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Nota principalmente come cantante, Gabriella Ferri era invece un’artista completa. Donna intensa, irrequieta, profondamente sensibile esprime il suo talento soprattutto nell’interpretazione di canzoni e di sketch brillanti.

Capitolina di nascita (1942), deve al quartiere Testaccio la sua romanità che le darà l’identità artistica. «Il dialetto è la mia lingua» diceva spesso, e difatti non l’abbandonerà mai, rendendolo l’insegna della sua autenticità.

Scopre le canzoni popolari grazie al padre, al quale era profondamente legata, e riesce a dare forma alla sua passione per gli stornelli e la musica folk quando incontra Luisa De Santis, figlia di Giuseppe (regista di Riso Amaro). Insieme danno vita al duo Luisa e Gabriella e vanno a cercare fortuna a Milano dove vengono ribattezzate le Ê»romanineʼ. La fortuna le trova e nel 1964 fanno il loro esordio televisivo nella trasmissione La fiera dei sogni presentata da Mike Bongiorno, cantando La società dei magnaccioni. Nei giorni seguenti all’apparizione televisiva il 45 giri del brano venderà un milione e settecentomila copie. «Non mi piace parlare della mia carriera. È nata per caso e continua per caso», scriverà anni dopo la Ferri. Punto di vista che nel racconto della sua carriera rispettiamo e facciamo nostro, tranne che nell’accendere dei fari sugli incontri tra questa casualità e gli Ê»schermiʼ.

Il primo è il piccolo schermo che, grazie alla suddetta trasmissione di Bongiorno, le dà subito grandissima visibilità. È un mezzo che a malapena ha dieci anni, trasmette le immagini in bianco e nero, ma soprattutto è una vetrina attenta ai giovani.

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«Sono comunque un’attrice ed ho una necessità fisica di perdermi nel profondo degli intricati corridoi dove si inciampa tra le bave depositate da alieni, tele di ragno luminose e mani, mani che ti spingono verso i buchi neri screziati da lampi di colore, infiniti, dove sbattono qua e là le mie pulsioni forse dimenticate da sempre oppure taciute... per poi ritrovare l’odore della superficie e rituffarmi nel sole dei proiettori, nuova, altra».

Laura Betti

 

 

Laura Betti ha attraversato con «ferocia felina» (Risset 2006, p. 9) la storia culturale del secondo dopoguerra, disegnando una parabola per certi aspetti inedita, scandita da un invincibile fuoco espressivo (si pensi all’epiteto bretoniano «Laura calamitante») e da un dirompente gioco a nascondere. L’unicità del suo stile si misura a partire dalla capacità di intrecciare generi e linguaggi – cabaret, canzone, teatro, cinema, rivista – secondo un disegno anarchico che si preciserà via via grazie soprattutto all’incontro con Pier Paolo Pasolini («Fino ad allora, la mia vita non era stata altro che un’abitudine. Lui è diventato la mia vita»), di cui nel tempo diventerà musa e custode.

La fibra passionale del suo temperamento e la scelta di ruoli e codici spesso ibridi, fuori dai canoni, hanno reso problematico l’inquadramento di Betti dentro i binari del divismo italiano e soprattutto hanno condizionato l’indagine sul suo alfabeto d’attrice: pur essendoci diversi dossier a lei dedicati, manca uno studio sistematico del suo «idioletto» (Naremore 1990) e spesso la lettura dei suoi «segni di performance» (Dyer 2009) rimane schiacciata da ipoteche biografiche o aneddotiche.

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5.6. Il corpo cangiante. La recitazione di Stefania Sandrelli tra desiderio e mutevolezza 

 

1. Che cos’è recitare?

Uno dei rischi che si corrono quando si cerca di esplorare il territorio vastissimo, e forse non ancora del tutto cartografato, della recitazione di Stefania Sandrelli è quello di parlare di lei più come di un simbolo che come di un’attrice: di vederla solo come icona di costume, segno di un tempo nuovo che cerca con fatica di abbandonare modi e usi di un’Italia che va scomparendo, e così di lasciarne in sottofondo il lavoro sottile e multiforme di interprete.

