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Il contributo analizza la trasposizione filmica animata di Pino Zac del 1970 dell’omonimo romanzo di Italo Calvino, Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959). Il lungometraggio, caratterizzato dall’uso dell’animazione in tecnica mista (usando cioè disegni, immagini derivate e attori reali), riflette contenuti e approcci alla creatività fantastica di Calvino ampliandone soprattutto il portato visuale. Attraverso il lavoro sui passaggi dalla cornice alla materia del racconto in particolare, accentuando il ruolo critico della personaggia-narratrice suor Teodora (la cavaliera Bradamante), l’uso di differenti materie espressive, delle riprese e del montaggio contribuiscono a un’espansione della lettura di genere dell’opera, adattata al mutato contesto storico-culturale.

The contribution examines Pino Zac's 1970 animated film adaptation of Italo Calvino's novel of the same title, Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959). The feature film, characterised by the use of animation in mixed technique (i.e. using drawings, derived images and real actors), reflects the contents and approaches to Calvino's fantastic creativity, especially by expanding its visual scope. Through the work on the transitions from the narrative frame to the subject matter of the story in particular, emphasising the critical role of the character/narrator Sister Theodora (the knightess Bradamante), the use of different expressive materials, filming and editing contribute to an expansion of the genre reading of the work, adapted to the changed historical and cultural context.

Nel 1970 il regista e sceneggiatore Pino Zac (insieme a Tommaso Chiaretti) scelse di adattare il romanzo di Italo Calvino Il cavaliere inesistente (Einaudi, 1959) nella forma di un lungometraggio caratterizzato dall’animazione in tecnica mista, ossia dall’impiego di attori reali, disegni e un insieme di immagini derivate riutilizzate creativamente. La storia narrata da una ‘finta’ suor Teodora è ambientata al tempo di Carlo Magno e dei Paladini e ruota intorno al tentativo del disciplinatissimo Agilulfo, un’entità intangibile contenuta in un’armatura, di far riconoscere il proprio ruolo di cavaliere, essendo stato accusato di essere un usurpatore a causa del dubbio status di Sofronia, la donna da lui salvata. Per dimostrare il proprio onore Agilulfo parte alla ricerca di Sofronia, accompagnato da altri personaggi: l’accusatore Torrismondo, la guerriera Bradamante (innamorata di Agilulfo), Rambaldo (innamorato di Bradamante) e Gurdulù (uno scudiero un po’ pazzoide). Nel finale, la narratrice si rivelerà nelle vesti di Bradamante e accoglierà l’amore verso Rambaldo, inizialmente rifiutato.

L’opera di Pino Zac ricalca quasi pedissequamente l’intreccio e i dialoghi del romanzo calviniano, al punto da aver ricevuto delle critiche per l’eccessiva aderenza al testo sorgente.[1] Lo stesso Calvino, che vide il film soltanto quando fu terminato, dichiarò di essersi sentito spettatore più che «autore […] per la fedeltà totale e alla lettera degli episodi e dello spirito».[2] Lo scrittore, tuttavia, riconobbe che la tecnica mista adoperata da Zac, con riprese dal vero e l’animazione di disegni, dipinti e vari materiali figurativi, aveva contribuito a definire una rilettura personale. «Nello stesso tempo [aggiunse Calvino] è una sua interpretazione visuale. Non soltanto dei personaggi, delle situazioni e degli ambienti ma anche di tutte le associazioni che il testo comporta».[3]

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Nel 1983 Francesco (Citto) Maselli traspone per la Rai il racconto di Italo Calvino L’avventura di un fotografo. In questo saggio analizzo i modi e il linguaggio filmico con cui Maselli rielabora il tema e lo stile di Calvino; attraverso una interpretazione benjaminiana del racconto, cerco di mostrare come il film sia costruito su tre dominanti: l’aspetto metapoetico e metacinematografico, il ruolo centrale dei mezzi di riproduzione del reale, e la problematizzazione del discorso erotico.

In 1983, Francesco (Citto) Maselli adapted Italo Calvino’s short story L’avventura di un fotografo for Italian TV network RAI. This essay examines Maselli’s approach and cinematic language in reinterpreting Calvino's themes and style. Employing a Benjaminian interpretation of the story, I explore how the film is constructed around three key elements: the metapoetic and metacinematographic aspects, the central role of reality's means of reproduction, and the problematization of erotic discourse.

