Categorie



Questa pagina fa parte di:

Ma l’opera, come escremento, non è che materia: senza vita, senza forza né forma. Cade sempre e crolla appena è fuori di me.

J. Derrida, Artaud: la parole soufflée

 

Azionismo, body art, performance, happening. Tutti i termini, più o meno pertinenti, che costellano e richiamano l’arte di Hermann Nitsch implicano in maniera evidente l’unicità di un atto presente, l’irriproducibilità dell’operazione artistica, l’irripetibilità dell’evento che si fa opera d’arte, insomma la sincronia fra produzione artistica e fruizione. L’azione si svolge sotto gli occhi dell’osservatore, addirittura spesso sulla pelle stessa di chi vi prende parte: il corpo offerto alla body art esige la propria ineludibile presenza – spesso in una situazione di rischio per il corpo stesso. La performance in generale e, soprattutto, l’happening si realizzano solo nel qui ed ora di ciò che avviene sotto lo sguardo dei visitatori e cessa di essere opera d’arte nel momento in cui l’avvenimento stesso si conclude. Si tratta, in tutti questi casi, della possibilità di un ritorno a una forma di aura irriproducibile (nell’epoca della riproducibilità condotta alle sue più estreme conseguenze), di una strenua sfida in nome di una possibile catarsi collettiva nell’epoca della dispersione e della dissoluzione nel virtuale.

Alla luce di tali considerazioni, una mostra che tenti il recupero a posteriori dell’atto performativo facendo esposizione di quel che, materialmente, ne è rimasto si trova inevitabilmente nel paradosso di dover in parte contraddire le premesse di ciò che intende testimoniare. Se l’Azionismo – per definizione – nasce dalla necessità di un’esperienza diretta dell’azione che caratterizza l’opera artistica, una mostra legata all’Azionismo non può che essere, per certi aspetti, un tradimento dei suoi stessi presupposti, ponendo l’assenza d’azione in luogo della sua assoluta centralità, la fissità e la staticità in luogo del mutevole e del contingente, la persistenza dell’avvenuto in luogo della transitorietà dell’avvenimento e, soprattutto, la contemplazione più o meno distaccata in luogo della partecipazione diretta.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Seguiranno personaggi in bilico fra narrazione e astrazione, prima con tinte noir (Desert-Inn, 2006), successivamente forgiati come ‘imperi della mente’ onirici e dell’orrore (sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla], 2007). Un compiuto discorso si dispiega con il progetto Motel (2008/2011), suddiviso in tre diversi episodi spettacolari (o Stanze) e fondamentale tappa di maturazione poetica e produttiva. Si entra nella Prima stanza inseguendo le ossessioni individuali di un uomo e una donna, l’andamento cronologico è destrutturato, oscure presenze srotolano papiri con messaggi destinati a rimarcare la nostra responsabilità di spettatori che guardano; così si passa nella Seconda stanza, dove il disegno del movimento diventa più coreografato e sembra guardare in controluce le tensioni duali di un rapporto amoroso, mentre ombre proiettate ci ricordando l’esistenza di un ‘fuori’ urbano; si chiude (o si ricomincia) con una Anticamera, la cui scena contiene un cubo che distilla gesti e oggetti prelevati dalle altre Stanze; il cubo ricostruisce un interno casalingo, è abitato da una donna e l'angusto spazio viene disegnato saggiando le possibilità che restano nel piccolo perimetro, mentre noi riflettiamo sulle cornici che orientano il nostro guardare e ragionare. Il passaggio del decennio vede gruppo nanou impegnato ad asciugare il movimento da certe ‘cadute narrative’, in una sfida che punta all’astrazione del gesto.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

L’articolo prende in esame la relazione linguistica tra la costruzione scenica dei progetti Motel e Strettamente Confidenziale di gruppo nanou e le teorie sull’immagine fotografica contenute ne La Camera Chiara di Roland Barthes.

The essay examines the linguistic relationship between the stage's construction of the projects Motel and Strettamente Confidenziale performed by gruppo nanou and the theories on the photographic image expressed by Roland Barthes in Camera Lucida.