Quello di Sandrelli attrice è un terreno impervio, dunque, se lo si pensa alla luce dell’immagine divistica che Stefania costruisce in pochi anni (esordisce nel 1961, con Gioventù di notte di Mario Sequi e poi con Il federale di Luciano Salce, a quindici anni). Sandrelli incarna prima di tutto il mito della ragazza della porta accanto che, scoperta per caso, diviene una stella del cinema − celebre la foto che la ritrae a Viareggio, la gonna scozzese e il golfino blu elettrico, ragazzina perbene e maliziosa insieme [fig. 1]: un miscuglio di ingenuità e seduzione che segna fin da subito la sua star persona e che esplode poi nei due film di Germi, Divorzio all’italiana (1962) e Sedotta e abbandonata (1964).

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Raccontare le donne, in letteratura, in pittura, come in qualunque altro tipo di espressione artistica, sino almeno a buona parte del Novecento, è stato troppo spesso appannaggio degli uomini e quando qualche donna ha trovato le condizioni e il coraggio per raccontarsi e raccontare (cosa che per fortuna è accaduta) lo ha fatto perlopiù con una vena tragica o malinconica, esprimendo con toni drammatici i propri sentimenti a lungo soffocati. Lo ha raccontato anche Virginia Woolf, inventandosi il personaggio di Judith, la sorella di Shakespeare. D’altro canto, a partire dall’età moderna, il mondo del teatro ha avuto la particolarità di annoverare tra le schiere delle proprie artiste anche spiriti energici e ironici, capaci di giocare con le maschere del proprio sé e di sperimentare, con l’ausilio della finzione scenica, una qualche forma di libertà sociale e sessuale, travalicando (non solo con ruoli en travesti) i confini che separano i generi. Ecco che, per restare in ambito italiano, comiche dell’arte, come la ben nota Isabella Andreini, sono alla base della costruzione dell’identità scenica contemporanea, prefigurata dalle caratteriste del teatro dei ruoli ottocentesco (soprattutto all’interno del repertorio shakespeariano e goldoniano), sino ad arrivare alle sperimentatrici di nuove forme comico-popolaresche e dialettali come Dina Galli, Titina De Filippo, Ave Ninchi. Ma raramente queste attrici sono state anche autrici, scrittrici, registe, insomma autonome sia nella creazione del proprio stile recitativo sia nella costruzione delle storie e nella definizione del quadro poetico ed estetico entro cui collocarle. Naturalmente l’ultima nata tra le arti visive ha potuto contare su un numero maggiore di artiste consapevoli del proprio ruolo, non più soltanto mere interpreti, muse ispiratrici di registi affermati o volti Ê»che bucano lo schermoʼ, ma colte esegete della realtà, Ê»poetesseʼ della visione o ancora, col passare del tempo, esperte di ripresa e montaggio, dunque artefici di un processo e di un prodotto audiovisivo che Ê»inquadraʼ il mondo femminile con un occhio diverso, da una nuova prospettiva.

