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  • Incontro con Fanny & Alexander →

 

 

La compagnia ravennate Fanny&Alexander è stata fondata nel 1992 da Luigi De Angelis e Chiara Lagani. Sin dagli esordi si è distinta per una rinnovata attenzione per il mondo della letteratura e delle arti visive, realizzando negli anni diverse produzioni: da spettacoli teatrali ad azioni performative e musicali, passando per installazioni e mostre, fino alla realizzazione di libri fotografici e opere video. Una «bottega d’arte» dove cooperano diverse personalità artistiche ‒ si pensi alla lunga collaborazione con il fotografo Enrico Fedrigoli, lo studioso Stefano Bartezzaghi e il collettivo Zapruderfilmmakersgroup. Tra questi figura anche l’attore Marco Cavalcoli che dal 1997 si è unito stabilmente alla compagnia.

Nel 1996 va in scena il primo spettacolo, scritto e ideato dagli stessi F&A, che attira l’attenzione del grande pubblico: Ponti in core. I protagonisti sono due ragazzi, Dorotea (Chiara Lagani) e Cipresso (Luigi De Angelis), che, accogliendo gli spettatori in un piccolo teatro anatomico, inscenano un susseguirsi di giochi macabri e funerei, in bilico tra l’innocenza e l’abiezione, la vita e la morte. È evidente come, sin dagli esordi, lo spazio e i dispositivi tecnologici che ‘orientano’ lo sguardo dello spettatore ‒ così come il tema del doppio ‒ si mostrino quali elementi cardini della poetica di Fanny&Alexander.

Le esperienze degli anni successivi, molto legate alla ricerca sul suono e sullo spazio, traghettano la compagnia verso la produzione del primo grande progetto dedicato alla messa in scena di un romanzo: Ada, tratto da Ada o l’ardore di Nabokov. Il progetto comprende sette spettacoli ‒ Ardis I (2003), Ardis II (2004), Adescamenti (2004), Aqua Marina (2005), Vaniada (2005), Lucinda Museum. Adieu por Elle (2005) e Promenada (2006) ‒ che esplorano l’opera-mondo di Nabokov secondo due traiettorie: quella dell’incesto e quella del rapporto tra spettatore e rappresentazione. Dalla deflagrazione dell’universo nabokoviano nascono anche altre ‘opere’ satelliti che completano il progetto Ada: la video installazione Rebus per Ada (Luca Sossella, 2007), realizzata insieme al collettivo Zapruderfilmmakersgroup e il foto-testo Ada. Romanzo teatrale per enigmi in sette dimore liberamente tratto da Vladimir Nabokov (Ubulibri 2006), che ripercorre, attraverso un’inedita drammaturgia verbo-visiva, il lavoro svolto dalla compagnia.

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Ecce Video. Tv e letteratura dagli anni Ottanta a oggi di Costanza Melani e Monica Venturini (Firenze, Franco Cesati, 2019) si situa nell’ambito degli studi sul rapporto tra parola e immagine prendendo in esame il tema della televisione nella letteratura italiana, ma anche quella che si potrebbe definire la ‘televisionizzazione’ della scrittura letteraria, legata alla sua progressiva assimilazione di modalità televisive di racconto; non poche pagine, inoltre, sono dedicate alle riscritture televisive della letteratura e alle nuove frontiere della serialità, secondo un articolato approccio intermediale che il volume condivide, ad esempio, con gli atti del convegno catanese del 2013 Una vernice di fiction. Gli scrittori e la televisione (a cura di Stefania Rimini, Catania, Duetredue, 2017).

