calviniana [fig. 1].

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La città gomitolo

 

Per una città che inaugura la sezione dedicata ai ‘segni’, e in cui le parole stanno al posto di immagini che stanno a loro volta al posto di qualcos’altro, si potrebbe cominciare a partire da una visual representation realizzata da una delle più importanti information designer contemporanee prima ancora di diventarlo. L’interpretazione visiva di Federica Fragapane [fig. 1] non si avvale, come accade nelle data visualizations per le quali è poi diventata un punto di riferimento mondiale, di alcun sistema infografico. Tamara è un globo composto da numerosi nastri che recano iscritti gli oggetti e i messaggi ad essi sottesi in mostra sulle insegne o per le strade della città. La forma sferica della matassa rimanda immediatamente a un senso di interezza, di unità: la città è un organismo pulsante, dotato di una propria estensione (prima e dopo la città di Tamara c’è il vuoto: mentre ci si avvicina «l’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre [che] sono soltanto ciò che sono»; quando ci si allontana «fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte», CI, p. 367), e dunque apparentato all’idea di microcosmo, di pianeta a sé stante.

Eppure, al lettore e alla lettrice – e probabilmente anche all’artista – non può non sopraggiungere alla memoria il ricordo proprio del gomitolo che apre, attraverso una citazione gaddiana, la lezione calviniana dedicata alla Molteplicità. Il «mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo» (Calvino 1995, p. 717), atto a dar conto dell’inestricabile complessità del reale, è un’immagine che non saremmo immediatamente propense ad associare allo stile di Italo Calvino, celebrato per la sua lingua acuta, tagliente e precisa, che del nitore, lessicale e sintattico, ha fatto la propria cifra (Belpoliti 2006). Ma forse, come lo stesso scrittore ci dimostra, lo «gnommero» altro non è che l’altro volto della precisione classificatoria, con cui partecipa di quella tensione, irriducibile e irrinunciabile, a rappresentare la realtà come un «“sistema di sistemi”, in cui ogni sistema singolo condiziona gli altri e ne è condizionato» (Calvino 1995, p. 717). D’altronde, è lo stesso Calvino in un’altra delle Lezioni americane, quella dedicata alla Esattezza (ivi, pp. 677-696), a lasciarci intuire che tra le due forme del «cristallo» (immagine di regolarità delle strutture interne) e della «fiamma» (immagine di regolarità delle strutture esterne) ci possano essere più tangenze di quelle che si possano inizialmente intuire. Dunque, non ci stupisce che la precisione della lingua calviniana, così come la propensione analitica della visual representation, possano abbracciare anche il caos apparente del labirinto dei segni.

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Quarta tra ‘le città e il desiderio’, Fedora non è che una «metropoli di pietra grigia» con al centro un palazzo di metallo (CI, p. 382): nessun altro dettaglio viene offerto direttamente, al Kan e al lettore, nel racconto di Polo. Pure, di essa si inferisce un’immagine in controluce, una descrizione in negativo. Il palazzo contiene, infatti, in innumerevoli sfere di vetro, i modelli in miniatura di un’altra Fedora, progettati invano da qualcuno, in ogni epoca, nel tentativo di renderla la città ideale. L’edificio ha così finito per trasformarsi in un museo di possibilità remote della città immaginata; ipotesi cadute, poiché, mentre venivano concepite, «già Fedora non era più la stessa di prima, e quello che fino a ieri era stato un suo possibile futuro ormai era solo un giocattolo in una sfera di vetro» (ibidem).

Fedora è forse l’esempio più icastico dello sforzo calviniano, affidato in particolare a ‘le città e il desiderio’, di affrancare la scrittura dalle proprie limitate combinatorie, indirizzandola quanto possibile verso «lo spazio di molteplicità dei sogni e dei segni rappresentativi» (Ciccuto 2002, p. 80). Il suo carattere proteiforme, dai contorni malfermi, non si limita a materializzare il desiderio, che pure in questo gruppo – e in specie in Fedora – in sé «è l’illimitato divenire e, in quanto tale, non può essere fissato in una forma» (Zancan 1996, p. 903): paradossalmente informata dalla nostalgia delle sue stesse alternative, la città permette all’autore di suggerire a un tempo l’utilità e la storicità delle utopie. Proprio in questa contraddizione risiede il valore civile, proiettivo, ma allo stesso tempo inevitabilmente velleitario del progetto di ogni Fedora nuova e diversa, dato che «nel momento della sua nascita tale sogno è già superato e può servire alle generazioni future solo come reperto utopico, se non addirittura anti-utopico» (Kuon 2001, p. 32).

