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1. Le donne mute

Negli anni Dieci del Novecento le attrici italiane di cinematografo erano tra le più conosciute e amate del mondo. Nelle narrazioni delle riviste di settore e delle pubblicità si parlava talvolta di loro come delle ‘donne mute’ [fig. 1].

Mute, le attrici dello schermo lo erano evidentemente come diretta conseguenza della natura tecnica dello spettacolo cinematografico di quegli anni. Un limite che molti osservatori dell’epoca interpretavano anche come deficienza espressiva ma che, al contrario, la pubblicistica cinematografica rivendicò baldanzosamente come particolarità estetica tesa a creare una forma artistica universale: se le primedonne teatrali erano virtuose nella declamazione scenica della parola (di cui erano tuttavia interpreti, non creatrici), le nuove eroine cinematografiche si rivelavano invece padrone di un’espressività che permetteva di entrare in relazione ‘diretta’ con il pubblico senza alcuna mediazione verbale a parte l’eco opaca delle didascalie.

È tuttavia curioso che questa rivendicazione di uno ‘specifico filmico’ di sottrazione disvelasse la sua forza simbolica soprattutto quando si parlava di donne. La formula ‘uomini muti’ per indicare gli interpreti maschi coevi, infatti, non ci risulta abbia avuto particolare fortuna. Di questo la sospettosa sensibilità contemporanea potrebbe suggerire interpretazioni maliziose: la privazione della possibilità di parola si presta infatti ad evocare un modello muliebre in linea con l’ideale patriarcale che voleva (e spesso ancora vorrebbe) relegare la natura femminile al regno del sentimento e dell’istinto, negandole lo spazio del logos e dunque della parola [fig. 2].

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La prima prova narrativa di Laura Morante – dopo la scrittura per il cinema a quattro mani con Daniele Costantini per due film di cui la Morante è anche regista e protagonista (Ciliegine, 2012 e Assolo, 2016) – appare simile al lavoro preliminare di un sarto: è come se sull’ampio pezzo di stoffa delle sue prove cinematografiche l’attrice avesse poggiato un cartamodello traendone un nuovo pezzo, una nuova forma. Soltanto un pezzo, certo, che lascia fuori tutto il resto ma che solo da questo poteva ricavarsi. E forse, per continuare la metafora, quel che appare più interessante dell’opera Brividi immorali. Racconti e interludi (2018) è non la nuova forma bensì proprio l’atto del poggiare la leggera carta sulla stoffa prima del taglio, sia per la scelta dei contenuti che per quella formale della brevità del racconto. Assomigliano tanto i protagonisti degli otto racconti, inframmezzati da sette interludi, ai ruoli interpretati dalla Morante al cinema, ruoli che vanno via via rinsaldandosi, seppur dentro generi cinematografici differenti, fino a costruire un’icona del cinema italiano contemporaneo riconoscibile e definita e per questo, dopo le primissime prove, voluta sempre più dai registi con cui ha lavorato per incarnare un certo tipo di donna – spesso madre e moglie – che non cela fragilità e nevrosi, ma anzi le restituisce come frutto e causa della complessità delle relazioni umane.

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Anne Wiazemsky è rimasta indelebile nell’immaginario cinefilo per essere stata una delle icone più significative della nouvelle vague francese e del cinema d’autore italiano: dopo il debutto in Au hasard Balthazar di Robert Bresson (1966), si lega a Jean-Luc Godard, diventandone la seconda musa e recitando ne La Chinoise (1967). Ma proprio l’affrancarsi progressivo dal cinema ideologico e impegnato del secondo Godard e l’acquisizione di una fisionomia attoriale indipendente da quella del marito la porteranno a cimentarsi in pellicole italiane fondamentali con registi del calibro di Pasolini (Teorema, Porcile), Carmelo Bene (Capricci) e Ferreri, sul cui set de Il seme dell’uomo si svolge la rottura emotiva con il cineasta svizzero. Ma a quella di attrice, Anne Wiazemsky ha affiancato una doppia carriera di scrittrice, che nel corso dei decenni ha preso il sopravvento sulla prima, con riconoscimenti prestigiosi e la pubblicazione delle proprie opere da parte di una casa editrice storica come Gallimard.

