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Dalla metà degli anni Settanta anche in Italia, in linea con quanto stava accadendo in tutta Europa e soprattutto negli Stati Uniti, quasi in risposta alla domanda che a inizio decennio aveva posto Linda Nochlin dalle pagine di Art News (Nochlin 1971, p. 122), sono molte le donne che calcano la scena artistica, operando attraverso inedite modalità espressive, in molti casi specificatamente legate al loro genere. Artiste e donne. Sebbene tale atteggiamento, che coniuga consapevolezza linguistica ed esigenze espressive profonde, venga declinato da ciascuna delle protagoniste di questo contesto in maniera personale, ci sono alcuni elementi che risultano ricorrenti nelle loro ricerche le quali, pur inserendosi per molti aspetti nelle trame del tessuto artistico dell’epoca, affondano le loro radici proprio nelle istanze legate al femminismo e pongono in primo luogo la complessa questione della ricerca di una (non schematizzabile) identità altra, diversa rispetto a quella maschile, che si iscrive nel quadro di una più complessa e articolata contestazione di tutta la storia culturale. Va riscritta la storia, va cambiato il presente a livello intimo e profondo, e siffatta operazione comporta una messa in discussione di ogni certezza, con aperture a punti di vista inediti: smontato il sistema, sono le più varie le istanze che hanno diritto di esistenza.

Il nuovo femminismo si impone in Italia sin dall’inizio del decennio, soprattutto grazie all’impulso dato delle rivoluzionarie posizioni di Carla Lonzi, il cui pensiero segna un passaggio imprescindibile, anche a livello internazionale, in seno alla riflessione sulla condizione femminile. Se la posizione di Lonzi ha avuto un’eco notevole, è pur vero che in Italia già dalla seconda metà degli anni Sessanta altre donne erano state attive nella medesima direzione: basti pensare al gruppo milanese DEMAU, che nasce tra il 1965 e il 1966. Intorno al 1975 queste posizioni, che si sono sviluppate (anche in direzioni non convergenti) attraverso l’azione di numerosi gruppi attivi sul territorio nazionale, trovano eco anche nell’ambito della cultura visiva e incoraggiano la diffusione di un profondo ripensamento sulle questioni identitarie, che interessa anche quante non abbracciano espressamente il femminismo.

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È grazie a Matteo Garrone che Alba Rohrwacher nel film Il racconto dei racconti (2015) realizza il suo sogno di lavorare in un circo, di portare sul set «i miei vecchi trampoli». Da bambina Rohrwacher praticava la ginnastica artistica con il sogno di diventare acrobata. Ed è proprio questa passione per l’acrobazia, provocata da un istinto verso la libertà del corpo, che l’ha avvicinata al mestiere di attrice.

Per Rohrwacher liberarsi dal corpo significa spingersi oltre i limiti della propria esteriorità, allontanarsi dalla sua apparente fragilità. Fondamentale per la sua formazione artistica è stato l’insegnamento di Emma Dante e il suo metodo che nasce dal principio di Pirandello così come è espresso in I giganti della montagna: «Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede». In effetti nella motivazione per il premio Cabiria al Torino Film Festival del 2016, l’approccio alla recitazione dell’attrice viene definito una «irruzione gentile sulla scena cinematografica», mettendo in evidenza quella fragilità «solo apparente» di un’attrice «sensibile, dotata e versatile» che si cala nei personaggi con grande coraggio e generosità. Non fermandosi mai alla superficie dei personaggi che interpreta, Rohrwacher scava fino in fondo svelando figure spesso in bilico o intrappolate tra ribellione e ostacoli, tra amore e ossessioni; personaggi complessi, con aspetti spesso contraddittori o ambigui, mobili e transitori, alla ricerca della propria identità e soggettività.

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Come il cinema, la storia orale è il risultato di una combinazione di teoria e prassi. La metodologia della storia orale apre, potenzialmente, nuove strade di ricerca per gli studi cinematografici e divistici, ed è stata applicata con grandissimo successo, ad esempio, nell’ Italian Cinema Audiences Project. In questo intervento cercheremo di individuare (e anche di problematizzare) la storia orale sia come metodo generale che nella sua applicazione specifica al cinema, muovendoci nel contesto italiano, sottolineando l’aspetto della performatività e riflettendo sulla combinazione di teoria e prassi nel nostro lavoro come direttrici della Bronx Italian American History Initiative alla Fordham University.

