Nell’agosto del 2017 si è spento Basilio Martín Patino, uno dei nomi più importanti del cinema iberico, che con la sua opera ha percorso cinquant’anni di storia spagnola. Fortemente osteggiata dalla censura durante la dittatura franchista, la sua carriera ha percorso la via della clandestinità, riuscendo ad approdare ai riconoscimenti internazionali proprio in quegli anni, ma restando sostanzialmente invisibile anche nella Spagna democratica. Lo zoom ricostruisce la parabola di un regista che ha mescolato finzione e documentario fino alla scelta del mockumentary, per poi addentrarsi nel carattere intermediale dell’opera di Patino: autore di numerose videoinstallazioni, e di un cinema che ha sempre dialogato con letteratura, cinema, teatro e fotografia.

Lo stesso nome che da dieci anni conclude e attualizza il percorso sul Guernica di Picasso nella sala 206.11 del Museo Reina Sofía, dove si proietta Canciones para después de una guerra: la pellicola più molesta per il regime franchista dopo Viridiana di Luis Buñuel, realizzata nel 1971, ma proibita fino alla morte del dittatore. Novantasei minuti di canzoncine estremamente popolari nella Spagna di allora e apparentemente innocue, ma saldate con un montaggio diabolico alle immagini d’archivio della guerra civile, fino a ottenere un ordigno corrosivo.

 

Allo stesso Patino si deve quello che è considerato il vertice della Nouvelle Vague iberica: Nueve cartas a Berta, il suo primo lungometraggio, presentato nelle sale nel 1967, in versione forzosamente ‘emendata’.

Basilio Martín Patino è anche l’autore del primo film su Francisco Franco realizzato da un non franchista: si intitolava Caudillo, esisteva clandestinamente dal 1974 e nel 1977 ne veniva ritirata la locandina dal padiglione spagnolo del Festival di Berlino, anche se la dittatura era finita. Cineasta di idee anarchiche, fino a quel momento Patino si era divertito a finire nel carcere di Carabanchel due giorni sì e uno no. E nel 1973 aveva rischiato la pelle per girare Queridísimos verdugos (Carissimi boia), documentario che, con Franco ancora in vita, nel 1975 veniva proiettato in una sala prove di Madrid alla presenza di Alberto Moravia. Tre anni dopo, il Festival di Taormina avrebbe premiato questa sinfonia macabra che sbatteva in faccia al regime l’umanità delle rughe di Vicente Copete, Bernardo Sánchez e Antonio López: los tres verdugos, cioè i tre esecutori di sentenze capitali nella Spagna del 1971, il volto inconfessabile del regime e i visi che nessuno voleva vedere.

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Per Lucrezio le immagini sono «simulacri dei corpi che qua, che là van volando, quasi membrane staccatesi dal loro involucro esterno, per l’aria». Con questa citazione dal De rerum natura Giuliana Bruno apre il saggio intitolato Superfici, (Johan & Levi, 2016) e partendo da questo assunto si interroga sulla natura delle immagini, rileggendole a partire da ciò che dà loro consistenza: la superficie.

La studiosa napoletana, che alla Harvard University si occupa di Visual and Environmental Studies, tesse una serie di relazioni tra arte, architettura, moda, cinema, fotografia e design e propone di considerare l’oggetto visuale secondo una prospettiva multipla a partire dalla sua specifica concretezza tangibile, spaziale e ambientale. Nelle pagine in cui si articola il suo studio teorizza, pertanto, un nuovo materialismo, convinta pure che «la materialità non riguardi i materiali, bensì la sostanza delle relazioni materiali» (p. 16). Suggerisce pertanto un approccio aptico alle arti visive molto vicino alla percezione tattile già teorizzata da Riegl.