Ci concentreremo sulla trilogia romanzesca che Wiazemsky ha dedicato alla propria carriera di attrice, costituita da Jeune Fille (2007) [fig. 1], Une année studieuse (2013) [fig. 2] e Un an après (2015) [fig. 3]. L’autrice, in riferimento alle tre opere, parla esplicitamente di “romanzi”, ponendo quindi un evidente dilemma di categorizzazione: come possiamo definire questi testi che, pur nella rivendicazione autoriale di finzionalità (frutto per Wiazemsky della distanza memoriale immancabilmente deformante), mantengono un indissolubile legame con l’autobiografia e il memoir attoriale? Il dispositivo divagrafico ci viene in aiuto per poter indagare un materiale tanto ibrido quanto compiutamente costruito su stilemi che appartengono alla tradizione non solo letteraria, ma potremmo dire quasi “antropologica”: lo schema della Bildung cinematografica si accompagna alle tappe fondamentali della formazione di Anne nel suo progressivo affrancarsi prima dalla famiglia (attraverso l’ingresso nel cinema e la relazione con Godard) e poi dal marito (e qui il rapporto con il cinema italiano diventa fondamentale punto di svolta tanto narrativo quanto di vita).

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Per provare a trovare un punto fermo tra le molteplici scritture che costellano la lunga vita e carriera attoriale di Isa Miranda (1905-1982) si può partire da una traccia. Si tratta della firma con la quale l’attrice milanese verga innumerevoli cartoline, fotografie, ritratti, libri: un ‘marchio’ destinato a sopravvivere alla sua stessa morte, che si ritrova oggi ancora copioso tra i materiali venduti nei mercati di modernariato e le collezioni di memorabilia dei cinefili, forse nel tentativo – a lungo perseguito dall’attrice – di attestare la propria presenza e di promuovere il proprio ricordo. I caratteri alti e regolari, l’inclinazione ascendente, la precisa sottolineatura del nome mantengono una stabilità sorprendente nel tempo: essi si ritrovano immutati nei primi autografi degli anni Trenta fino a quelli dell’età matura e della vecchiaia resistendo all’età, alle mode, ai cambiamenti storici. Nella permanenza di questa cifra espressiva è senza dubbio contenuto il segreto più profondo della personalità di Ines Isabella Sampietro: l’analisi grafologica svela il carattere combattivo e volitivo, l’ambizione, l’egocentrismo, ma anche la solitudine di una donna divenuta nella tarda età amministratrice e vestale del suo stesso mito. La regolarità della calligrafia lascia trasparire l’indole dell’ex segretaria, poi scrupolosa raccoglitrice di articoli e immagini, ordinati cronologicamente e assemblati in album che contengono le attestazioni gloriose del suo passato.

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Ho più ricordi che se fossi carico

di mille anni. Una gran cassettiera

gremita di bilanci, di poemi,

dolci biglietti, processi, romanze,

con folte chiome avvolte entro quietanze,

cela meno segreti del mio triste cervello.

Charles Baudelaire

 

Chi fa uso della parola “io”, ha a disposizione il miglior mezzo per nascondere se stesso. E chi ne fa uso quando racconta è svincolato dall’obbligo di autentificare l’uso che ne fa, oppure deve ammettere che non può farlo, per cui chiede soccorso.

Stanley Cavell

 

 

