«…veramente da vicino non è che fai così paura».

(Roberto Saviano a Salvatore Esposito)[1]

 

 

Quando Arabeschi ha pensato di dedicare una delle sue “Gallerie” ai dieci anni di Gomorra di Roberto Saviano, è stato subito chiaro che quel «Gomorra» non era il libro [fig. 1]. Certo, il libro era stato il punto di partenza, il gesto rivelatore, l’oggetto da cui far scaturire nuove riflessioni sulle forme narrative dell’impegno, ma Gomorra è un universo, di cui il romanzo è solo uno dei pianeti. I dieci anni di Gomorra, dunque, non vanno intesi come il compleanno di quella prima pubblicazione, ma come un lento e inesorabile percorso di ‘colonizzazione mediale’ che ha portato Roberto Saviano, di volta in volta con ‘truppe’ diverse, a marciare sulla carta stampata, sul cinema, sulla televisione, sul web. E tutti sappiamo quanto sia costata a Saviano questa marcia di continuo equivocata e strumentalizzata [fig. 2].

Senza esagerare, si può dire che Gomorra abbia rappresentato, in questo decennio, una sorta di passaggio obbligato sulla via di un’autocoscienza non solo civile e politica, ma in qualche misura anche mediale. Intendo dire che ha certamente rappresentato uno snodo decisivo nelle pratiche di avvicinamento dell’opinione pubblica ai temi della criminalità organizzata, ma ha altresì rappresentato un’occasione di riflessione sulla forma romanzo, sulla questione del realismo e dell’epica italiana, sulle nuove strade e sulla tradizione del nostro cinema (che è stato per la verità il medium che ha saputo sfruttare meno questa occasione, ne parla qui Emiliano Morreale), sulla serialità televisiva (dove gli effetti invece sono stati dirompenti, ben testimoniati da questa galleria) e infine sul web. A questo riguardo, nell’ultima pagina del romanzo, c’è un passaggio che può valere come indicazione di metodo per chi studia e combatte la camorra e al contempo come rivelazione del più complesso funzionamento dell’universo Gomorra:

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La catena di trasformazioni narrative che ha portato Gomorra di Roberto Saviano a Gomorra - La serie è sufficientemente ampia da indicare un processo culturale in atto nella scrittura audiovisiva industriale italiana. Sostenuta principalmente da un operatore/produttore come Sky, la serializzazione dei prodotti narrativi (cominciata con Romanzo criminale e giunta all’apice proprio con la serie tratta da Saviano), dà i suoi frutti anche presso altri player, da quelli più tradizionali (si pensi alla RAI e al progetto La mafia uccide solo d’estate) a quelli più innovativi (Netflix e l’operazione Suburra).

L’immagine di Ciro e Genny [fig. 1] che, quasi letteralmente, ‘si mangiano la faccia’, funge da esempio simbolico e indicativo della funzione epica seriale. Chi pensa che nel romanzo di Saviano questo elemento fosse poco presente, dimentica che furono proprio quel testo (di cui si è discusso a lungo, chiedendosi se si trattasse di fiction o non fiction) e quello di Giancarlo de Cataldo a far parlare di New Italian Epic al collettivo Wu Ming.

Categoria troppo presto caduta in disuso, e probabilmente osteggiata dal mondo accademico, NIE è stata (ce ne accorgiamo oggi) una intuizione tutt’altro che peregrina, in grado di spiegare non solo come si stavano muovendo alcuni scrittori contemporanei, ma anche poi come si sarebbero trasformate le operazioni creative dell’audiovisivo italiano. Il passaggio attraverso il film di Matteo Garrone, forse l’autore che più ha ‘raffreddato’ la materia narrativa, non ha in alcun modo interrotto la catena testuale che ha infine portato all’epica trascinante di Gomorra - La serie.

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Il saggio focalizza l’attenzione sul recente adattamento del romanzo As I Lay Dying (1930) in quanto primo tentativo cinematografico che mira a ricreare visivamente le peculiarità della scrittura di Faulkner. Un coro di quindici voci compone l’odissea della famiglia Bundren, il cui pellegrinaggio attraverso la mitica Contea di Yoknapatawpha fa da contrappunto al viaggio individuale dei singoli personaggi, espresso dal monologo interiore di ognuno di essi. La moltiplicazione del punto di vista, i continui salti temporali e il flusso di coscienza, nel quale si confondono realtà e sogno, rappresentano una vera e propria sfida per il mondo del cinema, raccolta solo di recente dall’attore e regista James Franco, nell’omonimo film del 2013. Attraverso un puntuale confronto col testo di partenza, il presente contributo analizza le strategie e le tecniche cinematografiche con le quali il regista ha tradotto per il grande schermo gli elementi narrativi del romanzo, in maniera originale e innovativa.

