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1. L’insalata di Pantagruel

In una delle immagini che accompagnano il primo libro di ricette pubblicato da Sophia Loren, In cucina con amore (1971, riedito poi nel 2014 sempre da Rizzoli), Tazio Secchiaroli ritrae la diva in una posa bizzarra: il volto incorniciato da due enormi posate da insalata di legno con il manico scolpito con figure di animali, come fossero una sorta di padiglioni auricolari grandi quanto il volto della donna [fig. 1]. Tornerò su quest’immagine in chiusura; per il momento ricordo solo la didascalia che la accompagna, «Sophia sta pensando a un’insalata degna di Pantagruel?», a richiamare, accanto all’ovvio rimando al cibo, i motivi della sovrabbondanza e dell’eccedere, in una dimensione domestica della cucina che si tinge al contempo di toni meno rassicuranti. Emerge da subito un movimento tensivo che allontana il testo dalle immagini, a segnalare una distanza tra lo spazio letterario, dove la diva parla in prima persona, e il territorio del visivo, dove è osservata da uno sguardo altro; ed è questo disequilibrio che vorrei esplorare qui.

 

2. «Con le mani sporche di farina»

 

 

Le prime parole del racconto di sé di Sophia Loren, Ieri, oggi, domani. La mia vita, edito nel 2014, mescolano con sapienza – come in un impasto ben amalgamato – gli ingredienti di un’immagine divistica composita nel desiderio di dare corpo a una figura familiare e impalpabile insieme, ovvero la stella del cinema, splendente di bellezza, che sa altresì indossare il grembiule e governare padelle fumanti; e certo il ricorrere nella narrazione autobiografica dello spazio della cucina rappresenta l’«unica traccia dell’impronta della soggettività dell’autrice», come rileva Maria Rizzarelli (Rizzarelli 2017). Ma già nel 1971 il gesto del cucinare rappresentava uno dei luoghi centrali nella cartografia divistica di Loren: in quell’anno, difatti, appare In cucina con amore, libro di ricette che vede la diva rimboccarsi le maniche, tirare la pasta e sporcarsi le mani di farina [fig. 2], con le memorie che lievitano in una cucina reale e immaginaria insieme, a dar forma a un’immagine divistica giocata sui canoni di italianità più appetitosi, la bellezza e il buon cibo.

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È con «Un saluto ai lettori» che il 26 novembre del 1976 Giulietta Masina prende commiato dalle colonne de La Stampa. Per otto anni, dal 1968, le pagine del quotidiano hanno accolto le parole attraverso le quali l’attrice si è rivolta agli italiani – ma soprattutto alle italiane – per dar loro conforto nei momenti difficili, offrire consigli, e approfittare dei racconti personali dei lettori per aprire una riflessione verso i problemi sociali dell’epoca. Sono questi gli anni che vedono Masina indossare le vesti di Gabrielle de La pazza di Chaillot (Bruce Forbes 1969), quelle di Eleonora (Silverio Blasi 1973) e di Camilla (Sandro Bolchi 1976); nello stesso arco di tempo compare con regolarità su rotocalchi e quotidiani, sia in qualità di compagna di Federico Fellini, sia come attrice capace di coniugare l’impegno alla popolarità.

L’immagine di Giulietta Masina appare legata al marito attraverso un doppio filo. Da un lato ci sono i personaggi che il regista le cuce addosso e che, come lui stesso ben descriverà a distanza di anni nel mémoire Fare un film, sono scelti per mettere in luce le sue grandi doti attoriali; essi prendono forma all’interno di una dimensione di meraviglia e di sogno, contraddistinti da una gioia frenetica e infantile ma al contempo capaci di conservare la tristezza di un clown. Dall’altra c’è invece l’immagine di una moglie che, nonostante i ripetuti tradimenti del marito, decide comunque di restare al suo fianco. Stando alla stampa popolare, infatti, Fellini crea attorno a sé un vero e proprio harem: oltre ai numerosi flirt che gli vengono attributi, da più di dieci anni accanto al regista (sembra dal 1957) per alberghi e ristoranti c’è Anna Giovannini, la procace farmacista da lui stesso ribattezzata «La Paciocca» che negli anni Novanta rivendicherà una storia d’amore trentennale; ma anche Sandra Milo, che, presentatagli nel ‘62 da Ennio Flaiano, sarà sua amante per ben diciassette anni. Nonostante ciò, il loro matrimonio durerà per cinquant’anni, fino alla morte del regista.