Il saggio di Giuliana Bruno è corposo e stratificato, le parti si assemblano e si intersecano senza tendere a un climax argomentativo. Le quattro sezioni del libro sono concepite come blocchi indipendenti ma finiscono col ripiegarsi l’una sull’altra, si rincorrono tra cuciture e risvolti e non rinunciano a una scrittura dialogica, più empatica che accademica, come dimostra in chiusura la lettera ‘virtuale’ a Sally Potter. L’aspetto tematico che sostiene il discorso, sin dalla prima sezione I. Trame del visuale, è la «tensione di superficie». La superficie, che richiama la texture e la sartorialià, rinvia alla seconda pelle dell’uomo, l’abito, alla pellicola cinematografica e dunque alla pelle di tutte le cose. Correlando i plissè di Issey Miyake alla Piega di Gilles Deleuze, Bruno analizza il cinema di Wong Kar-wai che è una questione di filosofia sartoriale, dove il vestire, oltre il coprire, sa diffondere «atmosfere mentali» (p. 51). Cucire un abito o una striscia di celluloide è un gesto di sartorialità del campo visivo.

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D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

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Banksy, Jean-Michel Basquiat, Joseph Beuys, Urs Fischer, Luigi Ghirri, Damien Hirst, Jeff Koons, Keith Haring, Sarah Lucas, Yoko Ono, Robert Mapplethorpe, Michelangelo Pistoletto, Roy Lichtenstein, Mark Ryden, Mario Schifano, Julian Schnabel, Andy Warhol, ma anche Salvador Dalì, Yves Klein, Réné Magritte, Pablo Picasso: questi sono soltanto alcuni dei nomi che hanno firmato le cinquecento copertine che, come se si sfogliasse una mostra permanente di arte applicata alla popular music, si possono ammirare nel corposo volume trilingue Art Record Covers curato da Francesco Spampinato (con la supervisione editoriale di Julius Wiedermann) per i tipi di Taschen.

Il volume, che fornisce un primo orientamento a un settore dei visual studies ancora da esplorare sistematicamente, è mosso da un obiettivo che Spampinato chiaramente enuncia al termine dell’introduzione: «to present the record cover as a quintessential medium for an expanded approach to art, stemming from the artist’s increasing desire to transcend the boundaries between different cultural forms while at the same time commenting on and exposing the mechanisms that regulate mainstream media and entertainment» (p. 12).

Di tale ‘approccio espanso all’arte’ Spampinato si dedica a ricostruire le principali linee di direzione con una sintetica ma esaustiva visione d’insieme: dalle prime collaborazioni negli anni Quaranta di Alex Steinweiss con la Columbia Records alla realizzazione di Salvador Dalì nel 1955 della copertina di un album di una star televisiva americana, dai vari lavori degli anni Cinquanta e Sessanta di Picasso, Miro e Dubuffet alla psichedelia pop del 1967 di Andy Wharol e Peter Blake – rispettivamente per Banana dei Velvet Underground e Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club dei Beatles –, dai ribellismi punk degli anni Settanta di artisti come Martin Kippenberger e Albert Oehlen alle provocazioni dell’hip-hop newyorkese degli anni Ottanta di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, dai Young British Artists degli anni Novanta sino alle più recenti sperimentazioni optical di Lisa Alvarado, Tauba Auerbach e gli artisti della corrente Post-Internet.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →
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La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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 Nel film di Fellini dedicato a Casanova convivono varie forme di intermedialità, e una pista molto precisa porta a Le avventure di Pinocchio di Collodi. Siamo inizialmente dalle parti di un’intermedialità che chiameremo ‘ristretta’, che apre differenti piste intertestuali e interdiscorsive a partire dalla sceneggiatura (almeno quella scritta da Fellini con Zapponi) fino a giungere al film. Il Casanova di Federico Fellini (1976) sottolinea fin dal titolo una lettura singolare e tendenziosa dei Mémoires di Giacomo Casanova, con i titoli di testa che danno una prima lista di indizi intertestuali, indicando i ‘testi d’autore’ che appaiono nel film. Vi troviamo: stralci dai versi di Andrea Zanzotto per le poesie in veneto e le melodie cantate dalla donna gigante (da Filò); stralci dai versi di Tonino Guerra per ‘La grande Mouna’ (da Cantèda Vintiquàtar); una pièce di Antonio Amurri, La mantide religiosa, interpretata nel film da Daniel Emilfork; una cantata di Carl A. Walken, Il cacciatore di Württemberg; la musica di Nino Rota; infine i disegni di Roland Topor, di cui parleremo.