La trilogia Motel, faccende personali (2008-2011) rappresenta il punto di non ritorno, la nomenclatura e il fulcro concettuale dell’intera produzione performativa di gruppo nanou. Articolato su tre camere (Prima Stanza, Seconda Stanza e Anticamera), che sono al contempo finestre in sé conchiuse ed episodi di una serie, il progetto è stato recentemente celebrato attraverso l’ostensione di alcuni suoi elementi in Strettamente Confidenziale, un’originale operazione di musealizzazione articolata anch’essa in stanze che fungono da contenitori dell’azione, sorta di time boxes che, aperte a distanza di anni, espongono frammenti di memorie deformate dal tempo e dal ricordo.

Topos della cinematografia da Alfred Hitchcock in poi, la camera del motel è il non-luogo per eccellenza, il paradigma di quell’essenza tutta americana dell’abitare transitando. Gli oggetti in essa contenuti, solo apparentemente anonimi, rappresentano in realtà il «paesaggio reificato» e l’«oggettivizzazione delle personalità degli abitanti che la occupano».[1] L’utilizzo della stanza di motel come dispositivo scenico, che diviene una sorta di assoluto per i nanou, trova un noto precedente sulle scene italiane in Twin Rooms (2002) di Motus. Lo spettacolo, mediante un serrato montaggio di frammenti video unito a costanti riferimenti alla letteratura postmoderna americana inscenava il potenziale narrativo connaturato all’immaginario cinematografico del luogo.[2]

Fin dal primo episodio di Motel, la critica teatrale italiana ha guardato anche agli ambienti scenici di gruppo nanou evidenziandone il rapporto con l’immaginario cinematografico.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Abstract: ITA | ENG

Una danza che racconta, un teatro di corpi e poche parole, un percorso sonoro che punta all'evocazione e non rifiuta la narrazione. Gruppo nanou nasce a Ravenna e da sempre si è contraddistinto per il tentativo di raccontare spezzando una normale linearità dei ‘fatti’. Negli spettacoli del gruppo vi sono lacerti di accadimenti, reperti che chi guarda deve ricostruire, in cerca di un ‘intero’ che la compagnia di Ravenna programmaticamente nega. Così è per Namoro, la prima opera del 2004 e considerabile come una sorta di prologo. Successivamente si saggiano le possibilità del corpo e della mente in Desert-Inn e Sulla conoscenza irrazionale dell'oggetto [tracce verso il nulla], spettacoli del 2006 e 2007, si mette in campo lo studio di un quotidiano sottilmente sabotato e rifratto in rivoli che chi guarda può scegliere di seguire (la trilogia Motel, 2008-2011) infine si sosta nel bilico fra composizione astratta del gesto danzato (con tinte sportive) e disegno narrativo di figure, personaggi, simboli (dal progetto Dancing Hall a Strettamente Confidenziale, giungendo all'ultimo J.D.). Il saggio analizza la traiettoria poetica di gruppo nanou, tentando altresì di creare un contesto relativo al sistema del teatro e della danza italiani odierni.

A dance that tells, a theatre of bodies and few words, a sound path that goes directly to the evocation and not reject the narration. Nanou group was born in Ravenna and always has characterized by the attempt to tell, breaking a normal linearity of ʻfactsʼ. In the group’s performances there are fragments of events, finds that the viewer have to reconstruct, looking for a ʻwholeʼ that the acting company of Ravenna programmatically denies. So it is for Namoro, first work of 2004, esteemed as a kind of prologue. Afterwards, are tested the possibilities of body and mind in Desert-Inn and sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [trace verso il nulla], performances of 2006 and 2007, in which the group approaches the study of a daily subtly sabotaged and refracted into rivulets that the viewer can choose to follow (the trilogy Motel, 2008-2011). Lastly, stopping in balance between abstract composition of danced gesture (with sports tints) and the narrative design of figures, characters, symbols (from the project Dancing Hall to Strettamente Confidenziale, reaching the last work J.D.). The essay analyzes the poetic course of nanou group, trying also to create a context relating to the contemporary system of Italian theater and dance.