The essay focuses the attention on the recent adaptation of the novel As I Lay Dying (1930), because is the first cinematographic attempt that aims at visually creating the features of Faulkner’s writing. A chorus of fifteen voices composes the Bundren’s odissey, whose peregrination through the fictional County of Yoknapatawpha makes the counterpoint to the individual journey of the singles characters, expressed by various interior monologues. Multiple points of view, continuos time-jumps and stream of consciousness, in which reality and dream are confused, keep challenging the language of cinema. The actor and movie director James Franco accepted this challange in the 2013 film homonymous. Through a detailed comparison between the film and the novel, this paper analyzes strategies and cinematographic techniques exploited by the director to translate the narrative elements of the novel, in an original and innovative way

1. Adattamenti: non solo cinema

Benché non si tratti di un fenomeno moderno, quello degli adattamenti investe oggi i più disparati settori artistici e poiché si tratta di un processo culturale in larga espansione, merita una particolare attenzione nel campo della letteratura comparata.

Siamo circondati da ‘riscritture’: non solo cinema, televisione o teatro, ma anche web series, fumetti, videogiochi e parchi a tema possono essere il prodotto finale di un adattamento. La critica non è sempre unanime nel definire cosa è e cosa non è adattamento, ma la tendenza è spesso quella di considerarlo come un’opera minore o ancillare all’‘originale’, come spesso accade nel caso di film tratti da romanzi. [1]

E quando ad essere adattato sul grande schermo è uno dei romanzi più sperimentali e ambigui del modernismo americano, di certo il confronto è inevitabile; a maggior ragione se l’autore è un Premio Nobel di nome William Faulkner e il regista un eclettico James Franco.

 

2. James Franco e William Faulkner: l’incontro fra due mondi

James Franco non è solo una giovane icona del cinema di Hollywood, ma è un artista poliedrico che vive l’arte in tutte le sue forme. L’attore che nei panni di James Dean (James Dean, di Mark Rydell, 2001) e in quelli di Henry Osborn nella trilogia Spiderman di Sam Raimi (2002-2007) ha conquistato il pubblico internazionale, si alterna infatti fra cinema, teatro e televisione, scrive poesie e short stories, coltiva la passione per la pittura e realizza installazioni di videoarte. Non di minore importanza è la sua passione per la letteratura, che lo ha portato ad affiancare il lavoro sul set con gli studi presso l’Università di Yale, dove consegue il dottorato in Lettere.

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Magistrale opera a due mani realizzata nel 1974 da Louis Malle e Patrick Modiano, Lacombe Lucien, è sunto della poetica di memoria e ombra del romanziere e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente. Anti declamatorio e non argomentativo, costruito sulle azioni puramente istintive di un personaggio che blocca ogni possibile forma di empatia, il film si offre al pubblico in tutta la sua accecante immediatezza visiva e narrativa, ma oppone una sorta di schermatura all’implicazione razionale e sentimentale. Non esiste, però, barriera che non spinga al proprio superamento: l’opacità costitutiva di Lacombe Lucien chiama in causa lo spettatore e il critico. La resistenza che il film oppone alla comprensione è all’origine della nostra indagine: dalla questione della paternità dell’opera al dibattito ideologico sulla moda rétro, l’articolo studia la corrispondenza tra due forme distinte di ‘messa in scena’ dell’opacità e s’interroga sull’ambiguità insita nel recupero testimoniale attraverso il mezzo filmico, per giungere, infine, ad affrontare la questione decisiva dello sguardo cinematografico sull’orrore della storia e sulla responsabilità individuale.

A masterpiece co-created by Louis Malle and Patrick Modiano in 1974, Lacombe Lucien summarizes the novelist’s poetics of memory and shadow, and is an exemplary manifestation of the ways in which cinematic modernity relates to recent history in unexpected and disturbing ways. Avoiding declamatory and argumentative stances, the film is centred on the purely instinctive actions of a character who blocks any possible form of empathy. As such, it offers the public a visual and narrative construct that is blindingly immediate yet also raises a barrier against rational and emotional involvement. However, since all barriers arguably seek to be overcome, the constitutive opacity of Lacombe Lucien challenges spectator and critic alike. The resistance the film opposes to its own understanding constitutes the basis of this essay. Exploring issues from the question of authorship to the ideological debate on retro fashion, it examines the correspondence between two distinct forms of ‘staging’ of opacity, and interrogates the ambiguity inherent in acts of testimonial recovery through film in order to consider the decisive question of the relationship between the cinematic gaze, the horror of history, and individual responsibility.