Come già in sceneggiatura, il film cita direttamente le Rime di Tasso e Il Canzoniere di Petrarca, l’Orlando furioso di Ariosto, ma apre continue allusioni e rimandi a Dante, e soprattutto a Le avventure di Pinocchio. Rispetto alla pista dantesca ricordiamo soltanto, con Brunetta, che «tutta l'opera di Fellini, da quella di sceneggiatore fino agli ultimi progetti non realizzati, si sviluppa sotto il segno di Dante e della Divina Commedia» (Brunetta, 1996, p. 21). Il Giacomo Casanova raccontato da Fellini in effetti entra ed esce da paradisi e inferni, non solo dei poveri ma anche dei ricchi: non è però un Pierrot lunare come in altri film di Fellini, ma un vitalista e un edonista, che ama la bellezza soprattutto femminile (come è noto, in una scena poi censurata del film, ha anche un’avventura omosessuale). Casanova di Fellini è un truffatore e un libertino, che però tiene alla benevolenza papale; un letterato fattosi dal nulla, senza censo né denaro, che cerca occasioni e protettori in un ruolo sociale diventato via via sempre più marginale e umiliante. Sulla stretta relazione tra Casanova e Pinocchio ritorna con insistenza lo stesso Fellini, che definisce il film «la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un ‘italiano’ imprigionato nel ventre della madre [preso] a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto» (Fellini, 1980, p. 176).

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nel 1964, ad un anno dall’uscita della celebre hit musicale La partita di pallone, il nome di Rita Pavone compare tra le pagine del testo Apocalittici e integrati. Umberto Eco sottolinea e analizza il fascino ambiguo esercitato da Rita Pavone, la «prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina», una «ragazza che camminava verso il pubblico con l’aria di domandare un gelato, e [dalla cui bocca uscivano] parole di passione» (Eco 2016).

Negli anni in cui la canzone leggera italiana si popola prima di personaggi, e solo in un secondo momento di canzoni, Rita Pavone si afferma immediatamente come idolo dei giovanissimi, mito in grado di incarnare gioie e affanni di un’intera generazione.

«Io non sarò mai una vamp», afferma la cantante torinese nel corso di un’intervista rilasciata a Radiocorriere TV nel 1966, «a ventun anni suonati non arrivo a un metro e mezzo in punta dei piedi. Quarantadue chili con le scarpe, sono tutta un triangolo. Non mi viene una curva neanche per scommessa. Pensi che vergogna: alla Rinascente mi vesto ancora nel reparto bambini!». Sul suo aspetto minuto, sulle sue movenze esagitate e a tratti scomposte, e su quei lineamenti riconducibili a una androginia infantile si è scritto molto, e in tanti si sono cimentati nella ricerca di epiteti che cogliessero appieno l’essenza della cantante.

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Nota principalmente come cantante, Gabriella Ferri era invece un’artista completa. Donna intensa, irrequieta, profondamente sensibile esprime il suo talento soprattutto nell’interpretazione di canzoni e di sketch brillanti.

Capitolina di nascita (1942), deve al quartiere Testaccio la sua romanità che le darà l’identità artistica. «Il dialetto è la mia lingua» diceva spesso, e difatti non l’abbandonerà mai, rendendolo l’insegna della sua autenticità.

Scopre le canzoni popolari grazie al padre, al quale era profondamente legata, e riesce a dare forma alla sua passione per gli stornelli e la musica folk quando incontra Luisa De Santis, figlia di Giuseppe (regista di Riso Amaro). Insieme danno vita al duo Luisa e Gabriella e vanno a cercare fortuna a Milano dove vengono ribattezzate le Ê»romanineʼ. La fortuna le trova e nel 1964 fanno il loro esordio televisivo nella trasmissione La fiera dei sogni presentata da Mike Bongiorno, cantando La società dei magnaccioni. Nei giorni seguenti all’apparizione televisiva il 45 giri del brano venderà un milione e settecentomila copie. «Non mi piace parlare della mia carriera. È nata per caso e continua per caso», scriverà anni dopo la Ferri. Punto di vista che nel racconto della sua carriera rispettiamo e facciamo nostro, tranne che nell’accendere dei fari sugli incontri tra questa casualità e gli Ê»schermiʼ.