 

Kostia, 2003. Un palcoscenico all'aperto in una calda sera d'estate al Museo del Senio di Alfonsine (Ra), con un folto pubblico composto da addetti ai lavori, spettatori venuti appositamente dalla città e avventori dei bar della piazza. La dinamica dei gesti intreccia figure e affastella fugaci visioni, sul palco due corpi si rincorrono, la luce sovraespone movimenti che sembrano lasciare una scia.

Namoro, 2004. Un pomeriggio in piazza San Francesco, a Ravenna. Sul fondo della piazza una basilica paleocristiana, sul lato opposto c'è un nugolo di persone che osserva la vetrina dei chiostri della biblioteca comunale, un interno affacciato sullo spazio pubblico. Dietro al vetro scorgiamo un corpo femminile che si espone, ostende il bacino, si curva fino a piegarsi formando un arco acuto.

Sulla conoscenza irrazionale dell’oggetto [tracce verso il nulla], 2007. Un tardo pomeriggio primaverile, al secondo piano di un noto club musicale riminese. Le luci naturali bagnano uno spazio vuoto, due figure umane sono in preda a rantoli e contorsioni, una scatola blu e una sfera vitrea ci riportano a un'oggettualità che vorremmo ristabilisse un raziocinio.

Scegliamo di partire da tre visioni personali che legano il percorso professionale di chi scrive alla vicenda artistica e biografica di gruppo nanou. Scegliamo di aprire la porta assecondando le indicazioni di questa compagnia che ha la sua base a Ravenna, prendendo alla lettera alcuni dei titoli dei loro spettacoli (Faccende personali, Strettamente confidenziale) anche per vedere dove ci porterà questo varco e se mai potremo richiuderlo. Scegliamo dunque queste veloci impressioni come incipit, cercando di procedere con gli strumenti del racconto e dell'analisi, provando a coniugare la necessità della ricostruzione con il tentativo di una contestualizzazione sia estetica che più genericamente allacciata alle vicende del teatro e della danza di ricerca italiani degli ultimi anni. Adotteremo dunque uno sguardo cronologico, partendo dal primo spettacolo per arrivare all'ultimo, con pause diacroniche che speriamo possano illuminare alcuni nodi legati al fare danza oggi in Italia.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Progetto Kthack

di

     

Sono andati in scena presso il Centro Zo di Catania nei giorni 1-2-3-4 settembre i quattro spettacoli, Tifeo, De Cinere, Soggiornando vicino e Non si vive nemmeno una volta, che compongono il progetto Kthack, curato dall’associazione culturale Retablo per quel grande contenitore di eventi multidisciplinari che è il Festival I-ART.

Kthack, titolo del progetto, è il risultato della crasi tra Katane, l’antico nome di Catania, e Hack, termine che rinvia all’attività degli hacker volta a forzare un programma o un dispositivo informatico. La mescolanza tra Katane e Hack indica il filo conduttore tematico del progetto: l’intreccio tra miti e memorie letterarie proprie della storia di Catania e il linguaggio sempre più pervasivo delle tecnologie digitali, qui adoperate per attivare nuovi modi, non standardizzati, di fruire dell’esperienza scenica.

Originalità e sperimentazione sono, infatti, le direttrici portanti che innervano l’architettura visiva dei quattro spettacoli, basata sull’impiego di un grande telo-schermo che, posto davanti allo spazio di azione performativa, ospita proiezioni video live e tridimensionali.

La scena italiana contemporanea ci ha ormai abituato al trattamento della materia teatrale sotto le insegne deformanti del multimedia digitale, ma nel vasto quadro degli esperimenti video-performativi non sempre si ha la giusta razionalizzazione nell’uso dell’elemento tecnologico, o un’efficace integrazione di quest’ultimo nel concept della narrazione scenica.

Per questa ragione, merita un sicuro plauso il progetto di Retablo, il quale sviluppa una fruttuosa linea d’intervento tecnologico sulla drammaturgia teatrale, facendo leva sulla semantica elettronica per restituire/rendere/trasporre scenicamente il linguaggio crepuscolare dell’inconscio, del mito, della decostruzione/ricostruzione della realtà.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Eneide. Un nuovo canto può essere considerata un’operazione di ‘auto re-enactment’ con cui la Compagnia Krypton riporta in scena, ma in una nuova versione, l’Eneide (liberamente tratto da Eneide di Virgilio) del 1983.