1. Benjamin, o dell’avventura

Gli amori difficili sembra essere il libro di Calvino più amato dai registi: nel corpus, in verità assai smilzo se rapportato alla produzione dell’autore e al suo successo internazionale, degli adattamenti cinematografici la maggior parte proviene da questa raccolta: nel 1962 Mario Monicelli trasporta L’avventura dei due sposi nel primo dei quattro episodi di Boccaccio ’70 (vale a dire Renzo e Luciana); l’anno dopo Nino Manfredi gira L’avventura di un soldato (sempre come episodio, questa volta de L’amore difficile); nel 1973 per la televisione tedesca (la ZDF) Carlo di Carlo realizza dall’Avventura di un lettore l’Abenteuer eines lesers; in Messico, dieci anni dopo, Ana Luisa Liguori gira il cortometraggio Amores dificiles.

Infine, nella tarda serata di sabato 9 aprile 1983, la Terza Rete Rai, all’interno del ciclo 10 registi italiani, 10 racconti italiani, manda in onda Avventura di un fotografo, girato, scritto e montato da Francesco (Citto) Maselli. È un lungometraggio particolare, forse fra i più singolari di Maselli (certamente il più interessante fra le trasposizioni degli Amori), e molto distante dal formato dello sceneggiato televisivo tratto da un’opera letteraria: si tratta di un film quasi muto, in cui alle parole molto più spesso si sostituiscono leitmotiv musicali e primissimi piani e l’azione si sfilaccia nella stasi dei personaggi chiusi all’interno di un ambiente domestico. Non è la prima volta che Maselli si confronta con un adattamento, già nel 1963 aveva portato sullo schermo Gli indifferenti di Moravia, nel 1980 realizza quattro puntate televisive da Tre operai di Carlo Bernari e proseguirà con Il compagno di Pavese nel 1998. Esperienze che fanno ben presto maturare nel regista la consapevolezza che «realizzare per immagini un testo letterario è evidentemente scrivere un altro testo»,[1] e in particolare quando si ha a che fare con un racconto così poco narrativo (tanto che nasce, a sua volta, come trasposizione del saggio del 1955, La follia nel mirino).[2] Non a caso le strategie messe a punto tre anni prima con Tre operai, nel caso di Calvino, vengono rovesciate: qui Maselli «tramuta i limiti del piccolo schermo in un’occasione per imbastire un racconto incentrato preminentemente sul materiale plastico e su apparecchiature meccaniche, che contendono ai personaggi in carne e ossa il primato».[3] Il racconto di Calvino, infatti, nella forma di una quête conoscitiva non fa altro che mettere alla prova (questo è il senso proprio dell’avventura del titolo) una serie di possibilità (tutte destinate al fallimento fino all’ultima paradossale soluzione) per catturare e conoscere la realtà attraverso la fotografia e, di conseguenza, per «rappresentare, razionalizzandola, la separazione dal reale che costituisce il nucleo tematico della raccolta e di ogni singola “avventura”».[4] La soluzione a questa «questione di metodo»,[5] com’è noto, è fotografare altre fotografie: ma non si tratta di una mise en abyme o di un approdo alla follia del personaggio, come pure spesso è stato detto. È la scoperta, piuttosto, di un metodo combinatorio che si basa sulla casualità (il caso, d’altronde, è uno degli elementi principali dell’avventura), e sull’accostamento di «un mucchio di frammenti d’immagini private, sullo sfondo sgualcito delle stragi e delle incoronazioni».[6] Quella che scopre Antonino Paraggi, il protagonista del racconto, dunque, è una forma di rappresentazione che si basa, se vogliamo, sull’utilizzo di materiali di secondo grado, che vengono rifunzionalizzati attraverso il montaggio dotandosi, così, anche di una funzione sociale (o etico-politica), in grado di unire i destini individuali a quelli generali. La scoperta di Antonino, insomma, è quella dell’allegoria del Dramma barocco e dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin.

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Palookaville (1995) è il lungometraggio d’esordio di Alan Taylor. Il film integra tre racconti di Italo Calvino in una trama più estesa, in cui l’asse geografico e tematico di attanti, luoghi e situazioni viene traslato dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta. Ne deriva un’operazione traduttiva non lineare, che da una parte mantiene lo spirito originale dei racconti, dall’altra lo contamina attingendo a un ampio bacino di riferimenti e citazioni tipici del cinema postmoderno, dando vita a una brillante e disillusa narrazione sulla fine del sogno americano.