Belle fonction à assurer, celle d’inquiéteur.

André Gide

 

Frutto della collaborazione tra il romanziere Patrick Modiano e il regista Louis Malle, Lacombe Lucien esce nel 1974, al termine di una complessa fase di gestazione che ha inizio più di dieci anni prima e che giunge a compimento solo con l’intervento tardivo dello scrittore. Nasce da tale incontro una magistrale opera a due mani, che è al contempo sunto della poetica di memoria e ombra del primo Modiano e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente.

Ambientato nella provincia agricola del sud-ovest della Francia nell’estate del 1944, il film, che porta il nome del protagonista, mette in scena la collaborazione con la Gestapo di un contadino diciassettenne privo di consapevolezza politica e l’ambiguo rapporto che il giovane instaura con la famiglia di un sarto ebreo nascosta nel paese. Se il personaggio principale, la storia narrata e il contesto storico rappresentato fanno appello, nel loro insieme, all’adozione di un ‘punto di vista’ ideologico, sembrano, cioè, domandare al regista e allo sceneggiatore di relazionarsi in modo chiaro al passato recente, il film, nella sua forma compiuta, non risponde a tali richieste, o perlomeno non nel modo atteso. Non assertivo, né argomentativo, Lacombe Lucien svela brutalmente frammenti di una realtà storica scomoda e difficile da assumere, quale la partecipazione ‘dal basso’ alle azioni repressive dell’occupante, ma evita la formulazione esplicita di un giudizio etico e politico sui fatti narrati. Si discosta, dunque, dalla retorica verbosa delle forme più convenzionali di un cinema di denuncia – rassicuranti poiché invitano a un mutuo riconoscersi nell’indignazione e nella rivolta – e resta un’opera oscura, a tratti irritante. La pellicola recupera il passato con dovizia documentaria, eppure tace l’essenziale. Blocca il fremito emozionale dei volti, riduce la parola e la sottomette ai fatti, non esplicita la ragione delle cose e la realtà psicologica che la sottende, non motiva gli atti individuali e le vicende collettive. Nessuna fede ideologica guida i protagonisti, vittime consenzienti o istintivi carnefici di una fatalità storica incarnata in una gomma bucata o in un orologio rubato.

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La tessitura visiva (grazie soprattutto alla fotografia di Edward Lackman), la ricerca della perfezione estetica di ogni inquadratura, l’insistenza sulle sfumature cromatiche degli anni Cinquanta – da alcuni giudicate eccessive, al limite di una freddezza patinata – rispondono invece alla poetica cinematografica del regista, il quale con estrema coerenza ha voluto recuperare e ricostruire meticolosamente un contesto storico e culturale all’interno del quale la storia narrata assume un valore molto preciso (e non certo scindibile da tale contesto). E del resto Todd Haynes ha più volte dichiarato che l’intento di ogni suo film è quello di «aprire la finestra verso un altro mondo e chiedere allo spettatore di entrare in quel mondo».

Il romanzo di Patricia Highsmith (The Price of Salt, 1952, pubblicato con lo pseudonimo di Claire Morgan), da cui è tratto Carol, sembra scelto prima di tutto in funzione di questa poetica. Come già in Far from Heaven (2002), anche qui Haynes ambienta una storia omosessuale nel passato, forse perché da una certa distanza è più facile scorgere i riflessi del presente, segnalarne le storture e riconoscerne i retaggi.

