D: Tu e Cesare Ronconi avete parlato già diverse volte del vostro percorso che vi ha portati dapprima a creare il Collettivo Valdoca e, successivamente, a trasformarlo nel Teatro Valdoca. Ti andrebbe, comunque, a mo’ di introduzione, di ripercorrerlo brevemente, specie in relazione al tuo percorso personale che si snoda tra le diverse e affini anime di attrice, autrice, poetessa e drammaturga?

 

R: La necessità di passare da Collettivo a Teatro è diventata categorica quando Cesare Ronconi ha capito che la regia era il suo ambito d’espressione e non era più a suo agio lì dove si voleva mantenere un imprecisato lavoro d’insieme. Così si è creata una frattura fra chi voleva assumersi un ruolo preciso, riconoscendo in sé quella spinta e urgenza che potremmo chiamare vocazione, e chi invece voleva restare in un indistinto insieme in cui tutti facevano tutto. Io allora facevo l’attrice, non sentendomi tuttavia esattamente nella mia acqua e comunque seguii Cesare e con lui fondammo appunto il Teatro Valdoca. Dopo tre spettacoli in silenzio e un quarto in cui entrarono versi di Milo De Angelis, Eschilo e Paul Celan, Cesare cominciò a sentire il bisogno di una parola che registrasse ciò che accadeva durante le prove, cioè una parola che nascesse al presente, perfettamente calzante coi corpi che dovevano pronunciarla, con le azioni e con tutta la scrittura scenica. E così mi ha chiesto di scrivere, dicendomi addirittura che le parole erano già tutte lì, contenute in ciò che facevamo, nel luogo in cui stavamo concentrati per giorni e per notti. Scrissi i miei primi testi teatrali dapprima con grande tremore e disagio, non sentendomi all’altezza del compito e dunque patendo non poco. Ma poi, dopo un passaggio importante, la mia scrittura è arrivata a piena maturazione e con la trilogia di Antenata ho cominciato davvero a scrivere quelli che posso definire i miei versi.

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Banksy, Jean-Michel Basquiat, Joseph Beuys, Urs Fischer, Luigi Ghirri, Damien Hirst, Jeff Koons, Keith Haring, Sarah Lucas, Yoko Ono, Robert Mapplethorpe, Michelangelo Pistoletto, Roy Lichtenstein, Mark Ryden, Mario Schifano, Julian Schnabel, Andy Warhol, ma anche Salvador Dalì, Yves Klein, Réné Magritte, Pablo Picasso: questi sono soltanto alcuni dei nomi che hanno firmato le cinquecento copertine che, come se si sfogliasse una mostra permanente di arte applicata alla popular music, si possono ammirare nel corposo volume trilingue Art Record Covers curato da Francesco Spampinato (con la supervisione editoriale di Julius Wiedermann) per i tipi di Taschen.

Il volume, che fornisce un primo orientamento a un settore dei visual studies ancora da esplorare sistematicamente, è mosso da un obiettivo che Spampinato chiaramente enuncia al termine dell’introduzione: «to present the record cover as a quintessential medium for an expanded approach to art, stemming from the artist’s increasing desire to transcend the boundaries between different cultural forms while at the same time commenting on and exposing the mechanisms that regulate mainstream media and entertainment» (p. 12).

Di tale ‘approccio espanso all’arte’ Spampinato si dedica a ricostruire le principali linee di direzione con una sintetica ma esaustiva visione d’insieme: dalle prime collaborazioni negli anni Quaranta di Alex Steinweiss con la Columbia Records alla realizzazione di Salvador Dalì nel 1955 della copertina di un album di una star televisiva americana, dai vari lavori degli anni Cinquanta e Sessanta di Picasso, Miro e Dubuffet alla psichedelia pop del 1967 di Andy Wharol e Peter Blake – rispettivamente per Banana dei Velvet Underground e Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club dei Beatles –, dai ribellismi punk degli anni Settanta di artisti come Martin Kippenberger e Albert Oehlen alle provocazioni dell’hip-hop newyorkese degli anni Ottanta di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, dai Young British Artists degli anni Novanta sino alle più recenti sperimentazioni optical di Lisa Alvarado, Tauba Auerbach e gli artisti della corrente Post-Internet.