Palookaville (1995) is Alan Taylor's debut feature film. It integrates three short stories by Italo Calvino into a larger plot, where the geographical and thematic axes of actors, places and situations shift from post World War II Italy to the American suburbs of the 1990s. The result is a non-linear translation operation, which on the one side keeps the original spirit of the short stories, and on the other mixes it with elements typical of post-modern cinema, resulting in a brilliant and disechanted portrayal of the end of the American Dream.

1. «With thanks, admiration and apologize to Italo Calvino»

Dall’opera di Italo Calvino emerge una non comune sensibilità per il rapporto tra parole e immagini. La sua indagine – iniziata in forma narrativa con La giornata di uno scrutatore (1953) e L’avventura di un fotografo (1955), proseguita negli scritti sul cinema[1] e culminata nella quarta delle Lezioni americane, sulla visibilità – anticipa questioni che saranno affrontate nei decenni successivi dagli studi sulla cultura visuale. La predisposizione di Calvino a interrogarsi sui problemi dello sguardo trova un sintomo precoce negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, con la scoperta del cinema hollywoodiano, unico nutrimento per il «bisogno di evasione, di proiezione, di fuga dal caos privo di senso del proprio universo quotidiano».[2] Il cinema è uno stimolo costante per un autore che vive d’immagini e d’immaginazione, tanto da diventare, come scrive Maria Rizzarelli, quel macchinario in grado di moltiplicare all’infinito i «dispositivi del racconto sui quali si arrovellerà la sua fantasia di scrittore maturo».[3]

Non è un mistero quanto Calvino abbia tratto ispirazione dal cinema; eppure, desta una certa sorpresa scoprire che solamente un esiguo numero delle sue opere abbia percorso la strada inversa, migrando sullo schermo. In sinergia con gli altri contributi raccolti in questo numero di «Arabeschi», si cercherà di delineare il panorama di tali adattamenti e di coglierne le peculiarità. In Italia, oltre a L’avventura di un soldato – capitolo diretto da Nino Manfredi all’interno del film a episodi L’amore difficile (1963) – si annoverano Il cavaliere inesistente (1970) di Pino Zac; il Marcovaldo (1970) a puntate di Giuseppe Bennati; e l’Avventura di un fotografo (1983) diretto da Citto Maselli. Se da una parte vi sono trasposizioni esplicite e dichiarate – che riprendono integralmente le opere di Calvino – dall’altra vi sono casi in cui il processo traduttivo va oltre schemi e formule consuete. Palookaville (1995) di Alan Taylor è uno di questi. Frutto della collaborazione con il produttore Uberto Pasolini, l’opera prima del regista statunitense prende le mosse da tre diversi racconti calviniani: Furto in una pasticceria, L’avventura di un bandito e Desiderio in novembre, inseriti all’interno di una trama più estesa e unitaria, che trasla l’asse geografico di attanti e situazioni dall’Italia del secondo dopoguerra alla periferia americana degli anni Novanta.

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Il presente contributo si propone di analizzare la qualità che assume lo spazio scenico nella ricerca a teatro di Chiara Guidi in relazione al racconto e allo sguardo dello spettatore, soffermandosi in particolare sull’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019). La sua pratica scenica, da lei stessa denominata “Teatro infantile”, sin dagli anni Novanta si caratterizza per diverse forme di costruzione della scena in grado di accogliere oltre all’incedere della storia anche quello degli spettatori. A una prima parte, in cui si delineano alcuni elementi che contraddistinguono la visione dei suoi allestimenti teatrali, segue l’analisi della riscrittura della tragedia di Sofocle in veste di fiaba. L’eroe sbarca in un territorio inabissato, mondo del sottoterra che lo sottopone a una prova di abilità e di conoscenza di sé stesso

The contribution aims to analyze the quality that the stage space assumes in Chiara Guidi’s theater research in relation to the story and the spectator’s gaze, focusing in particular on the latest work, Edipo. Una fiaba di magia (2019). Her stage practice, which she herself called “Teatro infantile”, has been characterized since the 1990s by different forms of construction of the stage capable of accommodating, in addition to the progress of history, also that of spectators. The first part, in which some traces that distinguish the theatrical productions of the past are outlined, is followed by the analysis of the rewriting of Sofocle’s tragedy as a fairy tale. The hero lands in an abyssed territory, an underground world that subjects him to a test of skill and knowledge of himself.