Dopo la prefazione di Stefano Bartezzaghi, che mette a fuoco l’odio dei letterati non tanto verso «la tv quanto verso le ragioni per cui ci tratteniamo dentro a ciò che più diciamo di odiare» (p. 12), nella Breve – ma fondamentale – premessa Melani e Venturini preannunciano che il discorso sarà di necessità inserito in un più ampio quadro comparatistico cui fa da traino la letteratura statunitense. A partire dagli anni Sessanta, infatti, autori come John Updike, Don DeLillo, Thomas Pynchon hanno saputo magistralmente raccontare la televisione mettendo in evidenza, in maniera realistica o surreale, come essa non sia «solo un elettrodomestico da guardare, ma […] una delle componenti ineludibili della vita, […] un fornitore di storie, di sogni, di ambizioni, di desideri, di immagini» (p. 97), e pertanto un formidabile strumento di potere e di costruzione dell’immaginario. In particolar modo, le studiose fanno leva sulla riflessione di David Foster Wallace per impostare la cornice teorica del volume, specie quando l’autore di Infinite Jest colloca verso la metà degli anni Ottanta la nascita di un nuovo tipo di narrativa postmodernista, la image fiction: gli scrittori progressivamente metabolizzano l’estetica dello zapping e la post-realtà entra nella fiction nei termini (tematici) di un’opacizzazione della differenza tra reale e mediale, come si vede esemplarmente in Glamorama di Bret Easton Ellis (1998).

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Ci sono libri che andrebbero letti dall’inizio alla fine. E altri che è bene sfogliare secondo l’impulso del momento, seguendo itinerari trasversali, facendosi guidare dall’indice dei nomi o da estemporanee associazioni di idee. Sulla televisione. Scritti 1956-2015 di Umberto Eco, a cura di Gianfranco Marrone (La nave di Teseo, 2018), è entrambe le cose. Nella rigorosa disposizione cronologica dei testi è possibile seguire la riflessione critica del semiologo che dal 1956, anno in cui le trasmissioni televisive si diffondono sull’intero territorio nazionale italiano, al 2015, ha accompagnato lo sviluppo del mezzo televisivo. La postfazione del curatore, che ha la consistenza e la precisione del saggio, distingue il percorso di ricerca di Eco in sei fasi, secondo una scansione temporale che di volta in volta viene individuata dalla preponderanza di un differente approccio metodologico.

I saggi della prima fase, definita ‘estetico-metodologica’, che si sviluppano dal ’56 al ’64, ruotano attorno al fenomeno della diretta televisiva, avvertito come proprium del mezzo. Studioso dell’estetica medievale, ma anche funzionario della RAI assunto insieme a Furio Colombo nel drappello dei cosiddetti “corsari”, il giovane Eco riconosce nella televisione la dialettica tra forma e indeterminazione tipica delle poetiche contemporanee – sono gli anni di Opera aperta – attribuendo alla ripresa diretta la capacità di influenzare anche il cinema. Allo stesso tempo focalizza la propria attenzione sull’intervento del regista e sulle tecniche di montaggio. La televisione viene considerata, fin da subito, come un dispositivo tecnologico che produce effetti estetici, non come un particolare genere artistico: «è uno strumento tecnico – di cui si occupano i manuali di elettronica – in base al quale una certa organizzazione fa pervenire a un pubblico, in determinate condizioni di ascolto, una serie di servizi, che possono andare dal comunicato commerciale alla rappresentazione dell’Amleto» (p. 59).

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Abstract: ITA | ENG

La caratteristica peculiare del processo compositivo di Giovanni Testori è lo scambio fecondo fra parole e immagini. L’esperienza di scrittore-pittore dell’intellettuale lombardo lo colloca nella categoria del ‘doppio talento’ (Doppelbegabung), elaborata nel contesto degli studi di cultura visuale. Proprio attraverso il recupero di alcuni concetti fondativi della Visual Culture, il saggio mette a fuoco la strategia intermediale di Testori, la sua capacità di superare i confini tra i linguaggi, attraverso la pratica dell’ékphrasis, e la traslazione semiotica di codici visivi nella scrittura letteraria. La novità critica introdotta dallo studio riguarda l’ipotesi e la dimostrazione, tramite specifici case studies di ambito poetico e pittorico, della triplice declinazione del ‘doppio talento’ di Testori: in quanto scrittore-pittore; in quanto autore che ha utilizzato la tecnica dell’ékphrasis in modo interpretativo, emozionale, rivelatorio; e in quanto artista verbo-visivo, le cui ‘reciproche illuminazioni’ tra arti in parola e arti in figura sono il risultato di una precisa concrescenza genetica, su cui si costituisce, di fatto, l’intero imaginary testoriano. 