Rispetto al testo di partenza, la sceneggiatura di Phyllis Nagy opera alcune ‘infrazioni’ interessanti comprensibili probabilmente in una prospettiva più spiccatamente visiva. Si tratta in primo luogo dello spostamento del baricentro narrativo: il romanzo di Therese, e la sua Bildung, che rappresenta l’asse attorno a cui si sviluppa il racconto di Highsmith, si trasformano nella love story di Carol e Therese. Si tratta di un ‘tradimento’ più apparente che reale perché, se è vero che non possiamo seguire come nel romanzo l’educazione sentimentale di Therese attraverso la narrazione dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, quel che Haynes mette a fuoco nel film è la storia dell’evoluzione del suo sguardo. I filtri che velano di continuo le inquadrature della vita per le strade di New York, cioè le vetrine e i finestrini attraverso cui la realtà viene mostrata soltanto per frammenti, sono la traduzione dello sguardo sul mondo della protagonista, che già nel romanzo si ritrova più volte a guardare fuori attraverso questi opachi dispositivi della visione. Si direbbe anzi che gli occhi di Therese nel racconto di Highsmith scrutino la realtà sempre attraverso la mediazione di uno schermo: a volte il vetro di una finestra, altre volte il filtro di un dipinto. In più di un’occasione l’oggetto della sua visione viene descritto attraverso una citazione figurativa: «il volto oblungo di Phil sotto i capelli cortissimi» la fa pensare a «un El Greco»; «la bellezza di Carol» la colpisce «come se avesse dato uno sguardo alla Vittoria Alata di Samotracia»; la vista attraverso la vetrina dei magazzini Frankeberg le evoca un quadro di Mondrian; il panorama osservato dalla finestra dell’albergo di Chicago le ricorda una veduta di Pisarro. A metà del viaggio che le due donne compiono insieme, Carol rimprovera Therese proprio per questo sistema ‘mediato’, «di seconda mano», di guardare la realtà: «tu preferisci le cose riflesse su uno specchio, vero?» – le chiede, quasi a sfidarla e a incoraggiarne un possibile cambiamento di prospettiva. Nelle pagine del romanzo, e nelle sequenze del film, Carol diventa per Therese l’oggetto perturbante che innesca la rivoluzione del suo sguardo, educando i suoi occhi a posarsi direttamente su cose e persone, insegnandole a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla realizzazione del suo desiderio. Ecco perché, dopotutto, il film di Haynes è molto più fedele (ammesso che ciò sia poi così importante!) al romanzo di quanto non possa sembrare a prima vista. L’inquadratura della grata che segna l’incipit di Carol suggerisce sin dall’inizio la centralità della condizione visiva e, per certi versi, funziona come l’assunzione del punto di vista di Therese, la cui evoluzione e le cui difficoltà esistenziali vengono raccontate proprio attraverso il raffinato sistema di tropi visuali che, in modo molto evidente, il regista dissemina nella trama filmica.

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Adattare al cinema una raccolta di fiabe, novelle o racconti è un’operazione complessa, soprattutto se si vuole evitare la scansione comoda e un po’ convenzionale del film a episodi. Assieme a un team di scrittori e sceneggiatori esperti (Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso), Garrone ha scelto di intrecciare e alternare fra di loro tre fiabe appartenenti tutte alla prima giornata del Cunto di Basile, La cerva fatata, La pulce, La vecchia scorticata; un’operazione simile a quella che Altman ha fatto a suo tempo con i racconti di Carver, anche se meno sistematica che in Short Cuts. La scelta più felice è stata senz’altro limitare a tre il numero di fiabe prescelte, espandendole con dettagli e sfumature psicologiche, che alimentano una sorta di ‘realismo fiabesco’. Si è evitato così l’effetto di affresco, presentando invece tre percorsi accomunati da una poetica della metamorfosi e dell’identità instabile esposta all’inizio del film dal personaggio del negromante; una poetica che spiega fra l’altro la consonanza fra il barocco e la nostra epoca di cui si è fin troppo parlato. Facciamo un esempio. La prima fiaba, La cerva fatata, contiene il tema del doppio, nella specifica variante del sosia del sovrano, cioè di una somiglianza eccezionale che lega due personaggi appartenenti a strati sociali opposti; una variante che incrina l’assolutezza del potere e che dal teatro barocco spagnolo giunge fino al Principe e il povero di Twain, o a Kagemusha di Kurosawa. Nella fiaba di Basile i due ragazzi, Fonzo e Cannarolo, sono identici perché concepiti grazie al cuore di un mostro marino mangiato dalla madre del primo, la regina di Lungapergola, e cucinato dalla damigella madre del secondo, sulla scorta di un motivo antropologico di lunga durata presente in varie novelle e in alcuni libretti d’opera (da leggere il saggio di Mariella di Maio, Il cuore mangiato: storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini e Associati, 1996). La rilettura di Garrone amplifica sia la gelosia persecutoria della regina, sia il legame affettivo fra i due doppi (qui si chiamano Elias e Jonah), legame fortemente contrastato per motivi sociali, dato che il sosia del principe è figlio di un’umile serva (in Basile invece sono entrambi aristocratici: Canneloro alla fine diventa anche lui re). Garrone e i suoi sceneggiatori aggiungono inoltre elementi di conflitto che rientrano in una visione del mondo basata sulla compensazione fra nascita e morte, come spiega più volte il negromante. Troviamo perciò due cambiamenti significativi nell’intreccio: a differenza che in Basile, nel film il re muore dopo aver catturato il mostro marino, che gli infligge un ultimo colpo di coda. Per tentare di eliminare il sosia, anche la regina muore, trasformatasi in un terribile mostro ctonio ucciso dal figlio ignaro, in un finale di grande effetto. Quella che in Basile era una narrazione rapida e pragmatica, dal sapore popolare (soprattutto nel particolare degli oggetti che ‘partoriscono’ altri oggetti assieme alle due donne), diventa in Garrone un dramma ricco di passioni estreme e di violenza primordiale, che culmina nell’uccisione della madre castratrice.