 

 

Dal 2006 Chiara Guidi, fondatrice con Romeo e Claudia Castellucci e con Paolo Guidi della Socìetas Raffaello Sanzio, oggi Socìetas, si dedica da sola a un percorso di ricerca sull’infanzia sia attraverso la creazione di spettacoli teatrali sia incontrando personalmente adolescenti, educatori, educatrici e genitori all’interno di attività di formazione, corsi di aggiornamento e, a Cesena, nelle giornate di puericultura teatrale nell’ambito di Puerilia.

Chiara Guidi porta avanti un’indagine concepita, pensata e scritta con in mente l’infanzia e i suoi lavori danno voce a una domanda piuttosto che a una sentenza finale che interessa tanto i bambini quanto gli adulti. Ai più grandi è infatti concessa una visione della scena soltanto se essi sono disposti a lasciarsi andare e affinare lo sguardo, mimando la plasticità e la destrezza di visione dei piccoli spettatori in prima fila, letteralmente immersi nella situazione rappresentata.

Sin dagli esordi un numero significativo di lavori, aperti alla presenza chiassosa e divaricante dei bambini, è dedicato alla ricezione dell’antico e alla polisemia dei miti, portando alla luce ciò che ancora essi sono capaci di raccontare. E dato che «i miti non hanno già sempre quel significato che viene loro conferito»[2] e aumentano il loro potere a seconda della forma in cui ciascuno di noi li include, i materiali di provenienza mitica vengono ridisegnati da Guidi, per la scena, attraverso la lente della fiaba, portatrice anch’essa di un enigma impenetrabile e di una crudeltà che assorbe il senso del tragico. «Così le fatiche di Ercole valgono quindi quelle di Pollicino o di Pinocchio»,[3] si legge nella scheda dello spettacolo Le fatiche di Ercole. Se nella maggior parte dei casi gli allestimenti di tutti i suoi lavori puntano alla costruzione di un’architettura del racconto espansa nello spazio e da attraversare a piedi, nell’ultimo lavoro, Edipo. Una fiaba di magia (2019), le vicende sono tutte contenute all’interno della scatola scenica. Prima di mettere a fuoco alcuni elementi che contraddistinguono quest’ultima opera, possiamo soffermarci brevemente sulla visione inedita a cui si sottopone lo spettatore durante i suoi spettacoli.

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La seconda prova cinematografica di Emma Dante prende le mosse dall'omonimo spettacolo ma la drammaturgia dei corpi e degli spazi vira subito verso una dimensione intimamente cinematografica, affidata a millimetriche transizioni temporali e a un intenso gioco performativo che vede coinvolte dodici interpreti, sensibili a una serrata grammatica di movimenti. La lettura che qui si propone mira a recuperare la matrice del dispositivo sororale e la dimensione 'materiale', organica della trama visuale, esposta ai danni della luce e del tempo.

Emma Dante's second direction test is derived from the show of the same name, but the dramaturgy of bodies and space quickly shifts towards a quintessentially cinematographic dimension, made of instant temporal transitions and an intense acting game with 12 performers who follow a fast-paced grammar of movement. The interpretation proposed here is an attempt to retrace the scheme of the sorority  theme and the material, organic dimension of the visual plot, exposed to the damages of light and time

 

 

«Non ci si dice molto perché

non c’è molto da dire, ogni

volta

è come se ci inseguisse

qualcosa».

Riccardo Frolloni, Materiali II

 

 

La scrittura franta di Riccardo Frolloni può essere la giusta porta d’accesso alla geografia emotiva e fisica de Le sorelle Macaluso, seconda prova cinematografica di Emma Dante che, dopo il debutto veneziano, ha appena conquistato cinque prestigiosi Nastri d’argento. Entrare dentro gli spazi di questo film attraverso la lente di Frolloni significa fare innanzitutto i conti con il perimetro degli interni, continuamente esposti a epifanie d’altrove: un verso della lirica Materiali I – «la casa era prima di terra e poi / d’aria»[1] – consente di inquadrare con un solo movimento quella che a tutti gli effetti sembra essere la promessa su cui si fonda la riscrittura per immagini della pièce, ovvero la possibilità che le protagoniste possano davvero trasformarsi in «uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri».[2] La dimensione del lutto, a cui si accompagna una comunità di affetti e ricordanze fra vivi e morti, appartiene del resto al codice drammaturgico di Dante da sempre, per un’intrinseca vocazione al tragico mitigata a tratti da una controspinta umoristica, secondo un principio di contraddizione che insiste irrimediabilmente in quella lancinante ‘terra di teatro’ che è la Sicilia. Ereditando il sangue e gli spasmi di una imagery intimamente isolana, Dante attribuisce alle sue figure, e in particolare alle sorelle Macaluso,[3] un’ansia di assoluto che confligge con gli umori terragni, con la cupa violenza di ogni liturgia familiare, e così al centro dell’azione performativa si ritrova spesso lo scarto tra la furia del vivere e la disperazione del morire.