Il primo è il piccolo schermo che, grazie alla suddetta trasmissione di Bongiorno, le dà subito grandissima visibilità. È un mezzo che a malapena ha dieci anni, trasmette le immagini in bianco e nero, ma soprattutto è una vetrina attenta ai giovani.

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Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi di Andrea Pinotti e Antonio Somaini (Einaudi, 2016) contiene una sorta di autorecensione al suo stesso interno. Il volume si apre infatti con le articolate pagine introduttive in cui i due autori non solo spiegano il senso del progetto, ma anche sintetizzano il percorso dei capitoli, in un certo senso svelando, con paragone giallistico, l’assassino prima che venga commesso il delitto. Tale scelta si spiega con la natura didattico-divulgativa del lavoro, che aspira a costituire un viatico il più possibile ordinato e chiaro al dibattito internazionale sulla cultura visuale; sullo sfondo, però, si affaccia un’altra ragione, e cioè che Pinotti e Somaini possano avere ritenuto che fosse necessaria una mappatura supplementare per orientarsi nella ramificatissima messe di dati, nomi e concetti che, non senza qualche episodica ridondanza informativa, danno vita a un volume dal ritmo argomentativo certamente molto elevato.

Più in dettaglio, Cultura visuale si compone di sei densi capitoli tesi a dimostrare che «studiare le immagini e la visione assumendo come punto di riferimento questo concetto significa prendere in esame tutti gli aspetti formali, materiali, tecnologici e sociali che contribuiscono a situare determinate immagini e determinati atti di visione in un contesto culturale ben preciso» (pp. XIII-XIV). Di qui l’esigenza di ricostruire nei primi due capitoli la storia e le aree di un sapere per definizione inter- e transdisciplinare, che ingloba al suo interno tratti teorici, storici, filosofici ma anche riflessioni sull’arte, sulla fotografia, sul cinema, sui mass media, sulla pubblicità, nonché sulla presenza delle immagini nella vita quotidiana. Senza tralasciare il ricco panorama francese, specie in relazione a nomi come Barthes, Foucault, Deleuze, gli autori distinguono poi tra i visual culture studies anglosassoni, di impostazione più culturalista e militante, e la tedesca Bildwissenschaft, più legata alle metodologie storico-artistiche tradizionali, nonostante entrambi gli indirizzi siano fautori delle affini prospettive della pictorial turn (W.J.T. Mitchell) e della iconic turn (Bohem), oltre che di un interesse per l’immagine tout court, al di là del suo status artistico. Dal terzo al quinto capitolo si prendono invece in esame i concetti e percorsi chiave del multiforme orizzonte degli studi sulla cultura visuale, come – solo per nominarne i principali – la differenziazione tra images come entità immateriali e pictures come fenomeni concreti, la distinzione tra la neutra vision e la situata visuality col conseguente dibattitto sulla validità di un approccio storico allo sguardo e alla percezione, i regimi scopici che operano all’interno di una complessiva iconosfera, la riflessione sulla realtà aumentata, il focus sul rapporto tra senso dell’immagine e sua materialità a partire dall’attenzione riservata ai supporti e ai dispositivi, la discussione sul passaggio dall’analogico al digitale, la prospettiva socioculturale sui medium e sui loro variegati rapporti (multimedialità, intermedialità, transmedialità, rimediazione, rilocazione), il rinnovamento degli studi sui mass media alla luce dell’opposizione tra immagini ad alta o bassa definizione. La sesta e ultima sezione è dedicata agli usi sociali delle immagini e differisce dalle precedenti in quanto si sposta sugli oggetti su cui possono essere applicati i metodi presi in esame: dai reperti di archeologia preistorica sino alla diffusione globale di immagini come quelle relative all’attacco terroristico dell’11 settembre e alle torture dei prigionieri ad Abu Ghraib, dall’uso delle immagini sacre già nell’antichità ai recentissimi fenomeni di manipolazione e derealizzazione tramite internet e, in particolare, le piattaforme social.

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