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  • Il corpo plurale di Pinocchio. Metamorfosi di un burattino →
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La realtà di Pinocchio è popolata di forme mutevoli, instabili, in continuo divenire. I personaggi che il burattino incontra nella sua quête assumono, nei reiterati incontri fra le pagine del romanzo, sembianze differenti, di volta in volta rinnovate – complice anche la genesi dell’opera – per opera di magia (come nel caso delle simboliche apparizioni della Fata) o di travestimento (la Volpe e il Gatto, mascherati da assassini), per dissolvimento dell’involucro corporeo (l’ombra del Grillo parlante) o per gli effetti di un destino luttuoso (Lucignolo). Lo stesso Pinocchio, soprattutto, è soggetto a continue trasformazioni: ‘animale da fuga’, come scrive Manganelli, fin dall’esordio il burattino trascende la condizione di pezzo di legno da catasta per affacciarsi alle soglie dell’umanità, ed è esposto lungo la narrazione alla forza attrattiva o repulsiva di altre possibilità e condizioni di esistenza. Una volta allontanatosi da casa, Pinocchio viene riconosciuto come fratello dalla compagnia ‘drammatico-vegetale’ del teatro di Mangiafoco, è costretto a fare il cane da guardia, subisce la metamorfosi asinina destinata a chi soggiorna nel Paese dei Balocchi, si sveste della propria pelle animalesca per ritornare burattino grazie all’aiuto della Fata, viene scambiato per un granchio e per un pesce-burattino dal pescatore verde, e infine, dopo un’ulteriore degradazione bestiale al servizio di un ortolano, abbandona le proprie spoglie legnose per rinascere bambino. Nel corso delle Avventure il suo corpo si definisce come forma plurale, aperta al desiderio ma anche esposta all’asservimento. Diventare appare così un termine chiave nel romanzo, che ricorre a più riprese in relazione sia alle membra di Pinocchio (il naso, che «diventò in pochi minuti un nasone che non finiva mai», i piedi, che dopo aver preso fuoco «diventarono cenere», le orecchie che, crescendo, «diventavano pelose verso la cima», le braccia e il volto che, durante la trasformazione in asino, «diventarono zampe [...] e muso»), sia al suo status («Perché io oggi sono diventato un gran signore»; «il povero Pinocchio [...] sentì che era destinato a diventare un tamburo»), sia agli oggetti che potrebbero giovargli e che invece gli sfuggono di mano (gli zecchini, che si immagina «potrebbero diventare mille e duemila», o il battente sulla porta della casa della Fata, che «diventò a un tratto un’anguilla»). E via via che le Avventure si approssimano alla loro conclusione, la frequenza del termine aumenta, così nel testo come negli argomenti premessi ai singoli capitoli, a segnalare la duplice e compendiosa polarità della metamorfosi asinina e del raggiungimento della condizione umana, e a scandire la progressione inesorabile verso la comparsa finale, più volte prefigurata, del Pinocchio-bambino e la definitiva stasi del suo alter ego ligneo.