«Tutto quello che mi capita è la mia vita». Riparto dalla fine. O meglio, da dove ero rimasta lo scorso anno. Dalle parole di Giuliana, che proclama il dogma tautologico della propria inconoscibilità nel finale de Il deserto rosso (M. Antonioni, 1964). Apro una piccola parentesi: è buffo, ma spesso e volentieri, quando l’esperienza autobiografica diventa oggetto di studio, la scrittura – intesa come prodotto di quello studio – comincia a mutare e ad assumere la forma di chi scrive. Magari è soltanto una questione di pronomi: a furia di imbattersi in ‘io’, la studiosa si sente autorizzata a rivendicare un proprio spazio espressivo. Forse, in questo caso specifico, è la parola ‘divagrafia’ a creare imbarazzo, nel senso che, banalmente, siamo tutte un po’ primedonne sul proscenio della nostra esistenza: ogni cosa deve poter contare per noi, avere un valore all’interno della nostra ricerca, della nostra storia personale, del nostro presente. Oppure, volendo andare più a fondo, è il cinema stesso, nel suo essere interconnesso alla dimensione della memoria, a innescare sconfinamenti di campo. Alla base di ogni racconto di sé soggiace un bisogno di riconoscimento che soltanto una comunità di appartenenza – un ‘noi’, un ‘pubblico’ – è in grado di soddisfare. Pertanto, se è la diva a raccontarsi, allora ci sentiamo chiamate in causa noi in primis, come risucchiate nell’abisso di un vortice polimorfico che ci restituisce riflessi confusi. Chi è che sta scrivendo? A chi appartiene quella voce? O, ancora, in che misura riusciamo a tenere distinte la diva-donna (che di professione fa l’attrice e che decide di parlare di sé, di riplasmare i propri ricordi di essere umano) dalla diva-personaggia (protagonista di un’altra storia, fatta di tante donne diverse, intrappolate nello scrigno dei nostri ricordi di spettatrici cinematografiche)? Tutto questo per dire che forse non sono stata io a scegliere Monica Vitti, ma è stata lei a scegliere me, a richiamare la mia attenzione da una costola della ricerca che sto conducendo – ormai da tempo immemore – sul di lei pigmalione Michelangelo Antonioni. La sua autobiografia si è fatalmente intrecciata alla mia (alle mie conoscenze, alle mie parole, alla mia vita), generando una stratificazione di senso (e di sensi) fittissima, da cui è pressoché impossibile svincolarsi. Chiusa parentesi.

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Tra cinema, teatro e letteratura, il percorso lavorativo di Elsa de’ Giorgi e il suo poliedrico profilo artistico non possono che rinviare, per una ideale ricomposizione unitaria, a coordinate afferenti a linguaggi espressivi molteplici. Diva del cinema dei ‘telefoni bianchi’, de’ Giorgi esordisce nel 1933 in T’amerò sempre di Mario Camerini, dove giovanissima si presta all’interpretazione della protagonista Adriana, una ragazza-madre sedotta e abbandonata. Alla carriera cinematografica – che prosegue anche attraverso una nutrita schiera di film in costume, tra cui La sposa dei re (1938), Il fornaretto di Venezia (1939), Capitan Fracassa (1940), La maschera di Cesare Borgia (1941) di Duilio Coletti – si affianca negli anni Quaranta la strada del teatro, che vede de’ Giorgi impegnata nei ruoli di Desdemona, nell’Otello di Renzo Ricci, o di Annette nella rilettura del Francillon di Dumas figlio diretta da Luigi Carini. Oltre ad alcune prove di regia teatrale, una lunga pausa dalla scena cinematografica, iniziata nel dopoguerra, verrà interrotta soltanto nel 1963 con la partecipazione di de’ Giorgi a due pellicole di Pasolini, La ricotta, episodio del film Ro.Go.Pa.G., e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), le scandalose sequenze dove l’attrice domina lo schermo nelle vesti della superba e cinica signora Maggi [fig. 1]. Al ritiro che connota la parabola cinematografica di Elsa de’ Giorgi non corrisponde tuttavia un silenzio dell’artista, che a partire dagli anni Cinquanta, lungo un arco cronologico che si snoda per più di vent’anni, si esprime attraverso saggi, poesie, romanzi pubblicati in volume.

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1. La fragilità dei ricordi

Molte vite cadono nell’oblio e le impronte lasciate su questo pianeta non sono indelebili. Se poi tali impronte sono state lasciate sullo schermo argentato di un vecchio cinema o sulla fragile carta di un quotidiano di cento anni fa, è ancora più raro che ne siano rimaste tracce evidenti. Alcune di quelle vite dimenticate hanno avuto un tempo di gloria, in cui la celebrità deve essere parsa immensa e senza fine. Sono state acclamate e amate, e hanno riempito i loro bauli di ricordi. Proprio da uno di quei bauli estraggo una foto e un ritaglio di giornale. Sono supporti fragili, che rischiano di sbriciolarsi fra le dita, ma testimoniano l’esistenza di una vita che è stata vissuta. Nella foto c’è una donna giovane e sorridente; posa in un abito elegante, la testa leggermente reclinata e il busto girato di tre quarti. Si chiama Marcella, e anche se quello non è il suo vero nome, è così che si firma nell’articolo. Ci sono altre foto e ritagli di giornale, lettere, programmi di sala e documenti di produzione, alcuni scritti in tedesco. Fragilissimi fogli che parlano di lei o sono stati scritti da lei. Nelle foto è in posa, elegantissima, o in scena in costumi improbabili da odalisca o vestita da sci. Infine ci sono dei libri. Le copertine – disegnate con una grafica razionalista tipica degli anni Trenta – presentano titoli come Innamorata o Straniera.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

