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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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Sebbene La Montagne infidèle (1923) nasca come reportage, ci si rende subito conto che più che soddisfare il bisogno d’informazione e di istruzione previsto da questo genere di film, il lavoro di Epstein presenta una portata di valore teorico e non è un caso se di lì a qualche anno il cineasta pubblicherà il fondamentale Il cinematografo visto dall’Etna (1926). Si è qui scelto, in particolare, di strutturare in sette voci la riflessione sul paesaggio che attraversa il film e che si rivela coerente con la visione epsteiniana del rapporto tra il cinema e il mondo naturale poi espressa e sviluppata dal teorico francese negli scritti degli anni successivi. La voce ‘Paesaggio-teoria’ apre la nostra analisi ricordando come per Epstein il concetto di paesaggio conservi una matrice romantica filtrata però dal modernismo degli anni Venti e soprattutto sia connesso alla ricerca fotogenica nelle sue diverse articolazioni. Le altre voci entrano quindi nel dettaglio della fotogenia del paesaggio abbinandolo a termini tematici e formali salienti nel film e nella teoria del cinema di Epstein: ‘Paesaggio-primo piano’, ‘Paesaggio-personaggio’, ‘Personaggio-metamorfosi’, ‘Paesaggio-corpo’, ‘Paesaggio-suono’, ‘Paesaggio-storia’.

Although La Montagne infidèle (1923) was created as a reportage, one soon realises that more than satisfying the need for information and education expected of this kind of film, Epstein’s work has a theoretical value and it is no coincidence that a few years later the filmmaker would publish the seminal The Cinema Seen from Etna (1926). We have chosen here, in particular, to structure in seven headings the reflection on the landscape that runs through the film and which proves to be coherent with the Epsteinian vision of the relationship between cinema and the natural world later expressed and developed by the French theorist in his writings of the following years. The heading ‘Landscape-Theory’ opens our analysis by recalling how for Epstein the concept of landscape has its roots in Romanticism filtered however by the modernism of the 1920s and above all is connected to photogenic research in its various articulations. The other entries then go into detail about the photogénie of the landscape by matching it with thematic and formal issues in Epstein's film and film theory: ‘Landscape-close-up’, ‘Landscape-character’, ‘Landscape-metamorphosis’, ‘Landscape-body’, ‘Landscape-sound’, ‘Landscape-history’.

 

*Il testo è stato concepito congiuntamente dalle due autrici in tutte le sue parti. A fini pratici, Laura Vichi ha redatto le voci numero: 1. Paesaggio-teoria, 2. Paesaggio-primo piano, 6. Paesaggio-suono e 7. Paesaggio-storia. Chiara Tognolotti ha curato le voci numero: 3. Paesaggio-personaggio, 4. Paesaggio-metamorfosi e 5. Paesaggio-corpo. Un caloroso ringraziamento va alla Filmoteca de Catalunya per i fotogrammi de La Montagne infidèle (variante Pathé-KOK).

 

Per me, il luogo per pensare la più amata macchina vivente

fu quella zona di morte quasi assoluta che circondava,

a uno o due chilometri di distanza, i primi crateri.

Jean Epstein

Paesaggio-teoria [fig. 1]

Sin dai suoi primissimi film e scritti, Jean Epstein dedica un’attenzione particolare al paesaggio e al suo trattamento. Il cineasta, mutuando da Blaise Cendrars il concetto di ‘danza del paesaggio’ (Epstein [1921] 2019a, p. 236, traduzione nostra), individua in quest’ultima una soluzione eminentemente cinematografica legata a una visione modernista: il paesaggio, rilavorato dal cinema e reso fotogenico soprattutto grazie al movimento che le riprese e il montaggio gli conferiscono, provoca sensazioni fisiche e associazioni mentali che lo rendono interessante e coinvolgono lo spettatore (Branca, Busni, Vichi 2024). Nello stesso tempo, Epstein recupera la concezione romantica del paesaggio come «stato d’animo» (Epstein [1921] 2000, p. 92) e come proiezione dell’interiorità, integrandola alla visione determinata dal dispositivo cinematografico. In tal modo, l’esperienza romantica del sublime scaturita dall’esperienza dell’eruzione vulcanica diviene, grazie al cinema, un «sublime tecnologico» (Wild 2012, p. 121, traduzione nostra) che può essere visto, nell’unione delle sue componenti oggettiva e soggettiva, come una declinazione della fotogenia. A La Montagne infidèle (1923), che risponde alla richiesta di Pathé di mostrare l’Etna attraverso il cinema, Epstein sovrappone dunque la propria visione e aggiunge una dimensione teorica invertendo i termini della sua missione e firmando l’atto di nascita de Il cinematografo visto dall’Etna.