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1. Venere in bikini

Lucia Borloni ha solo sedici anni quando, nel 1947, vince Miss Italia. Il ‘racconto’ di Lucia, che muta di lì a poco il cognome in Bosè, è quello della ‘stella che nasce’: notata da Luchino Visconti nella pasticceria Galli in pieno centro a Milano, il concorso di bellezza la espone agli sguardi degli italiani e delle italiane della Ricostruzione. Cresciuta in una fattoria fuori Milano, con un corpo che esibisce curve mediterranee ma che si muove con l’eleganza di una sofisticata mannequin, Lucia viene considerata la giusta interprete di una Italia in transizione, alla ricerca di una nuova identità ancora fluttuante tra tradizione e modernità. La giovanissima italiana si trova infatti ad incarnare un nuovo corso di rinascita economico-sociale insieme ad una rinnovata immagine della nazione che passa, come tante volte nella nostra storia, attraverso la rappresentazione della donna e del suo corpo. Proprio in quell’anno, si registra un passaggio dall’attenzione per la bellezza del volto a quella per le grazie del corpo: nel ’47 il concorso per eleggere la più bella delle italiane si americanizza e le misure di seni e fianchi acquisiscono maggiore importanza, scalzando la centralità avuta l’anno precedente da un viso intenso ma acqua e sapone, indice di modestia e purezza. Insieme alle altre concorrenti, Lucia viene ammirata con indosso un costume due pezzi e viene fotografata in questa tenuta a più riprese [fig. 1]. Alla premiazione accorre tutta la stampa nazionale, a testimonianza della repentina esposizione mediatica di cui è oggetto la sedicenne. Un fotografo la ritrae in una posa molto provocante che finisce sui giornali provocando scalpore [fig. 2]. Sul Corriere della sera appare la lettera di un lettore indignato, in realtà scritta da Leonardo Borgese, per come Lucia è ritratta «seminuda e peggio che nuda, addobbata secondo la moda delle prostitute, le labbra verniciate spudoratamente; e dalle labbra penzola la Lucky-Strike e fra le dita il “lighter” acceso […]» (Villani 1957, p. 94). La «bambina stravolge gli occhioni»: se Lucia viene rapidamente etichettata come moderna, incarna anche una lolita sexy, conturbante e scandalosa.

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Nel provino Lucia Bosè rivelò un’aria fosca e conturbante, giustissima. E quando […] cominciammo a metterle addosso abiti di alta sartoria e gioielli veri, si trasformò in uno splendore. […] Aveva 19 anni, era meravigliosa, non si poteva non innamorarsene.

Michelangelo Antonioni

 

Guarda il cielo. C’è una costellazione che ha nome «Cavaliere»? […]

Anche la congiunzione astrale inganna.

Pure, per qualche istante ci rallegri

credere alla figura. Questo basta.

Rainer Maria Rilke

 

 

Inizia così, in un giorno ‘troppo bianco’ per essere vero, la favola della piccola Lucia Borlani, nata in una famiglia contadina di San Giuliano Milanese e destinata a diventare, con il nome di Lucia Bosè, una delle stelle più fulgide nel firmamento del cinema popolare italiano degli anni Cinquanta. Una stella dell’Orsa Minore, a voler essere precisi, tenendo conto della collocazione siderale attribuita a Bosè da Stefano Masi ed Enrico Lancia nella loro personalissima galleria delle dive più importanti del secondo dopoguerra, elaborata sulla base di una semi-seria tassonomia astronomica. Ammesso che abbia senso interrogarsi sui criteri di gusto in base ai quali certe attrici figurano in una determinata costellazione anziché in un’altra – sarebbe un gioco fin troppo lezioso –, l’unica considerazione spendibile potrebbe, forse, riguardare un’evidenza strutturale che rimanda direttamente alla forma degli astri: l’Orsa minore o Piccolo carro ripropone il medesimo schema stellare delineato dall’Orsa maggiore, ma in scala ridotta; si tratta di una costellazione che somiglia ad un’altra, di un’identità che si definisce a partire da un’alterità, di un qualcosa che, allo stesso tempo, ‘è e non è’. Ed è proprio questa particolare tensione dinamica tra polarità mobili, tra differenze proporzionali, tra realtà e apparenza, a contraddistinguere il percorso cinematografico (e umano) di Lucia Bosè, per quanto concerne la fase aurorale della sua carriera di attrice, che coincide in definitiva con l’affermazione del suo astro divistico attraverso le collaborazioni con registi come Giuseppe De Santis (Non c’è pace tra gli ulivi, 1950, e Roma ore 11, 1952), Luciano Emmer (Parigi è sempre Parigi, 1951, e Le ragazze di Piazza di Spagna, 1952) e Michelangelo Antonioni. È il regista di Ferrara, in particolare, a plasmarne l’immagine cinematografica di «diva divina» (come viene definita dalla sua biografa spagnola, Begoňa Aranguren) e a fissarla nell’immaginario iconografico del decennio, affidandole il ruolo della protagonista in due film molto importanti: Cronaca di un amore (1950) – il primo lungometraggio di Antonioni – e La signora senza camelie (1953). Si deve partire senz’altro da quest’ultimo titolo per iniziare a tratteggiare i contorni di un ideale profilo di Lucia Bosè, perché in esso è racchiusa l’essenza del mistero che ammanta la sua figura di attrice e di donna, mistero che può essere inscritto in un interrogativo tanto banale quanto fondamentale (soprattutto se ci si sta muovendo in un contesto dai richiami evidentemente melodrammatici): cosa significa ‘non avere’ camelie?

