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‘Essere (almeno) due’, e quindi anche sette, dieci o dodici… Sono questi i numeri del collettivo Le Ragazze del Porno, un gruppo di registe italiane unite nell’obiettivo di produrre in Italia dei film porno-erotici al femminile. L’idea nasce prendendo spunto da un articolo del 2011, a firma della giornalista Tiziana Lo Porto, dedicato alla raccolta dei corti pornografici femministi Dirty Diaries, diretti dalla regista svedese Mia Engberg, prodotti in Svezia nel 2009 e finanziati dal governo. A supporto di questo progetto cinematografico anche un manifesto di dieci punti a favore della libertà sessuale delle donne, che Le Ragazze del Porno italiane fanno proprio. «Difendi il diritto di essere eccitata alla tua maniera», senza adattarti ai bisogni degli uomini, è il punto due, mentre il punto sette incita a combattere «il vero nemico!», ovvero la censura, perché, fino a quando le immagini sessuali resteranno dei tabù, anche la rappresentazione delle donne non cambierà.

È proprio intorno alla riflessione sulla rappresentazione delle donne che il progetto Le Ragazze del Porno diventa realtà, grazie all’interesse e alla curiosità che l’articolo di Tiziana Lo Porto suscita nella regista Monica Stambrini, che ricorda:

Così Monica Stambrini e Tiziana Lo Porto iniziano a contattare altre autrici e registe per coinvolgerle nel progetto. Sono loro quindi le ‘almeno due’ che, in coppia e ispirate da una terza donna, la regista svedese Mia Engberg, hanno avuto il coraggio di unirsi e dare vita al collettivo Le Ragazze del Porno, che oggi è diventato un vero e proprio movimento. Mara Chiaretti, Anna Negri, Regina Orioli, Titta Cosetta Raccagni, Lidia Ravviso, Emanuela Rossi, Slavina, Roberta Torre, Erika Z. Galli e Martina Ruggeri sono le registe che vi hanno aderito, tutte tra i 25 e i 75 anni con esperienza nel cinema indipendente e mainstream, nel teatro, nella televisione e nella video arte [fig. 1].

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La seconda stagione del cinema sperimentale esplode in Italia a metà degli anni Sessanta, negli stessi anni in cui happening, ambienti e opere mediali si apprestavano a costruire il vocabolario di un’arte in cerca di smaterializzazione. Che il dissolvimento dell’oggetto artistico coincida con gli anni della contestazione, in quel ‘lungo Sessantotto’ che tentò di abbattere ogni barriera tra arte, politica e vita, trova nelle parole di uno dei protagonisti di quella stagione, Alberto Grifi, una delle spiegazioni più calzanti: «forse è anche per questo che il Sessantotto non ha prodotto arte: perché l’arte vera era essere movimento» (Murri e Vatteroni 1999).

‘Essere movimento’, quindi, dove il fluire dell’immagine diventa anche il fluire dei corpi e degli eventi, ma anche ‘tessere movimento’, dove le singole storie si intrecciano per permettere alla Storia di compiere un salto. Ecco che si moltiplicano gli spazi di condivisione e collaborazione: collettivi di artisti, di cineasti, di studenti, poco più tardi, di femministe. Come ricorda Anna Bravo (2008), saranno proprio gli spazi di una nuova e dirompente soggettività femminile a costituire l’eredità tra le più significative consegnate da quella stagione di lotta, quel tentativo di spostare la politica nel tempo e nel luogo della quotidianità agito in prima persona. Il cinema, strumento prezioso, specialmente nella forma leggera, duttile, economica del piccolo formato, di documentazione e di denuncia, è scelto anche come medium per dare corpo a quel ‘partire da sé’ che traduceva, nel linguaggio di allora, il passaggio dall’individuo alla collettività. In quel «rovesciamento dal maschile al femminile» (Passerini 1988), il cinema in prima persona esplode come la più felice tra le sperimentazioni di quegli anni, certamente quella che più caratterizza la produzione delle donne in cerca di sé. Le loro opere, poche in una prolifica produzione maschile, segnano la mappa di una nuova identità collettiva in divenire.

