Ci sono due Pasolini, sostiene Ascanio Celestini in una recente intervista:[1] quello che è stato ammazzato nel ’75, e che fino a quella data ha continuato a esprimersi pubblicamente; poi c’è un secondo Pasolini, con tutto quello che gli facciamo dire noi dal ’75 in avanti. È questo ‘secondo Pasolini’ che il centro universitario DAMSLab – La Soffitta di Bologna, incardinato nel Dipartimento delle Arti, ha convocato lungo il corso del centenario del 2022, attraverso una teoria di eventi multidisciplinari come è sua consuetudine (convegni, incontri, proiezioni, letture, spettacoli fra cinema, arti visive, sociologia, teatro). In questo contributo ci occupiamo, scendendo a ritroso dalla più recente a quella che ha aperto l’anno, di alcune proposte teatrali che sono state capaci di ampliare la portata del ‘secondo Pasolini’ con il precipuo obiettivo di riportare nel presente qualcosa del ‘primo’, pensando in particolare a chi oggi sta crescendo e studiando.

Nella parte finale del 2022 si sono svolti alcuni importanti convegni, come P.P.P. in danza, sull’eredità vivente di Pasolini nella coreografia italiana (13 dicembre, a cura di Elena Cervellati) e Pasolini, l’UNESCO e la marginalità dei luoghi (17-18 novembre, a cura di Matteo Paoletti). Il ricco programma di Pasolini Giornalista, convegno a cura di Gerardo Guccini e Stefano Casi (23-24 ottobre) ha invece interrogato da diverse prospettive disciplinari la dimensione giornalistica nelle opere del poeta. Incastonato fra primo e secondo giorno, Corpo eretico di Marco Baliani è una prova di lettura e oralità: si tratta di una lettera inviata da Baliani a Pasolini, letta in pubblico per la prima volta, così che noi spettatori diveniamo testimoni di una prova d’attore e delle potenzialità della parola scritta in un contesto pubblico. Baliani si presenta con una pila di fogli, ci sono tre blocchetti che leggerà riga per riga, mettendo la pagina appena letta sotto all’ultima, e così fino al termine impilandole in un leggio. Una lettera rivolta a «Pa’» da Marco, giovane delle borgate che stava crescendo nella stessa Roma di Pasolini, una scrittura che è certamente una lettera d’amore inviata a chi gli ha insegnato a guardare il mondo, ma soprattutto è un confronto che sfiora l’invettiva perché Pasolini non aveva voluto capire i giovani di allora, fra i quali c’era anche lui, Marco Baliani.

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«Non ha senso chiedersi se Montale o Zavattini o Pasolini siano veramente dei pittori, è chiaro che non lo sono. È invece interessante vedere quali siano il posto e la funzione della figurazione nel quadro delle loro attività preminenti. Quant’acqua porta al mulino della loro poesia o narrativa, o, magari, cinematografica?».[1] Così scriveva nel 1978 Giulio Carlo Argan nel catalogo della mostra Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975 che, a pochi anni dalla morte dello scrittore, ne riuniva per la prima volta i lavori grafici e pittorici. Oggi, a oltre quarant’anni di distanza, la mostra Pasolini pittore, allestita presso la Galleria d’Arte Moderna di Roma (29 ottobre 2022-16 aprile 2023), a cura di Silvana Cirillo, Claudio Crescentini e Federica Pirani, ha il merito di presentare nuovamente nella sua organicità il percorso compiuto da Pasolini come pittore autodidatta, e parallelamente di ricostruire i legami da lui intessuti con i maggiori artisti e studiosi dei suoi tempi, fra cui emergono con evidenza le figure di Roberto Longhi e di Fabio Mauri.