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«Il femminile viene scelto perché travestito da maschile: questo è il segreto del successo di figure come la vamp, la donna fatale, la donna sessualmente emancipata, aggressiva, moderna» (Passerini 1988, p. 54). Così Luisa Passerini descriveva la repulsione delle giovani donne degli anni Sessanta nei confronti dei modelli di femminilità incarnati dalle madri. Questo rifiuto era legato alle nuove ambizioni con cui le ragazze italiane si affacciavano al mondo, ma era anche sintomo di uno spaesamento. In quegli anni, infatti, il posto delle donne nell’Italia del boom economico era ancora un’incognita e i veicoli di affermazione sociale erano ancora ritagliati a misura maschile. Riconoscimento professionale, scolastico e militanza politica: ognuno di questi ambiti risultava particolarmente insidioso.

Il cinema, sempre saldamente al centro del sistema mediale italiano, non tardò a intercettare a suo modo queste tensioni e a modellare di conseguenza i volti femminili che apparivano sullo schermo. Fu la commedia all’italiana a farsi carico di questo ‘aggiornamento del femminile’. L’intellighenzia creativa della commedia era per lo più composta da un gruppo ristretto di registi e sceneggiatori (uomini), mentre le figure divistiche ricoprivano un ruolo promozionale e di richiamo altrettanto importante e complementare. Da questa dualità deriva il carattere essenziale di un cinema medio che doveva negoziare il successo di cassetta con la qualità. Pur attirando un pubblico ampio, questi film erano particolarmente apprezzati dagli spettatori delle prime visioni, che potevano permettersi i biglietti più costosi degli spettacoli serali delle sale dei centri cittadini. Il cosiddetto ‘pubblico più evoluto’ era quindi ansioso di vedere la modernità sullo schermo, una modernità che coincideva spesso con una giovane figura femminile sessualmente emancipata, aggressiva, vestita all’ultima moda, amante della musica e del ballo. Questo personaggio prese vita in quegli anni grazie alle interpretazioni di due attrici poco più che adolescenti, Catherine Spaak e Stefania Sandrelli. Entrambe debuttarono sul finire degli anni Cinquanta, e seppur non riuscirono a scalzare definitivamente le dive della precedente generazione, come Gina Lollobrigida e Sofia Loren, rivoluzionarono di fatto il modello di femminilità nel cinema italiano. Sia la Spaak che la Sandrelli legarono gran parte delle loro carriere alla commedia, dando vita a personaggi che rimangono ancora oggi iconici, e che nell’immaginario comune rappresentano a pieno titolo i ‘favolosi’ anni Sessanta. Giovani donne, emotivamente fragili ma sessualmente disinibite, i caratteri delle protagoniste di Diciottenni al sole di Camillo Mastrocinque (1962), La voglia matta di Luciano Salce (1962), La bella di Lodi di Mario Missiroli (1963), La parmigiana di Antonio Pietrangeli (1963) e Sedotta e abbandonata di Pietro Germi (1963) avevano molti punti in comune con l’immagine pubblica delle loro interpreti. Poco più che adolescenti, le due attrici furono protagoniste di amori problematici, che non mancarono d’interessare i rotocalchi: nel 1961, a soli 15 anni, la Sandrelli si era legata a Gino Paoli [fig. 1], di dodici anni più grande, mentre la Spaak, nemmeno ventenne, lasciò il marito Fabrizio Capucci poco dopo aver avuto una bambina. Non solo la loro vita privata, ma anche i loro corpi tardo-adolescenziali, definiti efebici dai giornalisti, presero il posto delle curve delle pin up degli anni Cinquanta. Sui loro fisici ben si posavano i modelli delle sartorie all’ultima moda, che le due indossavano con disinvoltura fuori e sul set. Le commedie da loro interpretate alimentavano di fatto, in maniera problematica, la corrispondenza tra modernizzazione e libertà sessuale femminile, ovviamente solo per le giovani. La differenza generazionale rispetto al marito e il consumismo improduttivo continuavano ad essere le marche principali dell’indipendenza femminile dei personaggi della Spaak, quando appena ventenne, iniziò a recitare prevalentemente in ruoli da donna sposata (Adulterio all’italiana, 1966; Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare di Pasquale Festa Campanile, 1967).