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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

 

Il racconto La Barbe Bleue di Ch. Perrault (1697, pp. 57-82) approdò in Russia nella seconda metà del XVIII secolo con la traduzione Skazka o nekotorom čeloveke s sinej borodoj di L. Voinov (Skazki o volšebnicach, s nravoučenijami, 1768). Il soggetto si diffuse nei teatri dalla prima decade del XIX secolo per il tramite dell’opera comica Raoul Barbe-Bleue di M-J. Sedaine e A. Grétry (messa per la prima volta in scena a Parigi nel 1789), che fu rappresentata a San Pietroburgo nel 1815, 1817 е 1821, e variamente arrangiata sulle scene (cfr. Arapov 1861, pp. 235, 253, 310).[1] Il tema fu riacquisito dalla tradizione folclorica a partire dagli anni Venti del XIX secolo, con la comparsa, fra gli altri, dell’adattamento Raul’ sinjaja boroda di V. A. Žukovskij (Detskie skazki, 1826; Žukovskij 2016, pp. 99-106). La versione favolistica conobbe nuova fortuna negli anni Sessanta del XIX secolo, quando A.P. Zontag (Juškova) fece ristampare a suo nome, con il titolo Volšebnye skazki dlja detej pervogо vozrasta (1862, 1867), la raccolta di Žukovskij, l’editore francese J. Hetzel commissionò a I.S. Turgenev la realizzazione dell’opera Volšebnye skazki Perro illustrata da G. Doré (1866), e il racconto di Perrault fu nuovamente edito in forma non adattata (1868). Il volume di Zontag fu ristampato ancora nel 1871. Un’ulteriore versione russa non adattata comparve nel 1894.

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  • Arabeschi n. 15→
  • Incontro con Fanny & Alexander →
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Da sempre vicini al mondo della letteratura, Chiara Lagani e Luigi De Angelis, fondatori della compagnia Fanny & Alexander, dal 2017 al 2019 hanno realizzato il progetto drammaturgico Storia di un’amicizia tratto dal ciclo di romanzi di Elena Ferrante L’amica geniale. Il presente saggio propone uno studio critico dei tre spettacoli che compongono il progetto: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta. Data la forte matrice letteraria di queste produzioni sceniche, la prospettiva d’indagine adottata si colloca all’incrocio tra teatrologia e analisi letteraria, vale a dire nello spazio liminale proprio delle ricerche intersemiotiche. L’ambito epistemologico dei media studies, e le categorie di intermedialità, transmedialità e rimediazione, costituiscono infatti il frame teorico entro cui si sviluppa il contributo; partendo da una contestualizzazione del lavoro di Fanny & Alexander tra gli ‘effetti culturali’ prodotti dall’opera ferrantiana, per giungere ad un ampio affondo ermeneutico nelle sue strutture formali e tematiche. Facendo leva su una precisa costellazione di elementi (recitazione eterodiretta, gestualità coreutiche, fotografie e filmati in Super8, interpolazioni narrative) l’adattamento teatrale di Lagani e De Angelis acquista un autonomo valore espressivo, che rivela le potenzialità del transito dalla forma-romanzo alla forma-teatro, e con esse lo slancio libero e vitale dell’immaginazione drammaturgica. 