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In una intervista del 1984 Italo Calvino, interrogato sulle ragioni del proprio successo, individua due elementi che mi sembrano particolarmente significativi: il fatto che in Francia la sua fortuna «nasce più dai lettori anonimi che dalla critica» (Calvino 1996, p. 237); e l’importanza de Le città invisibili: «Ancora oggi negli Stati Uniti io sono soprattutto l’autore di Invisible Cities, un libro che pare sia molto amato dai poeti, dagli architetti e in genere dai giovani universitari» (ibidem). Calvino inizia a essere tradotto molto presto, sin dagli anni Cinquanta, e la sua diffusione internazionale diventa esponenziale. Il Fondo Calvino Tradotto (cfr. Gambaro 2002), conservato all’Istituto di Cultura Italiano di Parigi, conta circa cinquecento traduzioni e una trentina delle Città invisibili (che a oggi sono tradotte in 43 lingue e pubblicate in 49 paesi; cfr. Palermitano 2020; Baldi e Schwartz 2023). Non a caso, a partire dagli anni Novanta, ha scritto Francesca Serra, proprio questo libro è stato fatto «oggetto di largo consumo aforistico, da formula epigrafica buona per molti usi, talvolta anche troppo facili o impropri; a partire dal grande successo americano che Le città invisibili ebbero quando furono tradotte nel 1974» (Serra 2006, p. 329). Ma non è solamente l’uso ‘verbale’ a caratterizzare la ricezione di questo libro, negli ultimi due decenni, infatti, si sono moltiplicate in particolare le transcodificazioni: semplici lettori o lettrici e artisti di professione si sono cimentati con il tentativo di dare una forma visibile di quanto, per la sua stessa definizione, si sottrae allo sguardo. E non è un caso che proprio le Città si siano prestate a questo tipo di operazione: da tempo, infatti, la critica ne ha sottolineato il carattere ‘aperto’, che richiede a chi legge (incarnato nella figura di Kublai Kan nel testo; cfr. Piazza 2009, p. 181) di confrontarsi con «una matrice aperta di meta-ambientazioni, spazio-temporali, ma soprattutto psicologiche, che il lettore è indotto/sedotto a riempire a seconda del proprio paesaggio interiore, cioè degli stati d’animo, dei vissuti, dei desideri, dei ricordi e delle angosce, dei progetti e dei rimossi che lo abitano» (Lanzetti 2017, p. 16). Sono città-rebus (o città-allegorie) che nascondono una «“figura” da leggere» (Belpoliti 2006; di «allegoria» ha invece parlato Mengaldo 1980, p. 410). Sono testi-città, come ha sottolineato Gianni Canova nella presentazione alla mostra Città In/visibili (Milano, Triennale, 5 novembre 2002 - 9 marzo 2003), che hanno la capacità di creare forme e morfologie, e in questo modo Calvino si è fatto anche «precursore e cartografo delle trasformazioni urbanistiche in atto nella seconda metà del secolo scorso, anticipando con la sua visionarietà alcuni dei tratti peculiari e salienti delle città e delle metropoli contemporanee» (Barenghi, Canova, Falcetto 2002; la fortuna delle Città invisibili nei discorsi di urbanistica e architettura è confermata da un volume dello stesso anno della mostra dedicato proprio a Invisible Cities and the Urban Imagination, curato da Linder 2002).

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Abstract: ITA | ENG

Le immagini ispirate al trittico araldico dei Nostri antenati non solo hanno saputo cogliere un aspetto essenziale delle tre opere di Calvino, ma spesso ne hanno fornito interpretazioni assai acute e inattese. L’intervento intende esaminare una recente transcodificazione visiva del Barone rampante, ovvero il Cosimo di Roger Olmos (2016). Il racconto per immagini dell’artista spagnolo sa dar conto e interpretare uno dei temi chiave del Barone, come di tutta la trilogia, ovvero le metamorfosi del corpo, che nel volume di Olmos divengono il fil rouge della narrazione iconica delle avventure di Cosimo Piovasco di Rondò e dei personaggi a lui vicini. Le trasformazioni fisiche a cui vengono sottoposti i protagonisti del romanzo di Calvino danno conto delle passioni incontenibili che accomunano tutti i personaggi che ruotano intorno al Barone, i cui corpi si fanno specchio e icona di tali monomanie che segnano la loro esistenza.