Dell’Eneide, opera simbolo della nuova spettacolarità e della scena elettronica degli anni Ottanta, questo nuovo canto riprende la dimensione epica e spettacolare garantita dalla colonna sonora dei Litfiba / Beau Geste, questa volta però eseguita dal vivo da Antonio Aiazzi, Gianni Maroccolo e Francesco Magnelli con l’aggiunta di due canzoni (eseguite fuori campo da Ginevra Di Marco) e dalla presenza di Giancarlo Cauteruccio che cura il progetto, la regia e che dà voce all’Enea-narratore in scena.

Senza voler essere un’operazione nostalgica, quanto piuttosto la ripresa responsabile di uno spettacolo calato nell’immaginario tecnologico – sensoriale, immersivo e tattile – di trent’anni fa, Eneide. Un nuovo canto propone allo spettatore di oggi qualcosa che non ha mai visto, se è giovane, o che non ha più visto se è meno giovane, ossia la resa spettacolare e immaginifica della macchineria teatrale.

Il dispositivo drammaturgico è basato su una composizione per quadri musicali e narrati, funzionale alla rottura della linearità del testo originario e adatta a ribadire la vocazione anti-rappresentazionista del teatro contemporaneo.

Qui la tecnologia in scena esprime la rivendicazione di una provenienza culturale che trova nella semantica dell’elettronica non solo il senso della sperimentazione dei linguaggi, cioè la ricerca delle affordance (le potenzialità espressive della tecnologia), ma rimanda a qualcosa su cui Krypton ha indagato nel tempo e che riguarda la deriva post-umana.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



Questa pagina fa parte di:

Mancava finora una monografia completa sull’intera opera di Michele Sambin (Padova 1951), artista polimorfo, attivo fin dai primi anni Settanta in svariati campi: cinema, video, musica, pittura, teatro. Certo, non facevano difetto contributi anche notevoli su singoli aspetti o fasi della sua attività: ne cito uno per tutti, il volume curato da Fernando Marchiori su Tam Teatromusica.[1] C’erano sicuramente reali difficoltà a cogliere, secondo una prospettiva unitaria, un’attività che si sviluppa in oltre quarant’anni all’insegna della sperimentazione continua e che consegue risultati rilevanti, senza tuttavia chiudersi in se stessa.

Tanto più apprezzabile appare, quindi, l’uscita di Michele Sambin. Performance fra musica, pittura e video, frutto del meritevole impegno di una piccola casa editrice, la Cooperativa Libraria Editrice Università di Padova (Cleup 2014), abitualmente dedita alla saggistica accademica.[2] Si tratta di una esaustiva monografia a più voci e, allo stesso tempo, di un’edizione d’arte. Il volume è curato da Sandra Lischi, voce autorevole e vivace che da anni lavora alla frontiera tra cinema e video-arte, e Lisa Parolo, una giovane studiosa laureata all’Università di Padova e dottoranda all’Università di Udine, la cui ricerca, impegnata su due fronti (studio storico-critico e problematiche di conservazione/restauro della MediaArt), si colloca in un ambito che ha nell’Università di Udine il suo centro più importante e in Cosetta G. Saba la sua principale animatrice.[3]

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Il teatro è un luogo di rivitalizzazione degli archetipi e occupa ancora un posto centrale nell’elaborazione dell’immaginario individuale e collettivo. Lo si vede chiaramente nel lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci, quando tematizza il rapporto fra immagine e rappresentazione chiamando in causa lo spettatore.