Always close to the world of literature, Chiara Lagani and Luigi De Angelis, founders of the Fanny & Alexander company, from 2017 to 2019 have realized the dramaturgical project Storia di un’amicizia taken from the cycle of novels by Elena Ferrante L’amica geniale. This essay proposes a critical study of the three plays that compose the project: Le due bambole, Il nuovo cognome, La bambina perduta. Given the strong literary matrix of these stage productions, the perspective of investigation adopted is placed at the crossroads between theatrology and literary analysis, in the liminal space of intersemiotic researches. The epistemological field of media studies, and the categories of intermediality, transmediality and remediation, constitute in fact the theoretical frame within which the contribution is developed; starting from a contextualization of Fanny & Alexander’s work among the ‘cultural effects’ produced by the Ferrante’s novel, to arrive at a broad hermeneutic dig in its formal and thematic structures. Leveraging a precise constellation of elements (heterodirect acting, coreutic gestures, photographs and films in Super8, narrative interpolations) the theatrical adaptation of Lagani and De Angelis acquires an autonomous expressive value, which reveals the potentials of the transition from the novel-form to the theater-form, and with them the vital and free impulse of the dramaturgical imagination.

 

1. Transitare dalla pagina al palco: il progetto Storia di un’amicizia

Così Elena Ferrante, nella sua raccolta di interviste e saggi d’occasione La frantumaglia, descrive la potenza mitica del racconto letterario, ovvero la capacità congenita della pagina narrativa di farsi «rampa per il decollo»[2] dell’immaginazione.

Secondo la scrittrice, più esattamente, dalle relazioni che si instaurano tra testi e lettori nascono sempre dei «libri intermedi»,[3] altri racconti fabbricati dallo sguardo e dalla sensibilità di chi legge. Il nuovo «libro che si fa nel rapporto tra vita, scrittura e lettura […] diventa evidente soprattutto quando il lettore è un lettore privilegiato, uno che non si limita a leggere ma dà forma alla sua lettura, per esempio con una recensione, un saggio, una sceneggiatura, un film».[4] La feconda intuizione di Ferrante convalida la pratica principe della cultura artistica contemporanea legata alla ricezione romanzesca, ossia lo slancio intermediale[5] con cui, superate rigide divisioni di generi e forme, i lettori ‘privilegiati’ si appropriano delle strutture diegetiche e retoriche della comunicazione letteraria, per rimediarle[6] in una pluralità di codici espressivi. Dare forma all’immaginazione messa in moto dalla lettura è il privilegio di chi possiede un linguaggio artistico con cui compiere una traduzione: il passaggio dal corpus di parole dei testi d’origine, alla trama polimorfica[7] dei ‘libri intermedi’ intrecciata dai lettori.

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La compagnia ravennate Fanny&Alexander è stata fondata nel 1992 da Luigi De Angelis e Chiara Lagani. Sin dagli esordi si è distinta per una rinnovata attenzione per il mondo della letteratura e delle arti visive, realizzando negli anni diverse produzioni: da spettacoli teatrali ad azioni performative e musicali, passando per installazioni e mostre, fino alla realizzazione di libri fotografici e opere video. Una «bottega d’arte» dove cooperano diverse personalità artistiche ‒ si pensi alla lunga collaborazione con il fotografo Enrico Fedrigoli, lo studioso Stefano Bartezzaghi e il collettivo Zapruderfilmmakersgroup. Tra questi figura anche l’attore Marco Cavalcoli che dal 1997 si è unito stabilmente alla compagnia.

Nel 1996 va in scena il primo spettacolo, scritto e ideato dagli stessi F&A, che attira l’attenzione del grande pubblico: Ponti in core. I protagonisti sono due ragazzi, Dorotea (Chiara Lagani) e Cipresso (Luigi De Angelis), che, accogliendo gli spettatori in un piccolo teatro anatomico, inscenano un susseguirsi di giochi macabri e funerei, in bilico tra l’innocenza e l’abiezione, la vita e la morte. È evidente come, sin dagli esordi, lo spazio e i dispositivi tecnologici che ‘orientano’ lo sguardo dello spettatore ‒ così come il tema del doppio ‒ si mostrino quali elementi cardini della poetica di Fanny&Alexander.

Le esperienze degli anni successivi, molto legate alla ricerca sul suono e sullo spazio, traghettano la compagnia verso la produzione del primo grande progetto dedicato alla messa in scena di un romanzo: Ada, tratto da Ada o l’ardore di Nabokov. Il progetto comprende sette spettacoli ‒ Ardis I (2003), Ardis II (2004), Adescamenti (2004), Aqua Marina (2005), Vaniada (2005), Lucinda Museum. Adieu por Elle (2005) e Promenada (2006) ‒ che esplorano l’opera-mondo di Nabokov secondo due traiettorie: quella dell’incesto e quella del rapporto tra spettatore e rappresentazione. Dalla deflagrazione dell’universo nabokoviano nascono anche altre ‘opere’ satelliti che completano il progetto Ada: la video installazione Rebus per Ada (Luca Sossella, 2007), realizzata insieme al collettivo Zapruderfilmmakersgroup e il foto-testo Ada. Romanzo teatrale per enigmi in sette dimore liberamente tratto da Vladimir Nabokov (Ubulibri 2006), che ripercorre, attraverso un’inedita drammaturgia verbo-visiva, il lavoro svolto dalla compagnia.