The images inspired by the trilogy Our Ancestors not only have grasped an essential aspect of Calvino’s work, but have often provided acute and intriguing interpretations of the three novels. The paper examines a recent visual transcoding of The Baronin the Trees, Roger Olmos’Cosimo (2016). Re-telling the story through images only, the Spanish artist focuseson one crucial theme of the Baron, as well as the entire trilogy, namely the metamorphoses of the body.In Olmos’ volume this theme thus provides the fil rouge for narrating the adventures of Cosimo Piovasco di Rondò and the other characters. In Olmos’ pictures, their physical transformations are shown to signify the overwhelming passions that affectthem, whose bodies become a mirror and an icon for the monomanias marking their existence.

 

 

1. Le immagini degli Antenati

Nel 1960, ripubblicando in un volume complessivo la trilogia dei Nostri antenati, Calvino riflette su ciò che lega le opere che la compongono.[1] Lo scrittore ligure insiste sulla comune matrice iconica dei tre romanzi, che li accomuna a molte altre opere calviniane.[2] Parlando del secondo volume della trilogia, il Barone rampante, l’autore rivela l’immagine che lo ha ispirato: «Anche qui avevo da tempo un’immagine in testa: un ragazzo che sale su di un albero; sale, e cosa gli succede? sale, ed entra in un altro mondo; no: sale, e incontra personaggi straordinari; ecco: sale, e d’albero in albero viaggia per giorni e giorni, anzi, non torna più giù, si rifiuta di scendere a terra, passa sugli alberi tutta la vita».[3] Si tratta di uno dei, non numerosi, casi in cui Calvino traccia uno schizzo dell’immagine da cui ha tratto ispirazione.[4] Ma le icone di partenza celano, naturalmente, una spiccata dimensione metaforica che allude a scottanti questioni storiche ed esistenziali.[5]

Come sottolineato in altra sede, lo scrittore ligure sembra non prendere in considerazione, o non voler mettere in evidenza, nella sua autoriflessione un altro aspetto che tiene insieme i romanzi della trilogia. Le tre icone che ispirano i Nostri antenati condividono un campo metaforico ben preciso: la realizzazione di questa insolita umanità delineata da Calvino si concretizza nel travalicare dei limiti fisici, corporei.[6] Ispirandosi forse all’amato Ovidio citato in molte pagine calviniane, gli Antenati subiscono delle profonde metamorfosi del corpo.[7] Per ottenere una piena completezza interiore, si passa attraverso il dimidiamento fisico, la scissione in parti antitetiche; per affermare la propria presenza, il proprio ruolo sulla terra, bisogna sperimentare la distanza, diventare creature appartenenti a un altro modo, arboreo e non terrestre; infine, per esistere, per esserci, si deve rinunciare al proprio corpo, sperimentare l’assenza, la trasformazione estrema nel nulla dell’armatura vuota di Agilulfo. Per questa ragione Il cavaliere inesistente può essere considerato l’approdo, il compimento, della trilogia, non soltanto per ragioni cronologiche, ma perché mette in scena la metamorfosi più radicale della corporeità come metafora della realizzazione umana.[8]

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Abstract: ITA | ENG

Con gli scritti introduttivi di Roberto Deiedier, sono stati recentemente pubblicati per Feltrinelli due testi di Elsa de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno (1992) e I coetanei (1955). I volumi, editi rispettivamente nel 2017 e nel 2019, rappresentano soltanto due frammenti del corpus dell’attrice-scrittrice, costituito da diversi generi letterari e da scritti critici. A partire dagli anni Cinquanta, infatti, de’ Giorgi, che in quel periodo è già un’attrice affermata, decide di esprimersi anche attraverso il medium letterario, componendo saggi, poesie, romanzi che hanno ricevuto negli anni una scarsa attenzione critica, oltre ad essere difficilmente reperibili. Sulla base della recente iniziativa editoriale, il contributo propone una lettura di Ho visto partire il tuo treno e dei Coetanei funzionale a una più generale contestualizzazione dei due testi, relativa sia alla complessiva produzione letteraria di de’ Giorgi, sia alla possibile corrente letteraria e agli approcci critici, tra cui la categoria elaborata da Maria Rizzarelli della ‘divagrafia’, messi in campo dalle sue opere.