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Mi piace affacciarmi a questa finestra un poco prima dell’alba: fra le quattro e le cinque del mattino, New York è deserta. È l’unica ora in cui sembra che la città si conceda un breve riposo, le strade sono silenziose, le luci dei grattacieli spente, una leggera foschia comincia a formarsi sui laghetti del parco: è uno degli spettacoli più belli del mondo. E quando da quelle colline là di fronte spuntano le prime luci, si vede soltanto la cima delle torri appoggiate sulla nebbia, è un paesaggio magico, sospeso nell’aria, tinto di azzurro e di viola […].

Anna Magnani, New York, 1955

 

Nascosta tra la piccola finestra di un maestoso grattacielo affacciato su Central Park, un’insonne Anna Magnani contempla l’alba nascente, di colore viola, sulla città di New York. Questa è forse la più bella immagine della cronaca del suo primo viaggio negli Stati Uniti, non soltanto per la plasticità del bel controcampo che ci offre, ma per quella del piacere e del desiderio di un’attrice che per una volta sparisce come corpo per diventare sguardo.

La mia avventura americana, pubblicata da Tempo nel 1953, è l’unico pezzo autobiografico rimasto di Anna Magnani, che non lasciò memorie scritte né autorizzate. Si tratta di un’insolita ‘finestra’ sull’intimità, che tanti suoi contemporanei invano cercarono di penetrare, di un raro paesaggio interiore di un’attrice che è stata celebre sia per la sua generosità sulle scene, sia per l’estrema determinazione con la quale ha chiuso allo sguardo pubblico, come fece davanti alla camera di Fellini in Roma (1972), i limiti della sua privatezza.

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Non sappiamo se Andrea Zanzotto e Laura Betti abbiano mai avuto occasione di conversare «a lungo» intorno a Teta Veleta ma è indubbio che in queste poche righe si concentri il nucleo di senso di un romanzo che a distanza di quarant’anni resta una sorta di rompicapo tanto per gli studiosi di letteratura quanto per gli storici del cinema e del teatro, perché tutte le etichette franano di fronte a una materia incendiaria, ‘de-scritta’ in una lingua prodigiosamente azzardata. Il tono con cui Zanzotto apostrofa Betti è il primo indizio della profonda consonanza fra i due, della reciprocità di un rapporto coltivato all’ombra di Pasolini ma proseguito poi oltre il fatidico muro del 2 novembre 1975 attraverso formule di stima e tenerezza reciproca, che i frammenti epistolari consentono di mettere in chiaro. L’appellativo «realfantomatica» fonde con arguzia il tratto naturalistico, terragno, della «pupattola bionda» (Pasolini 1971) con la strenua propensione al mascheramento di sé, al gioco indiavolato di pose e stili, forse la dote più interessante del suo profilo di attrice, stretto fra immedesimazione e disincanto. L’essere ‘realfantomatica’ di Betti rimanda infatti a quel paradosso («Non ho mai capito la reale differenza tra recitare ed esistere», Betti 2002) con cui ha attraversato l’industria culturale del nostro Paese, mostrando una spiccata vocazione internazionale e giungendo a scandire il proprio idioletto fino alle estreme conseguenze: «fare l’attrice significa cambiar pelle, ma anche dimenticare, rimuovere ciò che si è e non piace essere» (Del Bo Boffino 1979). Al netto delle contraddizioni e degli infingimenti, Betti approda alla ‘scrittura romanzesca’ per sperimentare un esercizio di «autoanalisi» (Betti 2006, p. 38), che celebra un ingombrante cortocircuito fra autrice e personaggio.