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  • 'Paesaggi di vita'. Mito e racconto nel cinema documentario italiano (1948-1968) →
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Nel film Banditi a Orgosolo (1961), ambientato nel cuore della Sardegna, nel Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta costruisce un racconto in cui i personaggi entrano costantemente in rapporto con l’ambiente circostante creando una interazione intensa che permette l’evolversi della storia narrata. Il paesaggio è inizialmente interlocutore e benevolo compagno di viaggio dei due protagonisti, ma nella seconda parte del film diventa antagonista quando le forze dell’ambiente, secondo un concetto di Deleuze, agiscono su di loro imponendo una reazione che non sarà vincente: la natura del luogo, intesa in senso mitico, ha il sopravvento sul tentativo di sfuggire alla legge dello Stato e a quella non scritta di quel preciso mondo in cui vivono.

In the film Banditi a Orgosolo (1961), set in the heart of Sardinia, in the Supramonte in Barbagia, Vittorio De Seta constructs a tale in which the characters constantly enter into a relationship with their surroundings, creating an intense interaction that allows the narrated story to evolve. The landscape is initially the interlocutor and benevolent travelling companion of the two protagonists, but in the second part of the film it becomes antagonistic at the moment when the forces of the environment, according to a concept by Gilles Deleuze, act on them, imposing a reaction that will not be successful: the nature of the place, understood in a mythical sense, has the upper hand over the attempt to escape the law of the State and the unwritten law of that precise world in which they live.

Sulla vetta di Punta Sulitta i corpi di Michele e di Peppeddu, i protagonisti di Banditi a Orgosolo (1961), si stagliano sul cielo terso e grigio, spruzzato di qualche nuvoletta. Il Supramonte barbaricino è tutto intorno e sullo sfondo il massiccio calcareo del Corrasi, bianco, quasi un deserto, fa pendant con il cielo [fig. 1]. In questo paesaggio immenso è proprio lo spazio aperto, quasi un ossimoro visivo, a segnare confini insuperabili che isolano i due fratelli in una intimità austera. Il tono cinereo, con una dominante grigia dovuta in primis alla pellicola in bianco e nero che non valorizza il consueto splendore del cielo sopra la Sardegna, segna l’atmosfera che regna fra i due fratelli: pacata e allo stesso tempo amara. È uno dei rari momenti di intimità in cui il carattere burbero e schivo di Michele non condiziona il rapporto con il ragazzino. I due parlano fra loro di rapporti familiari, del padre che è morto cadendo in un precipizio molti anni prima mentre seguiva le capre, dell’inscindibile legame che unisce il lavoro con la vita quotidiana tanto da identificare l’uno nell’altra. D’altronde la vita del pastore identificata con il proprio lavoro è un filo rosso che attraversa tutto il film, il mestiere è la natura della propria vita, di padre in figlio senza possibilità di interruzione.

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  • Seeing Calvino/Vedere 'Le città invisibili' →

 

1. L’opera di Calvino è sempre stata caratterizzata dallo sguardo sugli ambienti e sui paesaggi, osservati non solo dal punto di vista dei personaggi umani ma anche attraverso gli occhi delle altre creature. Queste sono spesso al centro della narrazione: possono rappresentarne il motivo centrale (come nella Formica argentina); oppure assumere la funzione di punctum nella storia (come il camoscio che osserva gli uomini e la natura nel finale di Mai nessuno degli uomini lo seppe, 1950), se non proprio di protagonisti o deuteragonisti (dall’ibrido proteiforme Qwfwq delle Cosmicomiche ai vari personaggi del ‘bestiario’ di Palomar, come il geco o il gorilla albino). È proprio in Palomar che viene illustrata la ragione fondamentale dell’interesse calviniano nei confronti del mondo animale: «per il signor Palomar […] la discrepanza tra il comportamento umano e il resto dell’universo è sempre stata fonte d’angoscia. Il fischio uguale dell’uomo e del merlo ecco gli appare come un ponte gettato sull’abisso» (Calvino 1994, p. 895). Non è un caso perciò che Calvino sia, con molta probabilità, lo scrittore italiano più studiato e interpretato alla luce dell’ecologia letteraria; il rapporto tra l’umano e la storia in relazione all’ambiente e alla natura è infatti un elemento strutturale costante e centrale nell’invenzione e nella riflessione calviniane (mi limito a citare, per l’attinenza con il tema di Teodora, Iovino 2023; per un inquadramento generale, mi permetto di rimandare a Scaffai 2017 e 2023).

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Abbiamo incontrato Maria Nadotti – non solo traduttrice di riferimento in Italia per le opere di John Berger, ma anche sua amica e collaboratrice nell’ambito di vari progetti – nel marzo 2019, in un caffè milanese popolato da molti cani vivaci. Quello che viene pubblicato è il frutto di una conversazione che, grazie alla generosità dell’intervistata, possiamo dire essere avvenuta all’insegna di due parole molto care allo stesso Berger: l’ospitalità e il fare insieme.

 

 

Beatrice Seligardi: Come sei entrata in contatto con l’opera di John Berger e con la sua figura di intellettuale? Come sei diventata la sua traduttrice in Italia?