With introductions of Roberto Deidier, two books of Elsa de’ Giorgi have been recently published by the publishing house Feltrinelli, Ho visto partire il tuo treno (1992) and I coetanei (1955). The books, respectively published in 2017 and in 2019, represent only two fragments of the entire production of the actress-writer, consisting of various literary genres and essays. Starting from the fifties, de’ Giorgi, who is already a successful actress in that period, decides to express herself also through the literary medium, writing essays, poems, novels that have received insufficient attention by critics over the years, in addition to being not easily available. On the basis of the recent editorial initiative, the contribution proposes a reading of Ho visto partire il tuo treno and I coetanei functional to a more general contextualization of the two books, related to both the overall literary production of de’ Giorgi and the possible literary stream and critical approaches, including the category of ‘divagrafia’ elaborated by Maria Rizzarelli, fielded by her books.

Attrice cinematografica e teatrale, scrittrice e regista, Elsa de’ Giorgi ha lasciato in eredità un patrimonio saggistico e letterario (dal testo critico Shakespeare e l’attore del 1950 e dai Coetanei, memoir resistenziale pubblicato nel 1955, fino al romanzo Una storia scabrosa, edito nel 1997) che solo negli ultimi anni è stato parzialmente ripresentato al pubblico dei lettori e delle lettrici.

Nel 2017, dopo una prima pubblicazione risalente al 1992, è stato edito da Feltrinelli con una prefazione di Roberto Deidier Ho visto partire il tuo treno, che ripercorre la relazione dell’artista con Italo Calvino, editor per Einaudi dei Coetanei e partecipe di un intenso confronto sentimentale e professionale durato dal 1955 al 1958. Ad una prima lettura, il volume si mostra dunque strettamente connesso all’acquisizione da parte del Fondo Manoscritti dell’Università di Pavia di quell’epistolario che Maria Corti ha definito, com’è noto, il «più bello, così lirico e drammatico insieme, del Novecento italiano».[1] La studiosa non ha mancato di offrire un prezioso resoconto sulla consistenza del carteggio, costituito da poco meno di trecento lettere di Calvino a de’ Giorgi, e sulla notevole valenza ermeneutica di quegli scritti. Nella trattazione contenuta nel suo ultimo libro, I vuoti del tempo,[2] Corti si sofferma sull’influenza che quel dialogo appassionato ha avuto sulla attività creativa dello scrittore. Dalla testimonianza di lettrice della studiosa emerge il continuo riflettere di Calvino sulla sua precedente produzione e il costante riscoprirsi dell’autore attraverso una nuova consapevolezza suggerita dall’affinità, anche intellettuale, con de’ Giorgi. È un’analisi senz’altro affascinante, quella di Maria Corti, che mira anche a mettere in evidenza i rimandi tematici tra le opere di Calvino e le lettere, e a consolidarne il ruolo di «avantesto»[3] rispetto alle prove narrative composte tra il 1955 e il 1959. Nella vulnerabilità di Viola del Barone rampante, nel temperamento nervoso del protagonista della Nuvola di smog, nella grotta sulle coste del Meridione in cui è ambientata L’avventura di un poeta non sarà dunque fuorviante rintracciare i riflessi delle dinamiche del rapporto dell’autore con l’attrice-scrittrice, delle sue confidenze e delle vacanze estive vissute in uno stato di grazia creativo.

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«Affascinante come un romanzo, documentato come un saggio accademico». La prima riga del risvolto di copertina che accompagna il nuovo libro di Alessandra Sarchi suggerisce immediatamente un quesito che i teorici della letteratura ci hanno insegnato a porci in modo quasi automatico e prioritario: a quale genere del discorso appartiene il testo che stiamo leggendo? La medesima riga, nel suscitare tale interrogativo, pare delimitare anche gli estremi dello spettro di possibilità: il romanzo, narrazione ‘affascinante’ per la sua capacità di avvincere chi legge, e il saggio accademico, rigoroso nel suo processo di ‘documentazione’. Le due tesi implicite che gli editori del testo di Sarchi sembrano avallare contrapponendo i due aggettivi corrispondono all’opinione generale nei confronti tanto dell’uno quanto dell’altro genere: il romanzo è associato al mondo della finzionalità, della ‘fantasia’ (intesa come facoltà immaginativa) su cui di norma si fonda gran parte del suo potere affabulatorio; si pensa al saggio accademico come a un qualcosa che, invece, sacrifica ogni velleità creativa a favore della documentazione che deve essere statutariamente manifesta in numerosi punti del testo (note a piè di pagina, citazioni da altri saggi, riferimenti interni, bibliografia finale ecc.), in nome di una scientificità che sempre più deve essere resa esplicita a fronte dei complessi procedimenti valutativi in seno alle istituzioni accademiche.

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