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Un crocevia perduto del nostro divenir donne si trova nel confondersi e nell’annullarsi delle nostre relazioni con la madre e nell’obbligo di sottometterci alle leggi dell’universo degli uomini.

Luce Irigaray, Il tempo della differenza

 

 

Nel panorama del cinema italiano contemporaneo l’opera di Alina Marazzi occupa un posto di rilievo sia per le scelte stilistiche che la contraddistinguono, innovative e sperimentali in un’area di intersezione tra cinema di finzione e cinema documentario, sia per l’attenzione a tematiche riconducibili a un’indagine sul femminile. In una inedita commistione di linguaggi eterogenei, attraverso l’uso di found footage, immagini d’archivio e di famiglia, ma anche interviste, animazione e così via, Marazzi compie un’operazione culturale di re-visione dell’immagine della Donna nella società italiana degli ultimi decenni indagando personaggi di donne reali che proprio perché «non aderiscono a modelli prestabiliti», vivono un forte senso di displacement e inadeguatezza nei confronti dei ruoli femminili tradizionali (Rich 1972). In quella che può essere definita la trilogia sulla maternità – che comprende Un’ora sola ti vorrei (2002), Vogliamo anche le rose (2007) e Tutto parla di te (2012) – la regista presta particolare attenzione al complesso legame madre-figlia, laddove la maternità è esplorata come una condizione problematica dell’identità femminile (Gamberi 2013). Afferma a questo proposito la regista:

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Nel cinema italiano contemporaneo sta manifestandosi un fenomeno inatteso, che come un filo sottile ma tenace sta portando alla luce un nuovo modo di narrare attraverso le immagini.

Nuove registe e nuove attrici hanno iniziato a popolare la scena cinematografica nazionale proponendo storie diverse, e personaggi, maschili e femminili, fuori dal canone. Operando un superamento degli stereotipi, non solo relativi alla sfera femminile, tendono a modificare drasticamente quella sorta di sovrastruttura narrativa che è stata per secoli il racconto unico di tutte le vite: l’amore eterosessuale, e la sua realizzazione attraverso il matrimonio e la procreazione.

Le opere sono molte e differenti: Ossidiana (2007) di Silvana Maja, Nina (2013) di Elisa Fuksas, Miele (2013) di Valeria Golino, Vergine giurata (2015) di Laura Bispuri, i film di Marina Spada, di Alice Rohrwacher, di Giorgia Cecere e di Donatella Maiorca, per fare una rapida e sommaria carrellata.

Se analizziamo e confrontiamo i plot di questi film e le scelte registiche, sia dal punto di vista della messa in scena sia da quello del lavoro attoriale, parrebbe che le donne dietro e davanti alla macchina da presa stiano cercando di scardinare quello che Paul B. Preciado definisce «l’impero della normalità», ovvero quell’universo di storie prevedibili dove le personagge possono essere solo madri e mogli, a favore di narrazioni più aderenti al loro immaginario [figg. 1 e 2].

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Riconduci i tuoi modelli alle tue regole:

esse ti lasceranno agire in loro e tu li lascerai agire in te.

Robert Bresson, Note sul cinematografo

 

 

1979. Gabriella Rosaleva lascia la scuola di cinema e decide di acquistare una Super8. Comincia a girare piccoli lavori. La svolta arriva l’anno successivo, nel 1980, quando si propone di realizzare tre cortometraggi: Cornelia, L’isola Virginia, La borsetta scarlatta [fig. 1].

Daniela Morelli nasce a Varese, stessa città di Gabriella Rosaleva. Studia recitazione alla Scuola del Piccolo Teatro a Milano, fondata da Paolo Grassi, dal 1972 al 1974. Nel 1980 viene contattata dalla regista che le propone il ruolo di protagonista per tutte e tre le pellicole [fig. 2].

