Giorgio Bacci – Iniziamo dal 2011, data di pubblicazione dell’Orlando furioso: com’è nata l’idea dell’edizione illustrata della Treccani?

Mimmo Paladino – Uno dei classici e semplici inviti da parte della Treccani e dell’allora direttore Massimo Bray. Un’avventura come quella, con tutta la grande qualità classica editoriale della Treccani, era una bella sfida, ma già per le Éditions Diane de Selliers mi ero rapportato con il problema di affrontare un grande classico in un’edizione pregiata, in quel caso l’Iliade e l’Odissea.

G.B. – Come si pone l’artista in questi casi?

M.P. – Il nodo centrale è se un artista debba avere a che fare con un suo contemporaneo, vivente, oppure no. Ciò infatti implica eventualmente un rapporto diretto, innestando una sorta di gioco al rimando. Invece, di fronte ai grandi classici del passato, bisogna porsi con umiltà, consapevoli che quelle pagine sono già state illustrate da grandi artisti. L’atteggiamento tuttavia deve essere quello di trovare nel testo qualcosa di nuovo, qualcosa che può sollecitare a fare un disegno che sia comunque sorprendente per chi lo guarda e soprattutto che possa dare una lettura diversa dalla pagina stessa. Non mi comporto da illustratore ma da ‘verificatore’. Se si riprende un testo così importante e classico è perché comunque bisogna voler dare una lettura contemporanea anche attraverso la pagina disegnata. La libertà che mi posso consentire è data dal fatto che sono un pittore prestato alla letteratura, non un illustratore, quindi da me non ci si aspetta un pagina illustrativa, ma qualcosa di diverso.

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Alice cominciava a non poterne più di stare sulla panca

accanto alla sorella, senza far niente;

una volta o due aveva provato

a sbirciare il libro che la sorella leggeva,

ma non c'erano né figure né dialoghi,

«e a che serve un libro», aveva pensato Alice,

«senza figure e senza dialoghi?»

L. Carroll, Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie[1]

Quante Alici ci sono in giro? L’ultima in ordine di apparizione è quella reinventata da Yayoi Kusama (Orecchio Acerbo 2013), stravagante, psichedelica, coloratissima.

La Kusama, moderna Alice di ottantaquattro anni, è artista di riferimento in Giappone e vive un ‘equilibrio’ creativo che oscilla sempre tra ordine e disordine grafico, tra astrazione e figurazione. «Il mio lavoro artistico è espressione della mia vita, in particolare della mia malattia mentale», ha ripetuto spesso l’artista, e il suo mondo folle, in quest’ultimo lavoro, sembra procedere adattando il racconto di Carroll alle ragioni della sua arte. Le pagine così si caricano di palle e palline colorate, texture, figure che ci trascinano dentro deliri cromatici. Invano si ricercherebbe nelle pagine di questa Alice una logica: le tavole si muovono libere, galleggiano in un mare di parole, alludono senza mai precisare, definire, chiarire. Appaiono e scompaiono, concrete e trasparenti come il sorriso del gatto del Cheshire. Per la Kusama conta più il viaggio di chi lo fa. L’immagine di Alice compare giusto un paio di volte: quando, dopo essersi rimpicciolita, diventa altissima (Kusama la rappresenta soltanto in dettaglio, mostrandoci la testa con il lungo collo) e nell’ultima illustrazione, in un abitino rosso a pois bianchi, affacciata alla finestra di quella grande zucca gialla a pallini neri diventata un simbolo della sua produzione artistica, ispirata all’infanzia trascorsa in campagna. Le illustrazioni rifuggono le immagini più scontate, come se l’artista volesse lasciare al lettore un ulteriore margine di fantasia all’interno del quale scegliere, per i personaggi, le sembianze più adatte. Il Coniglio Bianco sfugge alla visione reticolata e puntinata dell’artista; del gatto del Cheshire rimane un sorriso ‘umano’; del Cappellaio Matto sopravvive soltanto il cappello, mentre non ci sono tracce dei suoi commensali. Abbondano invece fiori, farfalle, fette di anguria, grappoli d’uva, e funghi (allucinogeni?); la natura morta prende vita, i fiori sembrano pericolosi carnivori con petali e foglie circondate di spine, le figure umane si ritirano tra le pagine, confinate fra le righe di Carroll.

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La piana architettura che tiene insieme i Racconti con figure di Tabucchi, raccolta di scritti legati a riproduzioni di opere figurative, è organizzata secondo uno spartito musicale, forse nella convinzione borgesiana che la musica altro non sia «che una misteriosa forma del tempo» (p. 78). E di tempo – rincorso, fermato o perduto – è intrisa l’intera opera. Nei tre movimenti in cui è suddivisa la raccolta – Adagi, Andanti con brio, Ariette – l’immagine e la parola vestono ancora una volta, verrebbe da dire con Tabucchi, il dolore del tempo. Riuscendo però a oltrepassarlo, per sconfinare in autentiche dichiarazioni di poetica, che si avvalgono della pittura e della fotografia come gli artisti del frottage si servono delle superfici scabre per far emergere le figure desiderate. E tali figure sembrano indicazioni di possibili percorsi dentro uno spartito-atlante che svela le personali geografie dell’autore, costringendo a far mutare il giudizio del lettore, a seconda che egli legga l’opera seguendo un’a o l’altra delle ipotetiche mappe possibili. La tentazione è di andare oltre la suddivisione in movimenti musicali proposta dall’autore, in cerca di altre indicazioni che permettano di ‘visitare’ i racconti raggruppandoli secondo altri principi, seppure di carattere estrinseco: ad esempio l’anno di composizione, che rivela le diverse scansioni del pensiero dell’autore; oppure l’atto stesso della pubblicazione, discrimine tra racconti editi e inediti; o ancora la collocazione originaria del singolo scritto, che permette al lettore di distinguere i diversi toni di un racconto, di una prefazione ad un catalogo o della recensione su un quotidiano; persino il grado di amicizia che lega l’autore agli artisti può fungere da indicazione per il lettore-critico, costretto a destreggiarsi tra enunciati sentimentali e riflessioni.

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