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 Nel film di Fellini dedicato a Casanova convivono varie forme di intermedialità, e una pista molto precisa porta a Le avventure di Pinocchio di Collodi. Siamo inizialmente dalle parti di un’intermedialità che chiameremo ‘ristretta’, che apre differenti piste intertestuali e interdiscorsive a partire dalla sceneggiatura (almeno quella scritta da Fellini con Zapponi) fino a giungere al film. Il Casanova di Federico Fellini (1976) sottolinea fin dal titolo una lettura singolare e tendenziosa dei Mémoires di Giacomo Casanova, con i titoli di testa che danno una prima lista di indizi intertestuali, indicando i ‘testi d’autore’ che appaiono nel film. Vi troviamo: stralci dai versi di Andrea Zanzotto per le poesie in veneto e le melodie cantate dalla donna gigante (da Filò); stralci dai versi di Tonino Guerra per ‘La grande Mouna’ (da Cantèda Vintiquàtar); una pièce di Antonio Amurri, La mantide religiosa, interpretata nel film da Daniel Emilfork; una cantata di Carl A. Walken, Il cacciatore di Württemberg; la musica di Nino Rota; infine i disegni di Roland Topor, di cui parleremo.

Come già in sceneggiatura, il film cita direttamente le Rime di Tasso e Il Canzoniere di Petrarca, l’Orlando furioso di Ariosto, ma apre continue allusioni e rimandi a Dante, e soprattutto a Le avventure di Pinocchio. Rispetto alla pista dantesca ricordiamo soltanto, con Brunetta, che «tutta l'opera di Fellini, da quella di sceneggiatore fino agli ultimi progetti non realizzati, si sviluppa sotto il segno di Dante e della Divina Commedia» (Brunetta, 1996, p. 21). Il Giacomo Casanova raccontato da Fellini in effetti entra ed esce da paradisi e inferni, non solo dei poveri ma anche dei ricchi: non è però un Pierrot lunare come in altri film di Fellini, ma un vitalista e un edonista, che ama la bellezza soprattutto femminile (come è noto, in una scena poi censurata del film, ha anche un’avventura omosessuale). Casanova di Fellini è un truffatore e un libertino, che però tiene alla benevolenza papale; un letterato fattosi dal nulla, senza censo né denaro, che cerca occasioni e protettori in un ruolo sociale diventato via via sempre più marginale e umiliante. Sulla stretta relazione tra Casanova e Pinocchio ritorna con insistenza lo stesso Fellini, che definisce il film «la storia di un uomo che non è mai nato, le avventure di uno zombi, una funebre marionetta senza idee personali, sentimenti, punti di vista; un ‘italiano’ imprigionato nel ventre della madre [preso] a fantasticare di una vita che non ha mai veramente vissuto» (Fellini, 1980, p. 176).

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nel 1964, ad un anno dall’uscita della celebre hit musicale La partita di pallone, il nome di Rita Pavone compare tra le pagine del testo Apocalittici e integrati. Umberto Eco sottolinea e analizza il fascino ambiguo esercitato da Rita Pavone, la «prima diva della canzone che non fosse donna; ma non era neppure bambina», una «ragazza che camminava verso il pubblico con l’aria di domandare un gelato, e [dalla cui bocca uscivano] parole di passione» (Eco 2016).

Negli anni in cui la canzone leggera italiana si popola prima di personaggi, e solo in un secondo momento di canzoni, Rita Pavone si afferma immediatamente come idolo dei giovanissimi, mito in grado di incarnare gioie e affanni di un’intera generazione.

«Io non sarò mai una vamp», afferma la cantante torinese nel corso di un’intervista rilasciata a Radiocorriere TV nel 1966, «a ventun anni suonati non arrivo a un metro e mezzo in punta dei piedi. Quarantadue chili con le scarpe, sono tutta un triangolo. Non mi viene una curva neanche per scommessa. Pensi che vergogna: alla Rinascente mi vesto ancora nel reparto bambini!». Sul suo aspetto minuto, sulle sue movenze esagitate e a tratti scomposte, e su quei lineamenti riconducibili a una androginia infantile si è scritto molto, e in tanti si sono cimentati nella ricerca di epiteti che cogliessero appieno l’essenza della cantante.

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  • [Smarginature] Vaghe stelle. Attrici del/nel cinema italiano →

Nota principalmente come cantante, Gabriella Ferri era invece un’artista completa. Donna intensa, irrequieta, profondamente sensibile esprime il suo talento soprattutto nell’interpretazione di canzoni e di sketch brillanti.

