Mi piace affacciarmi a questa finestra un poco prima dell’alba: fra le quattro e le cinque del mattino, New York è deserta. È l’unica ora in cui sembra che la città si conceda un breve riposo, le strade sono silenziose, le luci dei grattacieli spente, una leggera foschia comincia a formarsi sui laghetti del parco: è uno degli spettacoli più belli del mondo. E quando da quelle colline là di fronte spuntano le prime luci, si vede soltanto la cima delle torri appoggiate sulla nebbia, è un paesaggio magico, sospeso nell’aria, tinto di azzurro e di viola […].
Anna Magnani, New York, 1955
Nascosta tra la piccola finestra di un maestoso grattacielo affacciato su Central Park, un’insonne Anna Magnani contempla l’alba nascente, di colore viola, sulla città di New York. Questa è forse la più bella immagine della cronaca del suo primo viaggio negli Stati Uniti, non soltanto per la plasticità del bel controcampo che ci offre, ma per quella del piacere e del desiderio di un’attrice che per una volta sparisce come corpo per diventare sguardo.
La mia avventura americana, pubblicata da Tempo nel 1953, è l’unico pezzo autobiografico rimasto di Anna Magnani, che non lasciò memorie scritte né autorizzate. Si tratta di un’insolita ‘finestra’ sull’intimità, che tanti suoi contemporanei invano cercarono di penetrare, di un raro paesaggio interiore di un’attrice che è stata celebre sia per la sua generosità sulle scene, sia per l’estrema determinazione con la quale ha chiuso allo sguardo pubblico, come fece davanti alla camera di Fellini in Roma (1972), i limiti della sua privatezza.