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1. Le copertine: vexata quaestio!

«Rimane però il fatto che le donne in copertina “vanno” assai meglio di qualsiasi altro soggetto». Così, sul finire del 1953, il Nostromo, nella rubrica di Cinema nuovo (n. 20) dedicata ai ‘Colloqui con i lettori’, risponde a Giuseppe Sibilla di Melfi. Non ci è dato, ad oggi, sapere con esattezza quali fossero i rilievi specifici e le rimostranze del sig. Sibilla sulla predominanza assoluta (l’unica eccezione realmente significativa è Chaplin nel primo numero) di volti e corpi femminili sulle copertine di Cinema nuovo. Abbiamo però accesso alle ragioni di politica editoriale e strategia di mercato che vengono addotte a giustificazione della scelta: appunto, le donne in copertine funzionano, dominano nella quasi totalità della stampa illustrata, e non sembra – aggiunge il Nostromo – «che accontentare il pubblico in questa materia […] sia poi un grande sacrificio», o che «il carattere della rivista» possa esserne «alterato» [fig. 1].

Il disappunto del sig. Sibilla non è destinato a restare un caso isolato. Nell’aprile del 1954 (n. 34) è la volta di Mario Lo Surdo, da Milano, a cui il Nostromo risponde: «Le foto che pubblichiamo sono scelte eminentemente con un criterio che selezioni il valore della recitazione degli attori e non le loro doti fisiche o quelle del loro abbigliamento». In questo caso non sono le ragioni del mercato a essere invocate, ma più stringenti politiche editoriali e anzi, più ampiamente, culturali, che subordinerebbero (come vedremo, il condizionale è d’obbligo) la scelta delle fotografie alla valorizzazione del talento e della tecnica recitativa.

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Come è noto, gli anni Trenta sono stati decisivi nello sviluppo della pubblicistica cinematografica. La crescente popolarità dell’industria dello spettacolo ha favorito un processo di specializzazione delle testate che hanno scelto la propria formula e il proprio pubblico per imporsi sul mercato. La produzione dei rotocalchi di questo decennio d’oro è già stata mappata, evidenziando come la stampa popolare solo raramente si sia occupata di temi al di fuori della cronaca e del divismo.

Cinema Illustrato, Cine Mio e Stelle sono i rotocalchi divistici caratterizzati dalle firme più prestigiose e da una particolare ricchezza e varietà di contenuti. Qui il divismo dominante si configura «non soltanto come stimolo alle curiosità epidermiche degli spettatori dei drammi hollywoodiani, ma anche come incentivo per il lettore ad avviarsi sulla strada di un maggiore approfondimento del cinema nei suoi molteplici aspetti» (De Berti 2000, p. 34). Conducendo un’analisi delle rubriche, emerge anche una certa insistenza sulla promozione di giovani volti per il cinema: quasi una vocazione delle riviste a farsi trampolino di lancio verso l’universo filmico per aspiranti stelline con o senza formazione. Decodificare e storicizzare questa funzione di scouting delle riviste ci sembra interessante per comprendere come il fenomeno del divismo si sia diffuso in Italia anche in relazione al contesto storico culturale dell’epoca fascista: esibendo il seducente mondo di Hollywood, in evidente contrasto con le imposizioni del regime che provava a definire il modello femminile chiudendolo nelle mura domestiche, le riviste chiedevano alle donne di uscire allo scoperto, di provare ad inseguire modelli diversi ed esotici, di mettersi alla prova secondo categorie lontane da quelle imposte, ovvero la bellezza e la spregiudicatezza.

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