Fondata nel 2016, la Bronx Italian American History Initiative (BIAHI) è un progetto di storia orale interdisciplinare e collaborativa che ricerca e ripercorre la storia degli italiani e degli italo-americani nel Bronx del ventesimo secolo. Co-direttrici del progetto sono la dott.ssa Kathleen La Penta (Modern Languages and Literatures) e la dott.ssa Jacqueline Reich (Communication and Media Studies), con l’appoggio e la collaborazione del Dott. Mark Naison (African and African American Studies) [fig. 1].

BIAHI ha come obiettivo la scoperta delle narrazioni personali degli abitanti del Bronx tramite la creazione di un archivio digitale di video-interviste che verranno catalogate e codificate sistematicamente e messe in rete. Scopo del progetto è documentare e mappare i luoghi nei quali gli immigrati italiani si stabilirono, vissero e lavorarono, e indagare come essi interagivano con altri gruppi etnici nel momento in cui il loro status razziale si trasformava. La collaborazione con il Bronx African American History Project, diretto dal Dott. Naison, aiuterà a collocare l’esito della ricerca, cioè le testimonianze in forma di video-interviste, in un tessuto di multi-etnicità e quindi a sviluppare una comprensione approfondita delle relazioni tra i quartieri del Bronx dove abitavano gruppi diversi come gli ebrei, gli irlandesi, gli italiani, i Latino e gli afro-americani.

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Il caso dell’attrice che scrive rientra senz’altro a pieno titolo nell’ampia e sfaccettata categoria del «doppio talento», che solo recentemente è stata presa in considerazione dalla critica letteraria nell’ambito degli studi di cultura visuale (Cometa 2014) anche se in relazione alle figure degli scrittori-artisti o degli artisti-scrittori. Provare ad applicare tale categoria all’eterogenea produzione letteraria firmata dalle attrici, per saggiarne in tal modo la fecondità ermeneutica, significa innanzi tutto interrogarsi sugli oggetti di studio implicati (produzioni doppie, filmiche e letterarie), sulle convergenze (o sulle divergenze) fra l’immagine attoriale rappresentata dall’autrice nella propria esperienza performativa e quella contenuta nel testo letterario, sui riverberi e sulla dimensione metatestuale che la scrittura produce rispetto allo stile recitativo e alla star persona. Per quanto, però, si provi a tradurre le tipologie individuate da Michele Cometa in riferimento agli scrittori-pittori («opere doppie», «concrescenza genetica», «critica e commento», Cometa 2014), la traslazione dalle arti figurative a quelle performative impone un adeguamento dello sguardo critico ad un codice più complesso e sfuggente. Non bisogna però desistere di fronte alla serie di questioni poste da tale nuova prospettiva: quali sono i media coinvolti dalla recitazione? Il corpo e/o la complessa macchina del dispositivo filmico? quali sono i confini della performance? Come è possibile comparare l’oggetto-libro, i cui limiti e materialità tangibile appare evidente con l’esperienza attoriale che risulta allo stato attuale degli acting studies di difficile definizione? (deduco alcune di queste domande dallo stimolante e problematico invito a «guardare il cinema dalla parte degli attori» da parte di Mariapaola Pierini, 2017). Del resto, le ricerche sul doppio talento si trovano in una fase germinale, e tuttavia impongono un’apertura interdisciplinare che costituisce la premessa urgente e imprescindibile per lo studio di artiste come Goliarda Sapienza o Elsa de' Giorgi, che hanno affiancato alla formazione e all’esperienza attoriale la vocazione letteraria e romanzesca, e le cui opere sono state fino ad ora ingiustamente trascurate anche per l’incapacità di comprendere e apprezzare la «doppia vocazione» (Cometa 2014) espressa dal loro anticanonico percorso artistico. Quel che è certo è che tracciare una prima mappa delle diverse modalità di interazione fra performance e scrittura, che tenti di inquadrare figure ed esperienze in cui si incontrano la recitazione e la letteratura (dalle apparizioni di Elsa Morante e Natalia Ginzburg nei film di Pier Paolo Pasolini al caso di Sapienza e de' Giorgi), è una sfida ardua e affascinante al tempo stesso. Il primo passo in tale direzione mi pare possa essere l’individuazione delle costanti che emergono dalla ricognizione nel contesto italiano dalla seconda metà del ‘900 agli anni zero. Se è indubbia una prevalente predilezione delle attrici per la scrittura dell’io, è interessante notare che i libri firmati dalle ‘stelle italiane’ disegnano una parabola che dalla narrazione autobiografica (Sophia Loren e Monica Vitti ma anche Moana Pozzi) giunge alla scrittura finzionale e al romanzo (Elsa de' Giorgi oltre Goliarda Sapienza), passando per le tappe intermedie delle ‘memorie delle personagge’, di testi cioè che mettono in racconto frammenti di vita di una figura creata dall’attrice (Franca Valeri, per esempio, ma anche Laura Betti). Per segnare le linee generali di una ‘cartografia dell’attrice che scrive’ provo qui a indentificare alcune categorie paradigmatiche, che mettano in risalto le convergenze di questo eterogeneo corpus di testi, senza tralasciare alcuni casi di studio particolarmente originali.