The peculiar characteristic of Giovanni Testori’s compositional process is the fruitful exchange between words and images. The experience as writer-painter of Testori, places him in the category of ‘double talent’ (Doppelbegabung), developed in the context of the visual studies. Through the application of some foundational concepts of Visual Culture, the essay focuses the Testori’s intermedial strategy, his ability to cross boundaries between languages, through the practice of ékphrasis, and the semiotic translation of visual codes in literary writing. The critical novelty introduced by the essay concerns the hypothesis and the demonstration, through specifics poetic and pictorial case studies, of the triple declination of Testori’s ‘double talent’: as a writer-painter; as an author who has used the ékphrasis in an interpretative, emotional and revelatory way; and inasmuch visual-verbal artist, whose ‘reciprocal illuminations’ between arts of word and arts of figure are the result of a precise genetic concurrence, on which is founded, in fact, the whole Testori’s imaginary.

 

Cos’è, nel fondo,

l’arte

e che, parola,

viva materia,

subito colore

Giovanni Testori

 

 

1. Testori oltre i confini

La descrizione del protagonista del romanzo-poema La cattedrale (1974), scoperto alter ego dell’autore indicato nel testo semplicemente come Ê»lo Scrittoreʼ, racchiude in poche, folgoranti battute l’essenza della «doppia vocazione»[2] di Giovanni Testori.

Come lo scrittore del suo romanzo, anche il grande intellettuale di Novate fu infatti una ʻcreatura bicefalaʼ che, con la spregiudicatezza che gli era usuale, fin dalla giovinezza degli esordi percorse senza sosta zone liminali, oltrepassando i confini porosi e permeabili tra arti sorelle, ma non per questo privi di precise linee di demarcazione.

La parabola artistica di Testori si snoda nell’arco di mezzo secolo: cinquant’anni di ininterrotta attività condotta nel segno di un indissolubile intreccio degli ambiti creativi, di una vigorosa necessità di Ê»sfondamentoʼ delle barriere semiotiche, stilistiche, espressive, che convenzionalmente separano forme artistiche differenti. Il dato più evidente riguardante l’autore lombardo è senza dubbio il suo ingegno poliedrico, la sua capacità di rivolgere il proprio ardore creativo sia verso il Ê»fuocoʼ della scrittura (esplorata dal racconto al romanzo, dalla poesia alla drammaturgia, dal giornalismo alla critica d’arte) sia verso quello della pittura (scoperta da giovanissimo, intorno ai quindici anni, e praticata per tutta la vita attraverso cicli sempre nuovi: di fiori, di tramonti, di pugilatori, di crocifissioni, etc.).[3]

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Abstract: ITA | ENG

Il saggio, attraverso lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo (Catania, 2009-2010) della regista Maria Arena intorno agli scritti autobiografici Lettera aperta (1967) e Il filo di mezzogiorno (1969), offre uno sguardo sull’eredità artistica e memoriale della scrittrice e attrice Goliarda Sapienza nel contesto contemporaneo.

This essay, through the intermedial show Io ho fatto tutto questo(Catania, 2009-2010) by the director Maria Arena about the autobiographical writings Lettera aperta (1967) and Il filo di Mezzogiorno (1969), looks at the artistic heritage in the new millennium of the writer and actress Goliarda Sapienza.

 

Il soggetto individuale è sempre un evento sociale, e ogni singolo è come una cavità teatrale che riecheggia i diversi motivi e linguaggi della società.