Di fronte alle pitture e ai disegni del poeta ora esposti negli spazi museali di via Francesco Crispi, prova di un lungo percorso artistico compiuto all’insegna del figurativismo, le domande poste da Argan nel 1978 risultano ancora attualissime, fra tutte: quale ruolo ha assunto l’arte moderna nella definizione dell’immaginario visivo di Pasolini? E perché gli scrittori, per quanto avanzato sia il loro gusto letterario, quando disegnano ostinatamente rifuggono dal non-figurativo? Le spiegazioni date dallo storico dell’arte vanno oltre le vicende che vedono Pasolini prendere una chiara posizione a favore del realismo nello scontro che dal 1948 opponeva i sostenitori di questo indirizzo politico-culturale ai difensori dell’astrattismo. Egli ne fa piuttosto una questione di metodo: il fatto è che, scrive Argan, la ricerca astratta vuole essere fondazione di linguaggio, mentre la grafica e la pittura, così come vengono intese da alcuni scrittori, si pongono come un esercizio utile a restituire consistenza visiva e peso di materia al codice linguistico. Per il critico d’arte, dunque, Pasolini utilizzando il disegno e la pittura con un intento narrativo non può che rivolgersi alla figurazione, funzionale a esplicitare visivamente qualcosa di «già verbalmente (e sia pure mentalmente) descritto».[2] E questo dipingere da poeta, come osservano al contempo Mario De Micheli e il pittore Giuseppe Zigania nello stesso catalogo del 1978, appare con evidenza anche allo spettatore che oggi si addentra nelle sale della mostra. Attraverso un chiaro e lucido allestimento, il percorso espositivo prende avvio da un primo nucleo di dipinti e disegni degli anni Quaranta, radunati attorno al tema della corporeità, propria e altrui. Questo soggetto, affrontato in ambito letterario e cinematografico da Pasolini, appare in questa sede ben messo a fuoco anche attraverso il medium della pittura e della grafica. Segue la presentazione di alcune opere – paesaggi, volti, composizioni – realizzate dall’autore durante il suo soggiorno nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, luogo prima di vacanze estive, poi di rifugio durante gli anni della guerra, e infine residenza fissa del poeta sino al 1950.

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Mamma Roma appare il frutto del contrasto fecondo tra la corporeità, disordinata e ossimorica, di Magnani, in tutte le sue emanazioni – il distendersi delle posture nel gioco d’attrice, le variazioni della voce, dal canto all’urlo alla risata – e la tensione astrattiva di Pier Paolo Pasolini che mira a fissarla in una icona, figura simbolica che rappresenta un’essenza, un assoluto scolpito nel mito e non più vivo nella confusione del reale. Così il film esalta l’attrice nella sua doppia misura performativa: mostra la messa in forma del corpo, di taglio teatrale, nel piano sequenza e mette in luce il lavoro cinematografico dell’attrice nel primo piano.

Mamma Roma appears to be the outcome of the fruitful conflict between Anna Magnani’s corporeality, marked by disorder and excess, in all its forms – the gestures and the voice, screaming, singing, laughing – and the tension towards the abstraction typical of Pier Paolo Pasolini, that tends to freeze the actress as it sees her as an icon or a myth, as opposed to someone alive in the confusion of the real. Therefore, the film enhances Magnani in her double quality as a performer: in the sequence shots it shows the gestures of the entire body typical of her performances on stage, whereas the close-ups put to the foreground her work as a cinematographic actress.

 

1. Scritture

In un passo del 1960 dal titolo Donne di Roma, Pier Paolo Pasolini descrive così la figura di Anna Magnani:

A stagliarsi per primo è il volto dell’attrice, con i contrasti vividi di luce e ombra: gli occhi bistrati di nero si distendono sulla pelle candida come un fazzoletto. Magnani appare bendata, come fosse cieca, una veggente o una profeta: una sorta di idolo. Pasolini vede nell’attrice sì un corpo governato dalla fisiologia (le risate, i piccoli rutti, l’andare al bagno) ma soprattutto una figura ieratica («sta seduta sempre col busto eretto», «come su un palcoscenico»). Magnani è «la pura vita», segno e corpo di una romanità eterna e a-storica (le «generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei»).

A ridosso delle riprese del film, la figura di Anna Magnani torna ad affacciarsi nella scrittura pasoliniana:

 

 

Il brano di Donne di Roma gioca sulla materialità concreta e perfino scatologica per poi aprirsi alla dimensione simbolica (Roma sub specie Magnani). La parola poetica adotta lo stesso passo e lavora per astrazione: riassume per sineddoche il corpo dell’attrice nelle «ciocche» e nelle «occhiaie», e la musicalità quasi scricchiolante dei termini sembra trasformarne il volto, dissolvendolo in un elemento ritmico, battente e ripetuto. Dal canto suo, la dimensione sonora è ossimorica: domina nell’«urlo» che «risuona nelle disperate panoramiche» per acquietarsi subito dopo nelle «occhiaie mute» e culminare nel silenzio sonoro (un canto tanto forte da rendere sordi, dunque impossibile da udire) che chiude l’ekphrasis della celebre sequenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945). Ancora un passaggio dal concreto all’astratto: la voce di Magnani/Pina perde matericità, quasi si stacca dal corpo per assumere una consistenza eterea e distendersi negli spazi senza storia della tragedia, divenendo «canto degli aedi», suono eterno e tuttavia, per paradosso, silenzioso proprio perché assordante.