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Syxty sorriso & altre storie (Yard Press 2017) è un volume che raccoglie immagini e testi selezionati da Flora Pitrolo (che ha come background una ricerca dottorale sul teatro postmoderno italiano)[1] dall’archivio privato di Antonio Sixty, performer e regista gravitante intorno all’Out Off di Milano nei primi anni 80, allo studio Alchimia, al mondo della moda. L’ipotesi che motiva e struttura la raccolta dei documenti pubblicati nel volume è enunciata dalla curatrice: «Credo che proprio l’insistenza sul banale, sul superficiale e sul riproducibile come metodo – come infrastruttura portante – ci racconti più dell’Italia di quegli anni di quanto non ci raccontino le drammaturgie più rispettabili, non solo rispetto alle immagini in circolazione a quei tempi ma anche e specialmente rispetto al rapporto con quelle immagini».[2]

Nel libro di Sixty la sua produzione direttamente spettacolare non trova spazio di racconto e documentazione: vi si ritrova il contesto, che rinvia, nella sua dimensione iconografica, parte rilevante del volume alla produzione di immagini tipiche del postmodernismo teatrale. Riferire su questo prodotto editoriale comporta quindi la necessità di reimmergersi in quegli anni e in quelle atmosfere, di ritornare sulle tendenze e le ideologie che avevano nutrito il fenomeno della Nuova spettacolarità. Il volume raduna documenti d’archivio autentici con la loro aura d’epoca (fogli scritti a mano sbiaditi dal tempo), ma quella cultura riallestita e riproposta non viene né interrogata, né problematizzata, in quanto si offre come una parata delle figure ricorrenti – che sono diventate stereotipi – attraverso le quali è stata raccontata la Nuova spettacolarità.

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Una città dello stato di São Paulo, una coppia di artisti posseduti dalla passione per l’arte condivisa, un gruppo di ‘ombromani’ formato da registi, performer, animatori, studenti, studiosi accademici e non: è la comunità che a Taubaté si è aggregata intorno all’ ‘ombra’ di un teatro che deve ancora trovare la sua strada, e che di questo ricercare fa l’elemento propulsore di un confronto vitale, una condizione di fertile incertezza.

FIS, il Festival internazionale di Teatro d’Ombre alla sua quarta edizione, è diretto da Ronaldo Robles e Silvia Godoy, fondatori della Compagnia Quase Cinema che nelle tecniche e nelle poetiche dell’ombra trova il linguaggio più consono per dare forma a una passione che si radica nelle arti visive e nel cinema.

Una direzione artistica eticamente responsabile, che coniuga il progetto di diffusione del genere teatrale delle ombre (peraltro molto più esteso in Brasile che da noi) al programma di decentramento culturale: nonostante le ‘scomodità’ non rinuncia a portare il teatro (spettacoli e laboratori) nelle piazze e nelle scuole rurali di paesi piccoli e piccolissimi, ma anche tra i giovani delle scuole di formazione artistica della città. Impegno della manifestazione è anche mettere in relazione la ricerca artistica e quella scientifica, la formazione e la riflessione, la condivisione e l’accento sulle differenze (oltre ai numerosi momenti di riflessione animatisi spontaneamente nel corso delle giornate, un seminario ha accompagnato il festival nelle ultime due serate).

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Metamorfosi (di forme mutate in corpi nuovi), produzione Fortebraccio Teatro, in scena al Teatro Era di Pontedera il 4 febbraio 2017, adattamento e regia di Roberto Latini, fa dell’idea di metamorfosi una poetica che investe più fronti: contenuto, forma, spazio, e persino spettacolo. Il primo mutamento di forma riguarda il linguaggio, ossia il passaggio dalla letteratura al teatro. Lo spettacolo è strutturato in quadri intitolati come i brani ovidiani, tuttavia esso non vuole «mettere in scena quei Miti», come indica la nota registica; l’interesse risiede anzi nel cercare possibili «derive» teatrali, e attuali, del testo, concedendosi pure di allontanarsi da esso. Non solo l’ordine degli episodi non segue quello ovidiano, ma in più esso è soggetto a modifiche in ogni spettacolo: mutano sia la scelta che l’articolazione dei quadri, regalando un evento unico e non ripetibile. La drammaturgia, definita «mobile», si rinnova di continuo, nell’ottica di un’incessante ricerca, che è al contempo virtù e fine del teatro di Latini.