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Produttivamente disorientante è talora l’incontro con un’affermazione che si rivela nell’incisività cristallina della constatazione. Così accade ogniqualvolta una compagna di cammino ci ricorda come per le donne essere almeno due sia stata – e sia – una condizione fondativa. Come immagine vivida emergono costellazioni di vissuti ora scaturiti da spazi costretti ora da spazi occupati; e affluiscono quelle congiunture in cui le donne hanno saputo trasformare cornici costrittive in strategia, rimodellarle e indossarle come un abito che si panneggia sul corpo per farlo proprio. Con il femminismo, l’‘essere in molte’ è forza d’impatto, testa d’ariete per minare la fortezza patriarcale; ma soprattutto ha significato essere ‘con’ molte, ‘fra’ molte, ‘insieme a’ molte; ha risposto all’esigenza di un ritrovarsi: ritrovare se stessa nella relazione con altre, differenti, soggettività femminili, per andare oltre una se stessa costretta in moduli socialmente e culturalmente determinati. Patto politico, dunque, e insieme esigenza di una relazione trasformativa dello stare nel mondo che impone di ripensarlo. La rivendicazione della differenza sessuale ha nutrito in questa direttrice un dispositivo aggregante e reclamato un altro ordine simbolico.

Negli ultimi anni alcune produzioni di cineaste sono tornate a volgere lo sguardo verso questo orizzonte aggregante, su una linea che intercetta tanto l’essere due quanto l’essere molte e che dialoga con alcuni momenti di una riflessione che le ha precedute, o accompagnate. Non si tratta evidentemente di cercare o forzare corrispondenze, quanto piuttosto di interrogarsi sul rifluire, in una dinamica carsica, di istanze in una fase di ‘urgenza’ che trova nella violenza sulle donne e sui soggetti non a caso definiti come femminilizzati solo uno dei tratti più esposti.

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Giulio Sodano, con l’intervento Le donne nell’età moderna, pone l’apertura dei lavori nel solco della ricerca delle coordinate storiche della problematica di genere, evidenziando, peraltro, come l’età moderna, in special modo prima del Concilio di Trento, abbia assistito a un forte protagonismo femminile indagato, nella relazione del docente, con una particolare attenzione rivolta alla vita religiosa delle donne. Un protagonismo che sembra dipanarsi secondo un duplice movimento, orizzontale, dall’ortodossia all’eterodossia, e verticale, dal più basso al più alto status sociale: dalla nobile Maria Lorenza Longo, fondatrice dell’Ospedale degli Incurabili, alle popolane che si occupano della cura e della pulizia degli spazi sacri; dalle adepte del circolo di Valdès (fra le altre, Isabella Colonna, Maria e Giovanna d’Aragona, Dorotea Gonzaga, Isabella Manriquez) alle dirimpettaie salernitane che discutono di questioni dottrinali eretiche.

Spostando in avanti le lancette del tempo, ma restando ancora nel solco di coordinate storiche, Carolina Castellano prende in esame Le donne nell’età contemporanea, concentrando le proprie riflessioni su quello che Hobsbawm ha definito «il secolo lungo». Emerge, dalla riflessione della studiosa, un costante intreccio tra i movimenti democratici e progressisti, eppure incapaci di declinarsi al femminile, e le rivendicazioni delle donne che, proprio all’interno di quei movimenti maschili, nascono. È il caso della giacobina Olimpe de Gouges che, provocatoriamente e specularmente rispetto alla Dichiarazione dell’agosto del 1789, scrive, nel 1791, la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina. E ancora è il caso del movimento suffragista ed emancipazionista che nasce nel solco del movimento abolizionista. A indagare le ragioni di un radicamento così tenace, nelle istituzioni liberali, del principio di esclusione delle donne, Carolina Castellano esamina il primato della famiglia – ribadito nel Codice Napoleonico con il principio dell’autorizzazione maritale – intesa come spazio di intersezione tra dimensione pubblica, maschile, e dimensione privata, femminile; la famiglia, cioè, come istituzione composta da non eguali.

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