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Concentrandosi su Salò o le 120 giornate di Sodoma, l’articolo indaga la relazione tra la componente attoriale del film e le riflessioni sulla società e sul potere che Pasolini stava sviluppando in quegli anni. L’analisi della dimensione metafilmica rivela così una specifica attitudine politica, restituendo al contempo la complessità della poetica della recitazione formulata dal regista nel corso del tempo.

By focusing on Salò, o le 120 Giornate di Sodoma (1975), this article investigates the relationship between the actorial dimension and the reflections about society and power that Pasolini was developing right in those years. Thus, the analysis of the self-reflexive component discloses a specific politic attitude, showing at the same time the complex poetics of acting conceived by the director throughout the years.

 

Salò o le 120 giornate di Sodoma costituisce per Pasolini una prima volta sotto tanti punti di vista. E non potrebbe essere altrimenti, dato che il film segna l’inizio di un nuovo corso a seguito della più famosa abiura nella storia del cinema, che con un colpo di penna prende le distanze dalla ‘Trilogia della vita’ degli anni Settanta, ripartendo piuttosto dalla produzione della fine del decennio precedente, Teorema (1968) e in parte Porcile (1969). Come noto, la distanza nasce da un’esigenza poetico-politica dopo il pieno riconoscimento di quella ‘mutazione antropologica’ occorsa in Italia con l’avvento della società dei consumi, al punto da spingere Pasolini a commentare, in riferimento a Salò: «è la prima volta che affronto il mondo moderno in tutto il suo orrore» (Pasolini 2001c, p. 3025). È un orrore, quello del mondo moderno, che travolge tutti gli aspetti del reale, inclusi gli stessi «innocenti corpi» (Pasolini 1999e, p. 600) dei ragazzi di borgata che il regista aveva messo in scena sino a Il fiore delle Mille e una notte (1974). Questo orrore, presumibilmente, non si limita a influenzare la dimensione contenutistica dell’opera, ma è capace di intaccare lo stesso piano dell’espressione filmica: e proprio nella dimensione attoriale dell’ultimo film sembra possibile rinvenire ulteriori tracce di quella riflessione su politica e società che Pasolini stava conducendo.

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Il saggio analizza l’interpretazione di Alida Valli in Edipo re (1967), dove impersona il piccolo ma intenso ruolo di Merope, la madre adottiva del protagonista. Il breve lacerto di film è esplorato sia all’interno della carriera della diva, sia in relazione alle strategie messe a punto da Pier Paolo Pasolini nel lavoro con le attrici e gli attori professionisti.

This essay analyzes the performance offered by Alida Valli in Edipo re (1967), where she plays a small but intense role, that of Merope, foster mother of the main character. The short fragment of the film is explored in the frame of the career of the diva as well as in the light of the strategies defined by Pier Paolo Pasolini in his work with professional performers

Se nel sentire pasoliniano l’immagine materna penetra con profonde radici (cfr. Rizzarelli 2021), in Edipo re, per ragioni forse persino ovvie, essa si intensifica e si addensa, accampandosi subito, a partire dall’incipit, al centro del quadro. Tutto comincia, nel prologo novecentesco, con un mobile sguardo che, abbandonata la fissità della pietra miliare, ove si legge, sibillina, la scritta «Tebe», si avvicina con due tagli di montaggio a un elegante palazzetto e scruta l’interno di una ampia porta-finestra affacciata su un balconcino. Nel primo piano sonoro, dispersa l’eco di una banda paesana e i trilli di un campanello di bicicletta, si odono i canti delle cicale, lo spirare di un vento leggero, i brusii della campagna circostante; intanto, incorniciata nel muto riquadro del vetro, si svolge la scena del parto, con l’agile e misteriosa venuta al mondo del bambino. I fiori sul terrazzo, le ali azzurre delle persiane e il profilo brunito della ringhiera, che ingombra e insieme ingentilisce la veduta, conferiscono alle due brevi inquadrature di questa natività il ricercato lucore di un sigillo cloisonné e, insieme, la bonaria sacralità di un ex voto [fig. 1]. Poco dopo, la sequenza del prato, con l’estasi appagante dell’allattamento e lo scambio di sguardi fra la madre e il figliolino, dice senza bisogno di parole la forza tenera di un legame assoluto ma ambivalente.

