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Il volume La vita dei dettagli di Antonella Anedda si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora. Il presente studio affronta due concetti chiave al centro del libro: la nozione di dettaglio, cui Anedda conferisce un valore autonomo e personale, e quella di spettro/fantasma, attorno a cui la poetessa costruisce la propria riflessione sul rapporto tra ciò che è impersistente (il tempo, la vita stessa) e ciò che persiste, ciò che perdura oltre la morte (l’immagine).

Anedda’s La vita dei dettagli may be considered at the same time a declaration of poetics, a cahier of visual notes, a small treatise on reception and perception, a series of literary études (in the musical and pictorial sense of the word) and much more. This essay focuses on two key concepts at the heart of the book: the notion of detail (interpreted in a very personal way) and the interconnected ideas of spectrum and ghost, referring to the relationship between human life and what persists after death (the image).

 

E adorare i quadri che gli esseri umani hanno dipinto

i mondi senza vento che respirano quieti nei musei

Antonella Anedda, Adorare (le immagini)[1]

 

Il tempo non ha importanza: gli anni sono premuti sulla carta,

sulla tela, tela e carta che trattengono le cose

Antonella Anedda, Dall’arca[2]

 

 

La coazione a vedere e il bisogno di comprendersi mediante l’esercizio della scrittura sono i due perni attorno a cui ruota tutta l’opera di Antonella Anedda, la cui parola si fonda sull’interiorizzazione e rielaborazione dell’esperienza diretta e sul libero gioco dell’immaginazione. La passione della poetessa romana (ma di origine sarda) per la pittura è, da questo punto di vista, assolutamente paradigmatica, dal momento che non si traduce mai, sulla pagina, in mera ekphrasis; al contrario, l’opera d’arte funziona nei suoi testi come dispositivo di accrescimento della dicibilità dell’esperienza del reale, come una sorta di objet à réaction poétique, per parafrasare una nota formula di Le Corbusier. Il volume La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, che si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora, è da questo punto di vista un’opera esemplare.

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Nel maggio 1908 Hugo von Hofmannsthal intraprende un viaggio in Grecia alla scoperta del legame ideale che unisce la cultura classica e la modernità. In un primo momento l’esperienza si rivela deludente, poiché il poeta sembra fallire nel suo intento. Dal soggiorno in Grecia nascerà invece il racconto Augenblicke in Griechenland, la storia di un pellegrinaggio spirituale alla ricerca di un sapere culturale dimenticato, che culmina con l’ekphrasis delle statue esposte nel museo dell’Acropoli Ateniese. L’esperienza estetica delle opere d’arte antiche rappresenta qui il momento di epifania, che rende possibile l’incontro con l’Altro culturale della Grecia e al contempo fornisce l’ispirazione che inaugura l’atto poietico. Attraverso una complessa poetica dello sguardo, dunque, la scrittura di Hofmannsthal nasce sotto il segno dell’ekphrasis, quale atto di memoria scaturito dalla tensione tra archivio iconografico antico e letteratura. Essa inscrive al suo interno la costitutiva ambivalenza del discorso ecfrastico, in una costante oscillazione tra iconofilia e iconofobia, attrazione e ansia verso l’alterità testuale o culturale. Il superamento di tale ambivalenza, l’incontro con l’Altro antico, coincide quindi con la sintesi di verbale e visuale, che sprigiona la sua enargeia nell’atto performativo dello Zeigen, spingendo infine la scrittura oltre i propri confini e oltre la materialità stessa dell’immagine, a favore dell’epifania dell’essenza nel suo puro apparire.

In May 1908 Hugo von Hofmannsthal leaves for Greece in order to find out the ideal link bringing together ancient and modern culture. At first the poet is disappointed by his experience, as if he had missed his target. Instead, the stay in Greece will result in the short story Augenblicke in Griechenland, which tells about an inner pilgrimage in search of forgotten cultural knowledge, and culminates with the ekphrasis of the statues on display in the museum of the Athenian Acropolis. The aesthetic experience of the ancient works of art represents here the moment of epiphany, i.e. the encounter with cultural Other, and, at the same time, the moment of inspiration inaugurating the poietic act. Hofmannsthal’s writing, thanks to its complex poetics of the gaze, comes out as inherently ekphrastic, inasmuch as it represents an act of remembrance stemming from the tension between literature and ancient iconographic heritage. Moreover, it involves the inherent ambivalence of ekphrastic discourse, constantly oscillating between iconophilia and iconophobia, attraction and anxiety towards alterity, be this latter textual or cultural. The overcoming of the ambivalence, as encounter with the ancient Other, coincides with the synthesis of visual and verbal, that releases its enargeia with the performative act of Zeigen and pushes writing beyond its own limits as well as beyond the very materiality of image, allowing the epiphany of essence in its pure appearance.

 

Nel dicembre del 1907 il poeta Hugo von Hofmannsthal e il conte Harry Kessler, che si conoscono ormai da circa dieci anni, cominciano a progettare un viaggio in Grecia. Riguardo a questo viaggio Hofmannsthal commenterà più tardi che si è trattato dell’unico vero viaggio della sua vita, dal momento che, al confronto con esso, i viaggi in Italia, in Francia, e Inghilterra gli sembrano solo delle ‘passeggiate’ in diverse regioni di una stessa cultura.[1] Le aspettative dei due futuri compagni di viaggio vengono accresciute dalla lettura di alcune annotazioni dal diario di Gerhart Hauptmann, pubblicate nel gennaio 1908 sul Neuen Deutschen Rundschau con il titolo Aus einer Griechischen Reise.[2] Da quanto riporta Götz,[3] Kessler e Hofmannsthal pensavano alla Grecia come a un’Arcadia romantica,[4] sebbene il primo, al contrario del secondo, la conoscesse già. La partenza ha luogo nel maggio del 1908. Ai due amici si aggiunge anche il pittore francese Aristide Maillol, che Kessler proteggeva sin dal 1905.