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Il presente saggio è dedicato al caso di studio dell’adattamento Incendies (2010), film di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), tratto dalla omonima pièce di Wajdi Mouawad. Si tratta di un esempio in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’intermedialità, al fine di evidenziare le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora, a dispetto della millenaria storia ricettiva, la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario. I due testi infatti lasciano emergere nella loro complessa stratificazione intertestuale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura. Puntando lo sguardo soprattutto su due aspetti, quello della costruzione drammaturgica e quello del motivo della cecità, si intende evidenziare l’originale scambio dialogico che i due testi intrattengono con la fonte classica.

This essay is dedicated to the case study on the adaptation of Incendies (2010), a movie by Denis Villeneuve (presented in Italy under the title La donna che canta), based on the homonymous piece by Wajdi Mouawad. It is an example which requires to interweave and overlap the various approaches derived from myth criticism and from the studies on intermediality, in order to highlight the intersemiotic variations, the constants and the metamorphoses of a myth which – despite its thousand years history of reception – still offers a profound vitality, and persists in our imagination. From the two texts, in their complex intertextual stratification, together with several references to classical mythology emerge clear echoes of the oedipic tragedy, albeit rewritten and filtered in a context of overall dislocation which affects characters, places, themes and structure. The specific focus on two aspects – the construction of the dramaturgy and the theme of blindness – intends to shed light on the original dialogical exchange both texts cultivate with their classical source.

 

Il film Incendies (2010) di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), nato dall’adattamento per il grande schermo della omonima pièce di Wajdi Mouawad, mostra nella sua complessa stratificazione intertestuale e intermediale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura drammaturgica. La pièce dell’acclamato artista libano-canadese, Incendies (2003), secondo atto della quadrilogia scenica Le sang des promesses (che comprende Littoral, 1999; Forêts, 2006 e Ciels, 2011) lascia emergere echi molto evidenti rispetto al testo sofocleo e alla sua tradizione e ricezione, echi che vengono ripresi e rideclinati nella trasposizione cinematografica in modo a volte originale a volte fedele alla scrittura di Mouawad. Il presente studio propone dunque un caso in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’adattamento, al fine di evidenziare le escursioni transmediali e le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario.

La prospettiva di indagine che si intende adottare è volta, in altri termini, a evidenziare la complessità della relazione fra i due testi: Incendies di Villeneuve non viene scelto cioè come semplice caso di adattamento, ma come esempio della dimensione intertestuale che investe a vari livelli qualsiasi trasposizione da un testo ad un altro e qualsiasi traduzione intersemiotica. Nell’analisi del processo di riscrittura da cui deriva il film ciò che si vuole rilevare in questa sede è il confronto con lo strato più profondo del palinsesto, con la fonte sofoclea e con la memoria mitica rispetto alla quale l’Edipo re rappresenta a sua volta una versione (seppur la più nota), nonché con la sua ponderosa tradizione ricettiva. La natura «multistrato»[1] dell’adattamento, messa in evidenza da Linda Hutcheon richiamandosi ai numi tutelari delle teorie della intertestualità (da Kristeva, a Genette a Barthes),[2] appare in questo caso in tutta la sua più feconda luminosità. Il rapporto fra il film e la pièce rende visibile (in senso letterale, come si mostrerà più avanti) in maniera emblematica l’«incrocio di superfici testuali», il «dialogo tra parecchie scritture», il «mosaico di citazioni» per cui «ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo»[3] e dunque la paradigmatica struttura a palinsesto di ogni adattamento. Per quanto ci si concentrerà sulle tracce del fantasma edipico presenti nel film e nella pièce, il focus del discorso rimane però il passaggio dall’uno all’altro ‘incendio’ e la considerazione del film come prodotto di una transcodificazione e come processo ermeneutico e creativo.[4]

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