In Go Down, Moses – andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 18 gennaio – la qualità simbolica dell’immagine, che non è mai soltanto un artefatto visuale, sembra andare proprio là dove il paradosso iconoclastico dell’Occidente – ovvero la continua dialettica fra rifiuto delle immagini e resistenze dell’immaginario – si è reso maggiormente osservabile, cioè alle origini della religione e della cultura giudaico-cristiana. Basti pensare che, prendendo il titolo da uno spiritual americano in cui l’esodo del popolo di Israele trasmigra nell’epopea degli schiavi afro-americani e dall’omonimo romanzo di William Faulkner, lo spettacolo utilizza la potenza narrativa della religione, e più precisamente della Bibbia e del libro dell’Esodo, per sincronizzare il mito con la sostanza del nostro tempo. Il che significa rintracciare le parole chiave del mito – abbandono e salvezza, schiavitù ed erranza, deserto e solitudine, ma soprattutto immagine senza rappresentazione (il roveto ardente, immagine di Dio che afferma «sono colui che sono») e rappresentazione senza immagine (il vitello d’oro, il simulacro, la falsa immagine) – per ritrovarle dissolte, insieme alla figura del patriarca e la sua vicenda, nel dispositivo drammaturgico e nelle scene.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

Categorie



 

La giornata di studi padovana (19 ottobre 2014) ha offerto un interessante confronto interdisciplinare tra studiosi, studenti e pubblico sulla poliedrica produzione del coreografo giapponese Saburo Teshigawara per il quale la danza è una forma artistica in grado di travalicare i propri confini linguistici e misurarsi con altri codici espressivi. Ad accendere e a stimolare il dibattito ha contribuito senza dubbio la presenza dell'artista che, dopo aver presentato la sera precedente al Teatro Comunale di Ferrara la sua ultima creazione Landscape, ha esposto, insieme alla sua danzatrice Rihoko Sato, le idee alla base della sua poetica.

Nella prima parte della giornata sono stati proiettati alcuni materiali audiovisivi, quali A boy inside the boy, Danser l'invisible e Broken Lights, che documentano l’attività professionale dell'artista, capace di spaziare tra pittura, movimento, video e installazione. Ogni video è stato presentato dai dottorandi della Scuola di dottorato in Storia, critica e conservazione dei beni culturali di Padova (Laura Pellicelli, Margherita Pirotto e Francesco Verona), che da prospettive disciplinari differenti – arte, danza e cinema – hanno offerto alcune chiavi di lettura al pubblico presente in sala. Il mediometraggio A boy inside the boy prende le mosse da uno spunto autobiografico, un ‘rito’ che Saburo Teshigawara compiva da bambino la sera mentre aspettava che la madre preparasse la cena: con una rotella segnava la terra attraverso un gesto minimale e ripetitivo, fintanto che la terra stessa, secondo i suoi occhi, diventava ‘luminescente’. Il video si basa su memorie d'infanzia e trasfigura fatti reali in elementi onirici. Tale processo diventa la cifra espressiva dell'intero film: dalla scelta delle immagini alla loro concatenazione nel montaggio. Il documentario Danser l'invisible di Elisabeth Coronel registra le fasi di creazione di Kazahana e di Prelude for down, e propone alcuni estratti d'intervista a Teshigawara. Il lungometraggio, girato tra Francia e Giappone, offre frammenti della vita professionale dell'artista, quali il lavoro coreografico in sala prove con danzatori, professionisti e non, momenti dell'evento spettacolare sul palcoscenico, riflessioni del coreografo sulla genesi e sull'evoluzione del suo modo d'intendere la danza e ricordi di momenti cruciali della sua vita che lo hanno influenzato nella ricerca artistica. Infine, sono stati mostrati alcuni frammenti di Broken Lights, una performance-installazione presentata alla Ruhrtriennale del 2014, nella quale Saburo Teshigawara e Rihoko Sato danzano su una superficie frastagliata di vetri che ricopre quasi interamente il pavimento e le pareti dello spazio performativo e in cui le luci sono posizionate lungo tutto il perimetro della lastra. L’effetto visivo predominante è quello di una frantumazione della luce stessa, poiché riverberando sul vetro e sui corpi degli stessi danzatori essa produce una visione segmentata del setting e delle figure che vi si muovono. Ciò che vediamo è un’interazione tra il materiale, i corpi, lo spazio e la luce.

* Continua a Leggere, vai alla versione integrale →

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15