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Se agli attori non professionisti e alle figure ricorrenti del cinema di Pasolini è stata dedicata una certa attenzione critica, ancora poco indagato è il ruolo di divi e attori professionisti nella sua opera. Interrogandosi sul professionismo attoriale in Pasolini, il contributo propone un focus sulla recitazione di Ugo Tognazzi nel film Porcile (1969).

If a certain critical attention has been paid to non-professional actors and recurring figures in Pasolini’s cinema, the role of professional stars and actors in his work is still little investigated. By questioning acting professionalism in Pasolini’s cinema, the article focuses on Ugo Tognazzi’s acting in the film Porcile (1969).

 

L’opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini si serve, fin dai suoi esordi, di una modalità peculiare di scelta e messa in scena delle figure attoriali, usufruendo di una singolare mescolanza tra comparse, non professionisti, amici e intellettuali vicini al regista-scrittore, e attori celebri dello star system italiano e internazionale. Se ai corpi della borgata, agli attori non professionisti e alle figure ricorrenti del suo cinema è stata dedicata una certa attenzione critica, ancora poco indagato è il ruolo di divi e attori professionisti nella sua opera, soprattutto dalla fine degli anni Sessanta in poi (cfr. Rigola 2012-2013). Forse i casi più emblematici riguardano Anna Magnani, Orson Welles e Totò, ma tutto il cinema pasoliniano offre un vero e proprio campionario di attori trasversali utilizzati in ruoli differenti, in veste di protagonisti, comprimari, o come semplici meteore all’interno dei film (da Adriana Asti a Femi Benussi, da Alida Valli a Silvana Mangano, passando per Massimo Girotti, Caterina Boratto, Paolo Bonacelli, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia). Interrogare l’incidenza del professionismo attoriale in Pasolini significa a nostro avviso fare i conti con l’assenza di attorialità, o meglio con la subordinazione degli attori allo spirito pasoliniano che fa da sfondo alle pellicole. Nell’attrito tra l’ideologia dell’autore e la performance depotenziata degli attori professionisti risiede probabilmente un nodo euristico ancora tutto da esplorare.

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Franco Franchi e Ciccio Ingrassia sono stati due personaggi alieni e passeggeri, due presenze fugaci all’interno dell’universo pasoliniano. I due comici e il regista hanno lavorato insieme unicamente per la realizzazione dell’episodio Che cosa sono le nuvole? contenuto all’interno del film Capriccio all’italiana (1968). L’episodio rappresenta ancora oggi un’importante testimonianza che immortala l’unico incontro tra i due comici siciliani e Totò, scomparso a due mesi di distanza dalla fine delle riprese. Franco Franchi, in particolare, è una delle presenze più calzanti all’interno dell’episodio pasoliniano. Celebrazione della marionetta, del corpo forgiato, plasmato e addomesticato, Che cosa sono le nuvole? si adatta infatti perfettamente alla comicità fisica di Franchi, al suo corpo ligneo e di gomma al contempo.  

Franco Franchi and Ciccio Ingrassia were two foreign characters, two fleeting presences within Pasolini's universe. The two comedians and the director worked together solely on the making of the episode Che cosa sono le nuvole? included in the movie Capriccio all'italiana (1968). The episode captures the only meeting between the two Sicilian comedians and Totò, who passed away two months after the end of shooting. Franco Franchi is one of the most fitting presences within the Pasolinian episode. Celebration of the puppet universe, of the forged, shaped and domesticated body, Che cosa sono le nuvole? is in fact perfectly suited to Franchi's physical comedy, to his wooden and plastic body at the same time.