Giacomo Marramao, Passaggio a Occidente

 

Questo pensiero di Giacomo Marramao racchiude in sé il carattere di fondo della scelta di Maria Arena di portare in scena, nel 2009 a Catania, con lo spettacolo intermediale Io ho fatto tutto questo, la complessa formazione della scrittrice/attrice Goliarda Sapienza, partendo dal lavoro sugli scritti autobiografici Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno.[1] Al di là dell’impellente necessità testimoniale, negli anni della sua riscoperta in Italia, per la regista era necessario andare oltre l’istantaneità del ricordo per intercettare la memoria di una trasformazione vitale emblematica per la sua «stra-ordinarietà», l’esemplarità di «un percorso a ostacoli, una ricerca di autenticità».[2] Per questo Maria Arena sceglie di mettere in scena non solo il racconto ma anche l’esperienza di una condizione di crisi esistenziale partendo da un un momento preciso della sua biografia legato alla profonda crisi vissuta intorno ai quarant’anni che la portò a due tentati suicidi. Il primo dopo il crollo depressivo seguito alla morte della madre, per cui fu sottoposta a degli elettroshock che ne causarono uno stato di paurosa instabilità e la perdita della memoria. Il secondo fu dato dal fallimento del recupero della riappropriazione di sé attraverso i propri ricordi dopo l’abbandono della professione del suo terapista. Il recupero narrativo attraverso la scrittura si rivelò però il miglior strumento terapeutico per recuperare la molteplicità delle immagini della propria identità. La regista ripercorre quindi il viaggio a ritroso percorso dalla scrittrice nei due testi autobiografici del ’67 e del ’69 Lettera aperta e Il filo di mezzogiorno, in cui racconta la riscoperta e la rinascita come scrittrice attraverso un itinerario interiore: dalla vivacità formativa della propria infanzia, vissuta tra le strade del quartiere popolare San Berillo di Catania, sino alla deludente esperienza d’attrice teatrale e cinematografica a Roma.

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A presentare il volume Verba picta. Interrelazione tra testo e immagine nel patrimonio artistico e letterario della seconda metà del Novecento, curato da Teresa Spignoli (Pisa, Ets, 2018), è Le souffle poétique di André Beuchat, incisore e direttore della stamperia d’arte Alma Charta, il cui catalogo conta preziose plaquette realizzate insieme a poeti italiani contemporanei o ad essi dedicate. L’acquaforte scelta come immagine di copertina, pubblicata in Rosa acuminata. Undici poeti per Anna (Toccalmatto di Fontanellato, Alma Charta, 2011), ben introduce, dunque, il tema portante dei diciotto saggi qui raccolti, volti a restituire la molteplicità di relazioni esistenti tra l’ambito verbale e l’ambito visivo.

Verba picta: l’interconnessione tra le due arti sorelle è felicemente condensata nella locuzione latina che dà il titolo alla miscellanea, parte integrante dell’omonimo progetto di ricerca attivo a partire dal 2012 presso il Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi interculturali dell’Università di Firenze, finanziato dal MIUR nell’ambito del programma FIRB-“Futuro in Ricerca 2010”. Il progetto, avvalendosi in maniera proficua sia di una metodologia critico-teorica sia di strumenti archivistico-informatici, ha trovato un primo esito nella realizzazione di una banca dati consultabile all’indirizzo www.verbapicta.it. La piattaforma ospita una serie di schede organizzate sotto diverse voci (Autori, Opere, Editori, Riviste, Eventi, Gruppi di avanguardia), ricostruendo in tal modo la fitta rete di connessioni esistenti tra poesia e pittura nel secondo Novecento italiano. Alla pluralità di tali materiali si fa costantemente riferimento nei saggi contenuti nel volume, attraverso un puntuale sistema di rimandi che induce i lettori dell’opera cartacea ad integrare le analisi critiche con le schede inserite nel regesto informatico.

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  • [Smarginature] Pelle e pellicola. I corpi delle donne nel cinema italiano →

Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

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Nell’agosto del 2017 si è spento Basilio Martín Patino, uno dei nomi più importanti del cinema iberico, che con la sua opera ha percorso cinquant’anni di storia spagnola. Fortemente osteggiata dalla censura durante la dittatura franchista, la sua carriera ha percorso la via della clandestinità, riuscendo ad approdare ai riconoscimenti internazionali proprio in quegli anni, ma restando sostanzialmente invisibile anche nella Spagna democratica. Lo zoom ricostruisce la parabola di un regista che ha mescolato finzione e documentario fino alla scelta del mockumentary, per poi addentrarsi nel carattere intermediale dell’opera di Patino: autore di numerose videoinstallazioni, e di un cinema che ha sempre dialogato con letteratura, cinema, teatro e fotografia.