Tra Rosaleva e Morelli nasce un sodalizio artistico che perdura negli anni e che porterà le due donne a collaborare in numerose e fruttuose occasioni. Rosaleva rimane colpita da diverse caratteristiche di Daniela Morelli: quell’aria un po’ irlandese che emana grazie alla folta chioma rossa, l’eleganza dei modi; il fascino che Morelli sprigiona convince la regista a sceglierla come protagonista assoluta dei suoi primi lavori. «La mia prima trilogia l’ho fatta con lei. I miei lavori più importanti li ho fatti con lei», afferma Rosaleva nell’intervista che mi ha concesso, quando le chiedo di raccontarmi gli inizi del loro rapporto.

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Le mie madri (2003) di Nada Malanima è un libro composito, ibrido, che alterna brevi paragrafi in prosa a fitti passaggi in versi: un esperimento ben calibrato di autofiction, che si chiude con una rivelazione per certi aspetti spiazzante:

La cantante-scrittrice nell’ultimo capitolo – che non a caso dà il titolo all’intera opera – confessa l’invenzione di un doppio materno, figura indispensabile per colmare le intermittenze affettive di un’infanzia segnata dalla malattia di colei che con grande tenacia l’aveva messa al mondo. In poche righe emerge il dramma di un’intera vita («adesso che la vita ti ha rimpicciolita io ti guardo e ti odio, perché ho ancora bisogno di te»), e allo stesso tempo si rende manifesta tutta la fragilità di una appassionata donna-bambina. Si tratta di un brano cruciale per intendere il denso groviglio di sentimenti da cui scaturisce l’immaginario biografico e musicale dell’autrice, attraversato da alcuni motivi cardine e da una ‘ossessione’ materna mai banale. Il fantasma di una madre finalmente presente, attenta e dolce («che vive dentro di lei») non è una finzione letteraria ma la proiezione di un desiderio reale, destinato a diventare ritmo, grido, silenzio. E di nuovo letteratura. Nel 2008 Nada pubblica, infatti, Il mio cuore umano, un romanzo in cui quel cupo grumo di illusioni e strappi condensato ne Le mie madri si scioglie in racconto, distillando fatti, memorie, occasioni di una fanciullezza a suo modo felice, prima del brusco ingresso nel mondo dello spettacolo. La storia si arresta lungo i binari del treno che porta Nada a Roma, in vista dell’audizione che avrebbe invertito il senso di marcia della sua esistenza; i lampi abbaglianti dei fotografi, gli studi televisivi, il profumo di celebrità della kermesse sanremese sono ancora lontani: contano solo i battiti di una famiglia un po’ sghemba, le fibrillazioni di una bambina a cui basterebbe qualche carezza in più. Lo stile di Nada è semplice e avvolgente, sa di terra e pianto, a tratti può sembrare scoperto ma conserva una fibra autenticamente poetica, che incanta e commuove.

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Una giovane donna di voraci e disordinate letture, quasi un’autodidatta, nata e cresciuta in un villaggio remoto, si immagina e si fa scrittrice, sottraendosi ai copioni destinati da tempi immemori al suo sesso e affermandosi con insospettabile forza nel panorama letterario internazionale. Raccontata così, ridotta all’osso, la parabola di Grazia Deledda somiglia straordinariamente a quella di una Emily o Charlotte Brontë, e ai miei occhi appare come uno splendido e promettente soggetto cinematografico. Eppure nessun film narra la sua vita e, diversamente dalle intrepide inglesi, persino sul versante letterario mi pare che la figura e le opere della scrittrice nuorese siano state tramandate attraverso un filtro di minorità, accompagnate da un sapore di inservibili anticaglie folcloristiche dalle quali è prudente stare alla larga. Occorre attendere …con amore, Fabia (1993), esordio alla regia di una giovane autrice sarda, Maria Teresa Camoglio, per poter vedere sugli schermi la storia di Deledda, traslata in un racconto di donne distanti nel tempo ma vicine nello spazio simbolico della relazione femminile. Il film è liberamente tratto da Cosima (1937), romanzo autobiografico, pubblicato postumo, di Grazia Deledda. ‘Liberamente’ è un avverbio ambivalente, giacché da un lato autorizza letture nel senso di un cauto allontanamento dal testo letterario, ridotto a puro pretesto, che Camoglio modernizza e stravolge; dall’altro lato, ed è questa la mia proposta, suggerisce la strada di una rielaborazione ampia nel segno della libertà femminile, di una autonomia piena ma non dimentica della sua origine. Così prende forma un testo filmico del tutto personale e, al contempo, intimamente pervaso dalla sua matrice letteraria, coniugata al presente e declinata a partire da sé in un racconto che, attraverso la vocazione artistica e le vicissitudini di Fabia, intreccia le biografie di Cosima, della scrittrice e della stessa regista.