 

Che cosa sono le nuvole? esce in sala nel 1968, a più di un anno dalle riprese, all’interno del film a episodi prodotto da Dino De Laurentiis Capriccio all’italiana. Firmato da Pier Paolo Pasolini, che ne cura la regia e la sceneggiatura, l’episodio nasce in un primo momento come parte di un progetto più complesso e articolato che doveva inizialmente portare un titolo dalla eco baziniana, Che cos’è il cinema?, o un più modesto Smandolinate. Con l’idea di replicare l’unione artistica tra Totò e Ninetto Davoli, già sperimentata con Uccellacci e uccellini (1966), il regista intende realizzare una serie di episodi comici accomunati da quell’«ideologia picaresca, la quale, come tutte le cose di pura vitalità, maschera un’ideologia più profonda, che è l’ideologia della morte» (Fofi, Faldini 1981, p. 400). Il progetto pasoliniano verrà rimodulato e in parte assorbito dalle esigenze produttive di De Laurentiis, che inserisce La terra vista dalla luna (1967) e Che cosa sono le nuvole? all’interno di due film a episodi: rispettivamente Le streghe e Capriccio all’italiana.

Dalla «favola sottoproletaria in chiave chapliniana» (Repetto 1998, p. 93), costola di Uccellacci e uccellini, Totò e Ninetto Davoli vengono catapultati nei panni di due marionette sullo sgangherato palcoscenico dell’Otello shakespeariano. Perfetto connubio tra uno «Stradivari e uno zufoletto» (Spila 1999, p. 61), il duo Totò-Davoli è accompagnato da una schiera di attori che appartiene a pieno titolo ad una koiné pasoliniana allargata: dagli attori Laura Betti, Adriana Asti e Mario Cipriani, fino ad arrivare al già citato poeta e amico Francesco Leonetti e al cantante e attore Domenico Modugno. Accanto a queste figure, che a vario titolo e in differente misura hanno intrecciato i propri percorsi con quello dell’autore friulano, vi sono poi due personaggi alieni e passeggeri, due presenze fugaci all’interno dell’universo pasoliniano: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. «È come se Franco e Ciccio fossero sempre due pezzenti, due intrusi in una festa che non li riguarda» (Crespi 2016, p. 216), dice Alberto Crespi descrivendo il percorso artistico del celebre duo comico. La festa esclusiva di cui parla Crespi potrebbe essere il cinema italiano degli anni Sessanta, un cinema che deve molto agli esorbitanti incassi ottenuti da Franchi e Ingrassia – tra il 1960 e il 1969 i loro film guadagnano più di 31 miliardi di lire – ma che si è limitato a spremerne la comicità fino a quando quest’ultima ha soddisfatto il grande pubblico.

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Dopo un breve cameo nella Ricotta (1963), a cui prende parte nelle vesti di una diva, Elsa de’ Giorgi connota l’ultima fase del cinema di Pier Paolo Pasolini, in particolare attraverso l’interpretazione di una delle narratrici in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Oltre a fornire una sintetica ricognizione relativa al rapporto tra l’autore e l’attrice-scrittrice, il contributo focalizza l’attenzione sul personaggio della signora Maggi in Salò cercando di cogliere nella performance attoriale di de’ Giorgi, così come nell’orizzonte divistico convocato nel film, esiti e possibili motivazioni legate alle scelte di casting da parte del poeta-regista.

After a cameo role in La ricotta (1963), in which she takes part as a diva, Elsa de’ Giorgi characterizes the last phase of Pier Paolo Pasolini’s cinema, in particular through the interpretation of one of the narrators in Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975). Besides proposing a synthetic insights about the relationship between the author and the actress-writer, the contribution focuses on the character of signora Maggi in Salò, trying to analyze through de’ Giorgi’s acting, as well as the stardom recalled in the film, outcomes and possible motivations related to the poet-director’s casting choices. 