Lo stesso nome che da dieci anni conclude e attualizza il percorso sul Guernica di Picasso nella sala 206.11 del Museo Reina Sofía, dove si proietta Canciones para después de una guerra: la pellicola più molesta per il regime franchista dopo Viridiana di Luis Buñuel, realizzata nel 1971, ma proibita fino alla morte del dittatore. Novantasei minuti di canzoncine estremamente popolari nella Spagna di allora e apparentemente innocue, ma saldate con un montaggio diabolico alle immagini d’archivio della guerra civile, fino a ottenere un ordigno corrosivo.

 

Allo stesso Patino si deve quello che è considerato il vertice della Nouvelle Vague iberica: Nueve cartas a Berta, il suo primo lungometraggio, presentato nelle sale nel 1967, in versione forzosamente ‘emendata’.

Basilio Martín Patino è anche l’autore del primo film su Francisco Franco realizzato da un non franchista: si intitolava Caudillo, esisteva clandestinamente dal 1974 e nel 1977 ne veniva ritirata la locandina dal padiglione spagnolo del Festival di Berlino, anche se la dittatura era finita. Cineasta di idee anarchiche, fino a quel momento Patino si era divertito a finire nel carcere di Carabanchel due giorni sì e uno no. E nel 1973 aveva rischiato la pelle per girare Queridísimos verdugos (Carissimi boia), documentario che, con Franco ancora in vita, nel 1975 veniva proiettato in una sala prove di Madrid alla presenza di Alberto Moravia. Tre anni dopo, il Festival di Taormina avrebbe premiato questa sinfonia macabra che sbatteva in faccia al regime l’umanità delle rughe di Vicente Copete, Bernardo Sánchez e Antonio López: los tres verdugos, cioè i tre esecutori di sentenze capitali nella Spagna del 1971, il volto inconfessabile del regime e i visi che nessuno voleva vedere.

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Per Lucrezio le immagini sono «simulacri dei corpi che qua, che là van volando, quasi membrane staccatesi dal loro involucro esterno, per l’aria». Con questa citazione dal De rerum natura Giuliana Bruno apre il saggio intitolato Superfici, (Johan & Levi, 2016) e partendo da questo assunto si interroga sulla natura delle immagini, rileggendole a partire da ciò che dà loro consistenza: la superficie.

La studiosa napoletana, che alla Harvard University si occupa di Visual and Environmental Studies, tesse una serie di relazioni tra arte, architettura, moda, cinema, fotografia e design e propone di considerare l’oggetto visuale secondo una prospettiva multipla a partire dalla sua specifica concretezza tangibile, spaziale e ambientale. Nelle pagine in cui si articola il suo studio teorizza, pertanto, un nuovo materialismo, convinta pure che «la materialità non riguardi i materiali, bensì la sostanza delle relazioni materiali» (p. 16). Suggerisce pertanto un approccio aptico alle arti visive molto vicino alla percezione tattile già teorizzata da Riegl.

Il saggio di Giuliana Bruno è corposo e stratificato, le parti si assemblano e si intersecano senza tendere a un climax argomentativo. Le quattro sezioni del libro sono concepite come blocchi indipendenti ma finiscono col ripiegarsi l’una sull’altra, si rincorrono tra cuciture e risvolti e non rinunciano a una scrittura dialogica, più empatica che accademica, come dimostra in chiusura la lettera ‘virtuale’ a Sally Potter. L’aspetto tematico che sostiene il discorso, sin dalla prima sezione I. Trame del visuale, è la «tensione di superficie». La superficie, che richiama la texture e la sartorialià, rinvia alla seconda pelle dell’uomo, l’abito, alla pellicola cinematografica e dunque alla pelle di tutte le cose. Correlando i plissè di Issey Miyake alla Piega di Gilles Deleuze, Bruno analizza il cinema di Wong Kar-wai che è una questione di filosofia sartoriale, dove il vestire, oltre il coprire, sa diffondere «atmosfere mentali» (p. 51). Cucire un abito o una striscia di celluloide è un gesto di sartorialità del campo visivo.

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