Capitolina di nascita (1942), deve al quartiere Testaccio la sua romanità che le darà l’identità artistica. «Il dialetto è la mia lingua» diceva spesso, e difatti non l’abbandonerà mai, rendendolo l’insegna della sua autenticità.

Scopre le canzoni popolari grazie al padre, al quale era profondamente legata, e riesce a dare forma alla sua passione per gli stornelli e la musica folk quando incontra Luisa De Santis, figlia di Giuseppe (regista di Riso Amaro). Insieme danno vita al duo Luisa e Gabriella e vanno a cercare fortuna a Milano dove vengono ribattezzate le Ê»romanineʼ. La fortuna le trova e nel 1964 fanno il loro esordio televisivo nella trasmissione La fiera dei sogni presentata da Mike Bongiorno, cantando La società dei magnaccioni. Nei giorni seguenti all’apparizione televisiva il 45 giri del brano venderà un milione e settecentomila copie. «Non mi piace parlare della mia carriera. È nata per caso e continua per caso», scriverà anni dopo la Ferri. Punto di vista che nel racconto della sua carriera rispettiamo e facciamo nostro, tranne che nell’accendere dei fari sugli incontri tra questa casualità e gli Ê»schermiʼ.

Il primo è il piccolo schermo che, grazie alla suddetta trasmissione di Bongiorno, le dà subito grandissima visibilità. È un mezzo che a malapena ha dieci anni, trasmette le immagini in bianco e nero, ma soprattutto è una vetrina attenta ai giovani.

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Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi di Andrea Pinotti e Antonio Somaini (Einaudi, 2016) contiene una sorta di autorecensione al suo stesso interno. Il volume si apre infatti con le articolate pagine introduttive in cui i due autori non solo spiegano il senso del progetto, ma anche sintetizzano il percorso dei capitoli, in un certo senso svelando, con paragone giallistico, l’assassino prima che venga commesso il delitto. Tale scelta si spiega con la natura didattico-divulgativa del lavoro, che aspira a costituire un viatico il più possibile ordinato e chiaro al dibattito internazionale sulla cultura visuale; sullo sfondo, però, si affaccia un’altra ragione, e cioè che Pinotti e Somaini possano avere ritenuto che fosse necessaria una mappatura supplementare per orientarsi nella ramificatissima messe di dati, nomi e concetti che, non senza qualche episodica ridondanza informativa, danno vita a un volume dal ritmo argomentativo certamente molto elevato.

Più in dettaglio, Cultura visuale si compone di sei densi capitoli tesi a dimostrare che «studiare le immagini e la visione assumendo come punto di riferimento questo concetto significa prendere in esame tutti gli aspetti formali, materiali, tecnologici e sociali che contribuiscono a situare determinate immagini e determinati atti di visione in un contesto culturale ben preciso» (pp. XIII-XIV). Di qui l’esigenza di ricostruire nei primi due capitoli la storia e le aree di un sapere per definizione inter- e transdisciplinare, che ingloba al suo interno tratti teorici, storici, filosofici ma anche riflessioni sull’arte, sulla fotografia, sul cinema, sui mass media, sulla pubblicità, nonché sulla presenza delle immagini nella vita quotidiana. Senza tralasciare il ricco panorama francese, specie in relazione a nomi come Barthes, Foucault, Deleuze, gli autori distinguono poi tra i visual culture studies anglosassoni, di impostazione più culturalista e militante, e la tedesca Bildwissenschaft, più legata alle metodologie storico-artistiche tradizionali, nonostante entrambi gli indirizzi siano fautori delle affini prospettive della pictorial turn (W.J.T. Mitchell) e della iconic turn (Bohem), oltre che di un interesse per l’immagine tout court, al di là del suo status artistico. Dal terzo al quinto capitolo si prendono invece in esame i concetti e percorsi chiave del multiforme orizzonte degli studi sulla cultura visuale, come – solo per nominarne i principali – la differenziazione tra images come entità immateriali e pictures come fenomeni concreti, la distinzione tra la neutra vision e la situata visuality col conseguente dibattitto sulla validità di un approccio storico allo sguardo e alla percezione, i regimi scopici che operano all’interno di una complessiva iconosfera, la riflessione sulla realtà aumentata, il focus sul rapporto tra senso dell’immagine e sua materialità a partire dall’attenzione riservata ai supporti e ai dispositivi, la discussione sul passaggio dall’analogico al digitale, la prospettiva socioculturale sui medium e sui loro variegati rapporti (multimedialità, intermedialità, transmedialità, rimediazione, rilocazione), il rinnovamento degli studi sui mass media alla luce dell’opposizione tra immagini ad alta o bassa definizione. La sesta e ultima sezione è dedicata agli usi sociali delle immagini e differisce dalle precedenti in quanto si sposta sugli oggetti su cui possono essere applicati i metodi presi in esame: dai reperti di archeologia preistorica sino alla diffusione globale di immagini come quelle relative all’attacco terroristico dell’11 settembre e alle torture dei prigionieri ad Abu Ghraib, dall’uso delle immagini sacre già nell’antichità ai recentissimi fenomeni di manipolazione e derealizzazione tramite internet e, in particolare, le piattaforme social.