 

Stella lucentissima nell’orbita breve del larmoyant popolare, Yvonne Sanson è probabilmente l’unica diva costruita a misura di melodramma (Morreale 2011, p. 140; Bayman 2015, p. 11), destinata a risplendere e a tramontare assieme alle dolenti pellicole che furoreggiavano sugli schermi italiani del secondo dopoguerra. Chi guardi alla sua misconosciuta carriera, si accorge, invero, che l’attrice ha attraversato tutti i generi del cinema popolare, dal comico allo spaghetti western, dal film in costume al thriller erotico, comparendo in circa cinquanta titoli disseminati nell’arco di un trentennio. Così, bionda e sciantosa, impersona la bulgara Sonia al fianco di Totò in L’imperatore di Capri (L. Comencini, 1949), perfetta spalla comica in quello spumeggiante e quasi astratto gioco di fraintendimenti, burle e travestimenti; poi, castana e posata, interpreta con grazia la paziente moglie di Vittorio De Sica, un lubrico governatore borbonico, in La bella mugnaia (M. Camerini, 1955), dove il ruolo di seconda attrice – la vedette in questo caso è Sophia Loren, seducente e campagnola, con calze a righe e corsetti attillati – le consente di impersonare autorevolmente la figura della governatrice. E ancora poi, a partire dagli anni Sessanta, capelli bruni e disciplinati da eleganti messe in piega, interpreta numerosi e defilati ruoli materni in pellicole molto diverse fra loro: in Il re di Poggioreale (D. Coletti, 1961) sopravvive, a fianco del marito (Ernest Borgnine), alla morte dell’unico figlio; in Il profeta (D. Risi, 1967) è la moglie inquieta di un ricco industriale, madre di un lascivo rampollo, e balla il twist con Vittorio Gassman; nel rocambolesco Don Franco e Don Ciccio nell'anno della contestazione (M. Girolami, 1970) e nell’orrorifico e scollacciato AAA Massaggiatrice bella presenza offresi (D. Fidani, 1972) è alle prese con figlie ribelli e scapestrate, che rischiano di mettersi nei guai; infine in Il conformista (B. Bertolucci, 1970) è la madre di Giulia (Stefania Sandrelli), veste abiti sobri, dal taglio impeccabile, ed ha a cuore soltanto la forma esteriore della famiglia ‘perbene’, preoccupandosi sopra ogni cosa di evitare lo scandalo.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

L’atelier delle Sorelle Fontana è, a partire dagli anni Cinquanta, il luogo della messa in scena, del rituale della vestizione delle attrici e il luogo dove si tenta finalmente la sintesi di cultura, moda, arte e cinema. Le Sorelle Fontana scoprono, attraverso la cultura alta delle case principesche, il fascino dell’abito ottocentesco che riprende l’impianto di quelli del rinascimento ed entrano dalla porta principale nell’industria cinematografica di Cinecittà diventando ambasciatrici di quell’italianità che vuole dire riscatto, nel dopoguerra, della dignità nazionale.

La storia delle Sorelle Fontana è piuttosto nota. Zoe, Micol e Giovanna nascono a Traversetolo, un paese nella provincia di Parma, e vengono avviate al mestiere dalla madre Amabile. 

La maggiore, Zoe, dopo brevi soggiorni a Milano e a Parigi dove studia i modelli di Chanel, Molineaux, Worth, Lelony, Patou, Schiapparelli, decide di lasciare definitivamente il paese natale per Roma, dove inizia a lavorare nella sartoria Zecca, di dichiarata ispirazione francese. Dopo qualche anno, la raggiungono le sorelle: Micol inizia come apprendista nella sartoria Battilocchi, mentre Giovanna cuce abiti in casa e nel frattempo intesse relazioni importanti con i futuri committenti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia romana. Comincia così la loro avventura.

Attivano fin da subito una strategia imprenditoriale vincente. Mettono in atto, infatti, un processo di identificazione della loro immagine con i modelli di cui si fanno promotrici, costruendo per il pubblico un quadro di riferimento che abbina il nome della sartoria a quello delle molte attrici nazionali e internazionali, di passaggio a Cinecittà.

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