Come spiega il conte Kessler in una lettera alla sorella, Hofmannsthal decise di interrompere il viaggio in Grecia anzitempo: «Hofmannsthal in Greece was a failure: il ne se retrouvait pas. He was almost always out of sorts, out of temper, or out of feeling with the surroundings. After ten days of much sufferings, he left us, to our mutual contentment […] he said he could not stand the barrenness of the country […]».[5] È probabile che Hofmannsthal fosse turbato dalla circostanza del ménage à trois creatosi in seguito alla decisione di Kessler di includere nel viaggio anche il pittore August Maillol.[6] La Grecia inoltre cominciava ad apparire al poeta «al momento del viaggio – anche come ambiente culturale – più lontana che vicina»,[7] tanto da giungere a dubitare di avere orientalizzato troppo la grecità nelle sue opere.[8] Da Kessler, infatti, si apprende che il poeta lamenta di avere perso la propria ‘fede’ nella grecità, dal momento che essa gli appare sfuggente, inafferrabile. Hofmannsthal aspira a una visione chiara della Grecia, ma tuttavia non riesce a ottenerla.[9]

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…in verità non siamo che immagini e somiglianze; artificio, simulacro, imitazione, copia, eco, invenzione, arte, falsità.

Max Aub

 

«Io sono un voyeur. Penso che qualsiasi fotografo sia un voyeur: che faccia fotografie erotiche o altro è comunque un voyeur. Si passa la vita a guardare attraverso un buco della serratura. Se un fotografo dice di non essere un voyeur è un idiota» (Newton, Grafis 1989). Non c’è risposta migliore, alla sfacciata provocazione di Helmut Newton, della mostra di Nan Goldin, che esibisce fin dal titolo l’idea che la fotografia consista innanzitutto nell’esercizio del guardare. Il recupero della dizione arcaica “scopophilia” (“amore per il guardare” ma anche “perversione sessuale”) intende ribadire la centralità del desiderio come traccia e forma della sua scrittura, da sempre votata al racconto per immagini delle zone più recondite del ‘sentire’ dei personaggi, figure di un eros instabile, pulsante, a tratti persino ‘indecente’ (si pensi alla potenza di The Ballad of Sexual Dependence).

Il progetto Scopophilia nasce per effetto di un sistematico e appassionato pellegrinaggio al Louvre: per molti mesi, ogni martedì – giorno di chiusura al pubblico – Goldin visita le stanze e fotografa, catturando attraverso l’obiettivo la cifra segreta dei grandi capolavori dell’arte. Il contatto ravvicinato con le opere rende possibile una straordinaria messa a fuoco di segni e dettagli, da cui scaturisce l’idea di accostare ai quadri e alle statue immagini vecchie e nuove del suo vivido catalogo di soggetti. L’esito di tale corpo a corpo è una rete di sorprendenti rime visuali, di citazioni, di pose, un sistema di somiglianze che toglie il fiato, per la forza inedita degli accostamenti, e rimette in discussione il concetto stesso di imitazione.

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«Quale rapporto intercorra tra la parola tipografica – quella poetica in particolare – e il gesto grafico del disegnatore, il colpo di pennello del pittore, il tratto di china del fumettista, il frame congelato del videoartista; in che modo questo rapporto si sia evoluto, modificato, arricchito nel tempo, […] sono questi, ci pare, i problemi fondamentali da cui partire per avviare una riflessione sul nesso arte-poesia […]». Così Riccardo Donati apre la Prefazione al volume Nella palpebra interna. Percorsi novecenteschi tra poesia e arti della visione (Le Lettere, Firenze 2014), introducendoci nella trattazione, di ampio respiro, del rapporto tra poesia e arti della visione che è, nelle sue più differenti declinazioni, pur sempre una questione di designazione e assimilazione di codici differenti.

All’incrocio di arte della visione e arte dell’enunciazione si situa lo ‘sguardo’ del poeta che diviene parola-guida dei capitoli nei quali si analizzano le quattro differenti «forme del vedere arte in poesia» (p. 13) e i loro rappresentanti più significativi del Novecento italiano. Il lavoro di Donati instaura dialoghi, spesso inaspettati, tra poeti e autori non di rado distanti fra loro. È cioè sottesa a questa mappatura di sguardi novecenteschi la visione critica dello studioso che non teme di farsi ardita e fornire una chiave di lettura, tra le tante possibili, di una materia così eterogenea: ogni capitolo ha, dunque, la dichiarata natura di percorso, avventuroso ma costantemente guidato. Il pericolo del disorientamento è scongiurato dalle coordinate metodologiche e interpretative che Donati fornisce prima, per traghettarci, poi, lungo un viaggio che procede attraverso una scansione erudita e argomentativa in cui si chiamano in causa direttamente i testi offrendo, così, una ricognizione attenta e originale del panorama culturale considerato.

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Riprese video: Salvo Arcidiacono e Luca Zarbano; Riprese audio e musica: Luca Zarbano; Montaggio: Giulio Barbagallo; Grafica e Animazioni: Gaetano Tribulato

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