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Nel 1995 Claudia Cardinale dà alle stampe un’autobiografia (Io Claudia, tu Claudia), firmata con la giornalista Anna Maria Mori, frutto di un anno di incontri, che solleva un velo su alcuni misteri legati alla sua vita privata e alla sua immagine pubblica. In questo ‘romanzo di una vita’ la diva di origini tunisine si mette a nudo, mentre la coautrice garantisce la sincerità delle confessioni raccolte e trascritte. In assenza del principale imputato, Franco Cristaldi, morto nel 1992, i racconti di Cardinale restano l’unica fonte possibile per ricostruire in profondità lo scandalo che la travolse nel 1967 ma soprattutto per conoscere più approfonditamente i modi di produzione dello star system italiano nell’epoca d’oro del nostro cinema. Dieci anni dopo la prima autobiografia, in Francia esce un nuovo libro, ancora redatto a quattro mani (con Danièle Georget) ma firmato da sola, Mes étoiles, in cui la biografia viene ripercorsa da capo, ma la finalità appare sostanzialmente diversa: far pace con il mestiere di attrice, da lei non progettato ma scelto, giovanissima, per fuggire le conseguenze di una violenza sessuale raccontata solo quarant’anni dopo, nel libro precedente. Ne Le stelle della mia vita (titolo dell’edizione italiana, uscita un anno dopo Mes étoils) il cinema appare un luogo di rivelazioni, il mezzo che ha offerto alla star la possibilità di incontrare alcune grandi personalità cui intende rendere omaggio, ma anche interpretare tanti tipi di donna. Cambia il tono, il racconto assume una pacatezza assente nel primo libro e Cardinale pare rappacificarsi con la sua vita professionale. Bilancio esistenziale articolato in due tempi, attraverso centinaia di pagine a stampa, questa particolare tipologia di scrittura del sé rappresenta il luogo ideale dove l’attrice può riflettere sulla propria vita e sul proprio lavoro, ma anche il mezzo con cui ha potuto ridefinire in pubblico la propria identità di donna e di artista.

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Là la donna adulta ritrova se stessa bambina e scopre di essere ancora la medesima persona. Tale è il significato del titolo proustiano […]. Lo ricavai da un passo del Tempo ritrovato.

«Ci appartiene veramente soltanto ciò che noi stessi portiamo alla luce estraendolo dall’oscurità che abbiamo dentro di noi… Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aura poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato». Così mi appropriai della frase; anzi, della sua parte migliore.

Lalla Romano

 

Avevo molte storie da raccontare, molti aneddoti. Ma della storia che abitava dentro di me, la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne?

Marie Cardinal

 

1. Autobiografia come formazione e cura di sé

 

 

Nel 1993 Catherine Spaak pubblica Da me, autobiografia basata sull’idea di raccontare senza un ordine preciso frammenti di vita, ricordi, pensieri, con lo scopo di selezionare tutto quello che l’attrice desidera tenere con sé (il ‘da me’ del titolo) e quello che, al contrario, vuole allontanare. Nel testo si susseguono quindi, apparentemente senza coerenza (Spaak 1993, p. 7), avvenimenti e fantasie, persone reali e personaggi inventati, considerazioni sulla letteratura, sull’arte e sul cinema.

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Così Franca Valeri racconta nella sua autobiografia per frammenti, Bugiarda no, reticente, l’inizio della sua carriera. Come nei più classici romanzi di formazione, la sua prende avvio con un fallimento. È vicenda nota, infatti, che Valeri non verrà ammessa all’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, come avrebbe voluto, restando tuttavia nella capitale sotto la protezione benevola di tre donne – «le tre complici hanno protetto la mia menzogna. “Tutto bene, promossa”» (Valeri 2010, p. 70) – che le permetterà di sperimentare la libertà, l’indipendenza e ancor più l’intraprendenza. Otterrà presto i primi successi teatrali assieme ad Alberto Bonucci e Vittorio Caprioli con cui dà vita, nel 1951, al Teatro dei Gobbi, compagnia che rivoluziona la satira di costume in chiave minimalista. Il gruppo trova immediata fortuna tra le macerie della guerra e una società agli esordi del boom economico, che i tre comici tratteggiano in un susseguirsi di sketch caricaturali fondati su un raffinato equilibrio tra scrittura e gesto scenico. D’altra parte Valeri aveva già affinato le sue doti di osservatrice e cantora della nuova borghesia del dopoguerra nei suoi anni di attività in radio, dove nel 1949 aveva dato vita al personaggio, ben presto mitico, della Signorina Snob [fig. 1]. Personaggia, in realtà, e quanto mai autobiografica, che Valeri ci ricorda essere scaturita dalle attente e divertite esplorazioni adolescenziali, «quando con la mia amatissima amica Billa abbiamo cominciato a trovarci in testa e in bocca il linguaggio delle signore “bene” di Milano» (Valeri 2010, p. 26). «Tipo umano ben definito», la Signorina Snob entra in scena «vestita di parole scritte», con un eloquio «per metà inventato e per metà letterario» (Valeri 2010, pp. 26-27), prima e più evidente testimonianza di una predilezione dell’attrice per la scrittura, vista come pratica inscindibile da quella attoriale. Così ricorda ancora l’attrice-autrice:

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1. La memoria e le memorie di chi recita

Gli attori e le attrici scrivono sull’acqua: del loro agire sul palcoscenico, del suono della voce e dei movimenti dei corpi non restano che esili tracce. Così è stato per secoli e la scrittura, in particolare la scrittura memorialistica, ha rappresentato lo strumento principale per lasciare un segno indelebile, per consegnare «un’immagine compatta, coerente, salda: trasmissibile» (Orecchia 2007, p. 12). Pensiamo per esempio alle memorie dei grandi attori come Adelaide Ristori, Ernesto Rossi o Tommaso Salvini, il cui scopo non è tanto di svelare qualcosa che non sia noto al pubblico, né di articolare una narrazione intima e personale, quanto di definire appunto un’immagine salda, autorevole di sé. La scrittura, e questo è vero allora come oggi, si associa anche a una tensione verso la legittimazione culturale. Se l’identità di chi scrive un’autobiografia è nota – condizione imprescindibile agli occhi del lettore per riconoscere il testo autobiografico, perché altrimenti «manca quel segno di realtà che è la produzione anteriore di altri testi» (Lejeune 1986, p. 23) – nel caso degli attori e delle attrici gli altri testi sono le performance (nella maggioranza dei casi), ovvero testi ‘assenti’, ormai irrimediabilmente perduti. E dunque nel caso di chi recita il desiderio di legittimazione diventa più forte – una sorta di urgenza – perché la sua è un’autorialità debole, legittimata non dalla scrittura sulla pagina, bensì soltanto da quella scenica.

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L’autobiografia, fonte frugifera nell’analisi di una personalità, si rivela particolarmente interessante nello studio delle attrici: essa è veicolo di voci preziose in quel processo non semplice che è la traduzione in parola analitica di quanto espresso da un volto, da un’azione mimetica e, in generale, da una performance. La prassi dell’autobiografia d’attrice è relativamente trascurata nel contesto da noi scelto – l’Italia della dittatura fascista –, il cui cinema è popolato perlopiù di nuove leve che solo in decenni successivi scelgono talvolta di tornare a parlare dell’esperienza autarchica. È il caso delle attrici Elsa de’ Giorgi, Doris Duranti e Lilia Silvi, stelle di prima grandezza di quel cinema che a lungo è apparso come un sistema conchiuso, un’esperienza artistica soluta da quanto venuto prima e dopo.

Nell’apprestarci a rileggere queste autobiografie – eterogenee per dichiarazione d’intenti, struttura e successo editoriale – daremo priorità d’indagine a quell’insieme di aspetti che, nelle parole di Philippe Lejeune, stanno alla base dello «studio psicologico [dell’autobiografia]»: memoria, costruzione della personalità, autoanalisi (Lejeune 1975). La lucida scrittura storica e personale di Elsa de’ Giorgi, la disincantata narrazione cronologica di Doris Duranti e la penna improvvisata e spontanea di Lilia Silvi permettono di guardare da vicino – ma forse è solo una persuasiva illusione – quel periodo storico e cinematografico che, ora lontano, assume contorni meno vaghi quando narrato da una voce di donna testimone (privilegiata) del proprio tempo.

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