«Restò sempre legato a Elsa De Giorgi […]. A lei, con una divertita soggezione, dedicava – e la cosa durò anni – alcune serate. Andavano a cena fuori: […] Elsa De Giorgi, che amava stendere attorno a sé un qualche alone di spettacolo […], lasciava che alle labbra le venisse, con una foga insolita, certa cultura classica che amava coltivare. Pier Paolo ascoltava» (Siciliano 2005, p. 233): ricordato dalle parole di Enzo Siciliano, il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Elsa de’ Giorgi rientra fra le amicizie instaurate dallo scrittore nella Roma degli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1963 l’autore coinvolge l’attrice-scrittrice nelle riprese della Ricotta assegnandole – e la scelta non appare casuale – il ruolo di una delle dive che, insieme ai paparazzi, irrompono sul set alla fine dell’episodio, ma le relazioni tra il poeta-regista e de’ Giorgi si riflettono, in parte, anche nelle rispettive attività letterarie. Seguendo infatti i rimbalzi suggeriti dalle loro produzioni narrative, poetiche e saggistiche, si scopre che la diva si è rivolta a Pasolini sul finire degli anni Cinquanta per chiedergli di intercedere con Garzanti per la pubblicazione della sua seconda prova narrativa, L’innocenza, poi uscita nel 1960 per una casa editrice veneziana, Sodalizio del Libro; due anni dopo l’autore scrive una prefazione in forma di lettera al testo poetico dell’attrice La mia eternità e, mettendone in evidenza la pregnante metaforicità, rivolge all’opera di de’ Giorgi un’attenzione critica (cfr. Pasolini 2008a). L’artista, dal canto suo, dedica a Pasolini, dopo la sua morte, il poemetto del 1977 Dicevo di te, Pier Paolo.

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Assumendo come prospettiva d’indagine la musica nel cinema di Pasolini, il contributo ripercorre parte della produzione cinematografica del poeta-regista con l’obiettivo di offrire una chiave di lettura della componente musicale. Film come La ricotta (1963) e Uccellacci e uccellini (1966), oppure documentari come Appunti per un’Orestiade africana (1970), vengono dunque passati in rassegna e osservati attraverso la dialettica che le sequenze visive instaurano con la dimensione orale del regime sonoro.

Focusing on music in Pasolini’s cinema, the contribution retraces part of the film production of the poet-director with the aim of offering an interpretation of the musical component. Movies such as La ricotta (1963) and Uccellacci e uccellini (1966), or documentaries such as Appunti per un’Orestiade africana (1970), are therefore observed through the dialectic that the visual sequences establish with the oral component of the sound dimension.

C’è un elemento di ambiguità nell’uso della musica e della vocalità musicale nel cinema di Pasolini. Come ebbe modo di dichiarare, Pasolini non era un grande esperto di musica, eppure il ruolo che il regime musicale riveste nei suoi film è decisivo, necessario, quasi fosse del tutto connaturato all’immagine stessa. Scrive infatti ne La musica del film: «le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria». È solo la fonte musicale «che non è individuabile sullo schermo, e nasce da un “altrove” fisico per sua natura “profondo”» a sfondare «le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita» (Pasolini 1979, pp. 114-115).

La musica è dunque una componente necessaria e dialettica dell’immagine cinematografica perché le consente di aprirsi alla vita, trasformando il suo rispecchiamento mimetico in un vero e proprio dispositivo totalizzante in grado di dare conto delle componenti noumeniche e fenomeniche del reale. È un aspetto decisivo della poetica pasoliniana che emerge chiaramente dall’uso che il regista fa, per esempio, del repertorio operistico ne La ricotta (1963) e Uccellacci e uccellini (1966). Se in Accattone (1961) e ne Il Vangelo secondo Matteo (1964) la colonna musicale seguiva uno sviluppo interamente orientato verso un’autocoscienza della realtà stessa nell’immagine – si pensi all’uso enfatico e ripetuto della Matthäus passion di Bach in Accattone o della Maurerische Trauermusik di Mozart nella scena della crocifissione del Vangelo –, con La ricotta l’opera lirica entra per la prima volta nel repertorio pasoliniano in chiave interamente dialettica, in funzione di una totalizzazione in cui ciò che l’immagine mostra assume senso proprio a partire dal suo accompagnamento sonoro. È la melodia manipolata e stilizzata di «Sempre libera degg’io» da La traviata di Verdi a commentare beffardamente la corsa tragica all’acquisto della ricotta di Stracci, e poi la scena del banchetto fino alla sua morte sulla croce ne La ricotta [fig. 1]. La ‘libertà’ di Traviata di «folleggiar di gioia in gioia» diventa quella, rovesciata, di Stracci di correre libero nella campagna romana del set del film sulla passione di Cristo. Il brano musicale, in altre parole, costruisce con il visibile dell’immagine un vero e proprio rapporto dialettico, perché ne commenta in modo contrastivo e oppositivo l’azione (il dramma della morte di Stracci) portandola a quel livello di significato che non potrebbe appartenere semplicemente al suo registro visivo.

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