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Partendo dalla definizione che ne ha dato Walter Benjamin, l’articolo propone un’interpretazione del concetto di aura all’interno della produzione narrativa di Ali Smith, e in particolare nei romanzi Artful (2012) e How To Be Both (2014). Dopo una preliminare riflessione sulla concezione di aura di Bejamin, definendone le caratteristiche e i tratti epistemologici, si passa all’analisi della rappresentazione delle immagini (soprattutto fotografiche e cinematografiche) nei romanzi di Smith. Scopo dell’articolo è quello di dimostrare come le specifiche strategie messe in atto dall’autrice lascino aperta la possibilità di interpretare anche le immagini della contemporaneità in una chiave ‘auratica’. 

Starting from Benjamin’s definition of aura, the purpose of this article is to interpret such a concept in the narrative production of the Scottish writer Ali Smith, in particular in her novels Artful (2012) and How To Be Both (2014). In the first part of the article, I will dwell upon Benjamin’s notion of aura and its epistemological functions. In the second part, I will analyse the representation of the images (especially photographic and cinematic ones) in Smith’s novels in order to demonstrate that the concept of aura is applicable to interpreting contemporary images too.

Secondo la celebre interpretazione di Walter Benjamin, nell’epoca moderna della riproducibilità tecnica l’opera d’arte perderebbe una delle caratteristiche fondanti che l’avevano contraddistinta sino (e poco oltre) l’apparizione della fotografia: l’aura, quell’alone di sacralità e di unicità che aveva reso l’opera d’arte un oggetto cultuale. La possibilità di moltiplicare e di mercificare l’oggetto artistico ne ricondurrebbe la sfera ontologica dal trascendente all’immanente, modificando in maniera ineludibile la percezione e la fruizione da parte di un pubblico sempre più massificato. L’aura sembrerebbe quindi assumere i tratti di un concetto storico, dotato di una sua specificità temporale che ha, come limite ad quem, l’epoca modernista: con l’avvento del cosiddetto postmoderno e della società tardo-capitalistica, quei residui auratici che Benjamin ancora individuava nel dagherrotipo (e che appartengono in qualche modo anche ai primi esiti cinematografici) vengono a cadere in modo evidente non solo per quanto riguarda i meccanismi produttivi, ma anche all’interno delle stesse poetiche di artisti e scrittori, consci ormai dei processi di reificazione in cui sono immersi.