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Monica, Valeria e le loro personagge. Cinema d’autore e cinema di attrici. Attrici autrici, dalla regia alla scrittura. Figlie che hanno saputo confrontarsi con l’‘ombra’ delle madri ma che spesso non sanno essere madri. Donne alla finestra, come nei melodrammi hollywoodiani, ma qui le finestre si schiudono su paesaggi inconsueti, su scenari di alterità, spazi che appartengono al perturbante, aperti, come direbbe Lacan, all’irruzione del Reale, su una scena che, scrive Graziella Berto (2002), separa il soggetto dal proprio desiderio lasciando sorgere la beanza di uno sguardo stupito di fronte a un mondo che è il luogo dell’Altro. Claudia, di spalle, apre la finestra a Lisca Bianca sul mistero dell’amica scomparsa [fig. 1]; Vittoria, ancora di spalle, contempla il fungo dell’Eur, fuori della modernità e della minaccia atomica ma anche di una libertà tutta da esplorare, mentre la finestrella nella vecchia casa di Piero, forse abitata da fantasmi, è un’ulteriore figura di raddoppiamento – la fugace comparsa di un volto femminile nella finestra di fronte [fig. 2] – che ci fa slittare dalla presenza del mimo, tanto cara ad Antonioni, a quella unheimlich del sosia e alla dimensione fantastica di molta letteratura femminile (l’eco di un gotico che rimane in film come Il Castello in Svezia [R. Vadim, 1963] o in Il mistero di Oberwald [M. Antonioni, 1980] o, ancora, Un castello in Italia [V. Bruni Tedeschi, 2013] dove il passato è il vissuto dell’attrice-autrice); Giuliana guarda dalla camera di Corrado la notte nella quale fuggirà quando è «riuscita a essere una moglie infedele» (Il deserto rosso, M. Antonioni, 1964); Lisa decrea il suo mondo dalle sbarre della prigione perché possa esserci per lei una ‘seconda volta’ [fig. 3]; Carmen osserva con agire protettivo e amoroso gli uomini a cui è legata dalle vetrine del bar in cui lavora [fig. 4]; Angela scopre il suono di un violino che la allontanerà dalla esattezza rassicurante dei numeri ma solo dopo aver conosciuto Sara e il suo per ora non rimediabile dolore (La parola amore esiste, M. Calopresti, 1998); Carla, ma solo per caso, il ‘suo’ teatro (Il capitale umano, P. Virzì, 2013); Beatrice il ritorno sperato di Donatella quando la cura nasce dalla relazione (La pazza gioia, P. Virzì, 2016). Finestre che non sono più figure che imprigionano il desiderio ma passaggi attraverso i quali si dispiega un nuovo sentire sia pure segnato dall’incertezza e al di là dei quali si delineano, come scrivono Treder e Chiti, spazi di libertà e di divenire. Se nel volume curato da Treder, Chiti, Farnetti (2002), al quale il titolo del nostro saggio si ispira, oggetto dell’analisi è il rovesciamento simbolico del concetto freudiano operato dalle scritture femminili, dove il perturbante appare quale occasione ‘imprevista’ per tentare quelle che Farnetti definisce forme inaudite di rappresentazione di sé e del proprio desiderio, il perturbante che due attrici come Monica Vitti e Valeria Bruni Tedeschi, più volte avvicinate dalla critica, iscrivono nei film che le vedono protagoniste non si conclude appunto nel consueto paradigma dell’angoscia, generando piuttosto, come scrive ancora Farnetti, gentilezza, compassione, affetti, amore e persino il sorriso.

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