Parola e azione scenica sono affidate a una troupe di clown di memoria felliniana, contaminati da echi disneyani. Con volto bianco e naso rosso, muniti di parrucche sgargianti, scarpe oltremisura e orecchie da Minnie (i costumi sono firmati Marion D’Amburgo), essi compaiono sulla scena vuota, da un fondale di teli bianchi. Le vicende ovidiane si sviluppano in un’atmosfera in bilico tra comicità e tragedia: dopo una danza sgangherata evocante lo stato primigenio del Caos, fra risate e scambi di battute in grammelot, si incontra un inquietante Minotauro (Savino Paparella) con le scarpe al posto delle corna; ci si imbatte nei terribili racconti di Coronide, Ecuba, e della Sibilla Cumana; ci si commuove dell’ineluttabile separazione di Orfeo ed Euridice (Roberto Latini e Ilaria Drago), che avviene senza il minimo sguardo fra i due, già consapevoli del loro destino. Ogni quadro è valorizzato dalla combinazione della concezione sonora di Gianluca Misiti e delle luci di Max Mugnai. Cangianti e soffuse, queste rendono i contorni delle figure labili, inafferrabili.

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C’è una domanda che ha tormentato la danza del Novecento alla base di Je(u), una pièce per un ballerino solo, interpretata da Mikael Marklund, che è anche coautore della coreografia insieme al regista Laurent Chétouane, proposto a Roma al Palladium il 5 aprile e poi all’Auditorium del Goethe-Institut il 7 aprile. La domanda è se sia possibile, nella danza, «avere simultanea esperienza del corpo e del movimento, in modo tale che il movimento non “opprima“ più il corpo, lo nasconda, o addirittura lo neghi in favore dello stimolo visuale bidimensionale, bensì al contrario gli restituisca la sua tridimensionalità, il suo peso, la sua materialità, perfino nella sua animalità». Insomma se sia possibile, per il corpo, «divenire corpo. Ancora». Una lunghissima storia ha questo desiderio, questo programma di liberazione e riconquista del corpo, della sua concretezza, rispetto a un ordine che lo nega e lo nasconde alla forza di gravità. Laurent Chétouane, uno degli esponenti più originali del teatro-danza contemporaneo, nasce a Soyaux, in Francia, proprio nell’anno in cui Pina Bausch fonda il suo Tanztheater a Wuppertal, nel 1973. La sua passione per il teatro scoppia dopo una laurea in ingegneria. Si forma come regista in Francia ma soprattutto in Germania, dove riscuote presto successo mettendo in scena autori come Seneca, Genet, Büchner, Heiner Müller e Sarah Kane, ma anche Schiller e Goethe. Poi nel 2006 si volge alla danza e si impone all’attenzione internazionale con una serie di coreografie il cui stile ha fatto molto discutere. Ha avuto bisogno di passare dal linguaggio – mi spiega – per poi giungere al corpo, «al corpo come resto, al di là del linguaggio. C’è un corpo che si sente parlare. È questo il corpo che balla nei miei spettacoli».

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Goliarda Sapienza. Tutto è iniziato con la scoperta de L’arte della gioia nel 2008, la lettura appassionata di tutti gli scritti editi e qualche inedito, il desiderio di girare un documentario, l’impazienza e la scelta di mettere in scena uno spettacolo, l’epilogo con un film dedicato a lei ma in cui di lei non si parla, o forse sì. Oggi vorrei ancora lavorare sui suoi scritti ma non so se ciò accadrà. Le sue pagine hanno fatto germogliare in me una pianta che ancora annaffio con cura.

Io ho fatto tutto questo ispirato e dedicato a Goliarda Sapienza – in scena a Catania al centro Zo nel 2009 e nel 2010 – nasce dalla scoperta di una scrittrice straordinaria e dall’urgenza di ricordarla alla sua città d’origine e non solo. Nessuna libreria catanese infatti prima del 2009 aveva i suoi libri, e il suo nome in città per i più sembrava inventato e in Italia quasi sconosciuto. Ho scoperto Goliarda in occasione della pubblicazione di Einaudi de L’arte della gioia nel 2008. Lessi il romanzo in un fiato passando poi, in preda ad un innamoramento appassionato, alla lettura di tutti i suoi testi editi: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno, Destino coatto, L’università di Rebibbia, Le certezze del dubbio. Tra luglio e settembre avevo letto tutto.

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