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L’articolo riguarda l’esordio cinematografico del regista franco-canadese Robert Lepage e si focalizza sulla forma particolare in cui è strutturato. Le confessionnal (1995), questo il titolo, si svolge su due piani temporali, uno dei quali rievoca il periodo in cui Hitchcock stava girando I Confess (1953) a Québec City. A questa rievocazione si affianca, interagendovi, la narrazione di eventi semi-biografici relativi alla famiglia del protagonista del film, Pierre Lamontaigne, che torna nella città nel 1989, in occasione della morte del padre. Quella del padre è una figura che il film rielabora anche in chiave cinematografica e autoriflessiva, sia nel doppio che copre il ruolo del regista di I Confess sia nel film di Hitchcock che diventa testo di rilettura attraverso l’innesto con la storia privata. Nel risultato l’articolo riscontra una nuova tipologia di adattamento cinematografico.

The essay is about Robert Lepage’s cinematographic debut  in a peculiar film, called The Confessional (1995) where he shows the dramatic interplay between two different sets of time. The former is in the year when Hitchcock was shooting I Confess in Québec City. Lepage uses the same chronological frame to tell the story of a family trouble that somehow dovetails the Hitchcock film, while the present time is represented by Pierre’s coming back to the city on occasion of his father’s death. The father figure is tackled also in selfreflexive ways in the film as Hitchcock’s double stands as a model for Lepage as director and also as Hitchcock’s movie becomes itself a text to be rewritten through the agency of the family’s plot. In the essay I tried to outline in The Confessional a diiferent kind of film adaptation. 

 

Siamo entrati, insieme agli altri spettatori finzionalmente reali, in una sala cinematografica, dove sta per iniziare la proiezione di un film di Hitchcock. Scorrono i titoli d’inizio e scopriamo che si tratta di I confess di Alfred Hitchcock, presentato in prima assoluta al pubblico della città dove è stato girato, Québec City, nel 1953. La macchina da presa ci presenta, più da vicino, tre personaggi, di cui due saranno poi al centro delle vicende narrate, intessute su due diversi piani temporali, che s’intersecano continuamente nel corso del film; non dobbiamo aspettare per capirlo, ne troviamo subito traccia audiovisiva nella scena che sto descrivendo. Dopo aver ripreso l’ingresso nel cinema della folla, visibilmente eccitata per la mondanità dell’occasione, insieme a Hitchcock, la macchina da presa entra in sala quando stanno scorrendo i titoli d’inizio del film e scende tra le file del pubblico fino a inquadrare più da vicino due donne, su indicazione della voce fuori campo che le presenta come zia e madre, quest’ultima incinta. Siamo chiamati, così, a testimonianza di questo battesimo cinematografico che tanta influenza ha nella ricomposizione dei ricordi di Pierre Lamontagne, protagonista del film, e altrettanta sulla prima scrittura cinematografica del regista, Robert Lepage, in una chiave reciprocamente autobiografica.

Per il suo esordio nel cinema, Robert Lepage, all’epoca – siamo nel 1995 – già affermato autore e regista di teatro nel panorama quebecchese, con produzioni soprattutto in lingua francese, sceglie Hitchcock come nume tutelare. Le confessionnal, questo il titolo dell’opera prima, si apre con un omaggio citazionistico al film di Hitchcock, che, tanto per la sua posizione quanto per l’elaboratezza della cornice che l’ospita, fa presumere un rapporto più complesso e approfondito fra i due testi.

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