È dunque possibile parlare di aura all’interno della produzione artistica attuale? Questo articolo propone una lettura “eccentrica” di una scrittrice contemporanea, Ali Smith, da molti considerata fra le voci più originali del panorama britannico e non solo e le cui opere sono state spesso interpretate in chiave postmodernista e culturale (secondo prospettive gender, queer, eco-critiche). La lettura qui proposta di alcuni suoi romanzi (in particolare Artful e How To Be Both) mira invece a rintracciare un possibile recupero dell’aura nell’uso che Smith fa delle immagini all’interno del tessuto narrativo. Lontano dal citazionismo ironico e dall’uso ludico della cultura visuale esibito da buona parte della letteratura postmodernista, l’impianto iconografico delle opere di Ali Smith si innesta sulla vita emotiva, psichica dei personaggi all’interno di una configurazione molto spesso luttuosa. Come vedremo, proprio l’insistenza sulla distanza (sia temporale che intermediale, nel restituire sulla pagina scritta la sfera visiva) e sulla dimensione dell’«è stato»[1] delle immagini inserite all’interno della narrazione fa sì che queste ultime acquisiscano agli occhi tanto dei personaggi quanto dei lettori quella dimensione auratica, magica e trascendente che Benjamin aveva identificato nell’era pre-massmediale.

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From January to June 2016, Federica Pich enjoyed sabbatical from her lectureship at the University of Leeds to take up a visiting position at the Courtauld Institute of Art. While resident in London, Federica taught an interdisciplinary MA course on the art and literature of the Italian Renaissance (in collaboration with Scott Nethersole). During that time, she also came across the writings of Michael Squire, who works on the interface between Graeco-Roman visual and literary cultures – and who happened to be based next door on the Strand, in the Department of Classics at King’s College London… As a scholar of the same generation, but trained in different disciplinary, institutional and national frameworks, Michael stood out to Federica as an interesting interlocutor for a conversation on ekphrasis and intermediality. There followed a series of art historical and literary exchanges, parts of which are recorded (in lightly re-worked form) in the present essay. The dialogue came about while Federica was thinking about intermediality and the importance of cross-disciplinary collaboration, and while Michael was working with Courtauld colleagues to organize the 2018 Annual Meeting of the Association of Art Historians (co-hosted by the Courtauld and King’s). No less importantly, the conversation took shape against the bitter nadir of the British European referendum debate – that is, at exactly the time when Britain was raising its isolationist drawbridge and turning its back on European friends. If nothing else, we hope that the following dialogue captures the spirit of a more engaged, outward-looking and pluralist perspective…

 

Federica Pich: I’d like to start our conversation with a quote from Michael Baxandall’s Patterns of Intention (1985: 4): «Past tense and cerebration: what a description will tend to represent best is thought after seeing a picture». I suspect a literary scholar would have been unable to capture the essence of verbal description – the shift that is implied in any attempt to represent a picture into words – as poignantly as this particular art historian does here. It is a question of perspective, of positive displacement – of being able to see more when we step outside the realm of our own discipline. My experience here at the Courtauld has been quite unique in this respect. Besides rekindling my interest in intermediality, conversations with students and colleagues have changed the way I look at pictures and, perhaps more surprisingly, the way I read texts.

It was that same search for new perspectives – facilitated by the chance to spend more time in London’s libraries over the last few months – that first led me to your work, Michael. When I read your article on the epigrams on Myron’s cow (Squire 2010a), for example, and your chapter on ekphrasis for the Oxford Handbooks Online in Classical Studies (Squire 2015b), they both stood out to me as much more intellectually refreshing and helpful than many theoretical contributions I had come across during my own research on ekphrastic poetry in the Italian Renaissance. I felt that your view of the subject could speak effectively to someone with a different expertise – precisely because your thoughts were moving from specific objects and texts, which you analyzed in great depth, while never losing sight of wider issues. This made me wonder how you first got interested in themes of image and text. Was it your interest in individual authors or texts that led you to themes such as ekphrasis and visual poetry, or was it rather the interest in these themes that guided your selection of texts? For that matter, what took you to classical materials in the first place?

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