Maria Nadotti: Tutto è cominciato con la lettura, che risale al 1986, di un libro di John che continua ad essere la sua opera a me più cara: I nostri volti, amore mio, leggeri come foto. Lo trovai per caso in una libreria di New York, dove all’epoca vivevo. Mi colpì subito il titolo, così come la sua copertina spoglia, senza immagini, solo il titolo – And Our Faces, My Heart, Brief as Photos – scritto a mano.

Lo lessi, innamorandomi di quella scrittura, di quel pensiero, e cominciai a tradurne per conto mio alcune pagine – all’epoca non lavoravo come traduttrice –. Da quel momento cominciai a leggere tutto quello che mi capitava di suo. Tra il 1993 e il 1994, durante un mio periodo di collaborazione con la rivista Linea d’ombra, proposi di fare un’intervista a John Berger, che non avevo mai conosciuto e di cui non sapevo nulla, se non quello che avevo letto nei suoi libri. Gli scrissi una lettera, a mano, esprimendogli il mio desiderio di intervistarlo. Lui mi rispose con una lettera – sempre scritta a mano – pochi giorni dopo, dicendomi che non amava le interviste, ma proponendomi qualcosa di più interessante. All’epoca stava lavorando a quello che sarebbe diventato To the Wedding (Festa di nozze), la cui ultima e terza parte si svolge nelle valli di Comacchio. Aveva bisogno di qualcuno che lo guidasse in quello che lui definiva un paesaggio «più misterioso delle Piramidi d’Egitto», per capirne meglio l’economia che ruota intorno al mistero dell’anguilla, il pesce serpente. 

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John Berger (Londra, 5 novembre 1926 – Parigi, 2 gennaio 2017) è stato uno degli artisti e intellettuali di lingua inglese più importanti del secondo Novecento e dei primi anni del nuovo millennio. In qualsiasi campo si sia cimentato (dalla letteratura al disegno, passando per la saggistica, il cinema o il teatro), la sua produzione è stata, in sintesi, una Questione di sguardi, per citare il titolo del suo libro forse più noto, Ways of Seeing (1972), tratto dall’omonima serie di programmi televisivi per la BBC.

Guardare un’opera d’arte significa, per Berger, mettere a parte dei suoi segreti i lettori, o gli spettatori, invitandoli ad un percorso di conoscenza, inizialmente dischiuso dall’opera, che è da compiersi insieme. La dimensione collaborativa – tipica della sua stessa produzione, come testimoniano, fra gli altri, il progetto A Seventh Man (1975) insieme al fotografo Jean Mohr, oppure Smoke (2016), insieme all’illustratore turco Selçuk Demirel, o ancora l’interesse per un’arte che è paradigma della collaborazione come il cinema (si ricordino, tra gli altri, le sceneggiature di tre film di Alain Tanner: La Salamandre, 1971, Middle of the World, 1974, Jonah Who Will Be 25 in the Year 2000, 1976) – libera la scrittura d’arte di John Berger dalle pastoie di certa critica d’arte canonica e accademica, come lui stesso sottolinea nell’introduzione alla recente antologia di saggi Portraits (2015), curata da Tom Overton: «Non ho mai sopportato di essere definito un critico d’arte. […] Sarà chi legge i miei testi a valutare ciò che un’impostazione e una pratica di questo tipo producono. Io sono sempre pieno di dubbi. Di una cosa, però, sono sicuro, ed è la gratitudine che provo nei confronti degli artisti per la loro ospitalità».

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1. Non mi bastavano le fotografie

…Sono stato per la prima volta a Casal di Principe nel giugno dell’anno 2005, quale inviato del settimanale “D” di Repubblica.

Un grande cancello rosso in ferro e un muro altissimo, almeno 3 metri, circondava la dimora di Walter Schiavone; il lungo viale fatto di sanpietrini e in fondo, la villa semidistrutta, bruciata, vandalizzata e completamente spogliata di ogni pezzo di valore: ringhiere, infissi, lampadari, marmi. Restavano i segni del lusso e del potere: le colonne, il timpano, e la vasca, come nelle case patrizie dell’Antica Pompei; ma quella era la villa di Scarface.

Delle ore trascorse nella villa a fotografare ricordo che mi sentivo come quando da bambino volevo fare l’archeologo, una sorta di avventura alla scoperta di tutti i possibili segni lasciati dalla famiglia che abitava quei luoghi nel passato.

Entrai dappertutto e spesso la meraviglia di quella singolare scenografia mi faceva sgranare gli occhi: immediatamente aprivo il cavalletto.

Dovevo dare il tempo alla luce di scalfire e penetrare nel nero della fuliggine per leggere i dettagli più nascosti; chiudere il diaframma al massimo per ottenere una messa fuoco nitida dell’immagine in tutta la sua profondità. La poca luce che entrava dalle finestre ostruite dalle piante infestanti, mi costringeva a esposizioni di decine di minuti, e tutto quel tempo lo utilizzavo per memorizzare il luogo; non mi bastavano le fotografie.

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