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Fin dall’esordio con Accattone Pasolini manifesta la volontà di mettere in quadro corpi e luoghi non canonici, appartenenti alla barbarie delle borgate e riprodotti secondo quel principio di «sacralità tecnica» che avrebbe segnato il primo lungo movimento del suo racconto per immagini. Del resto la sua personalissima idea di cinema «come lingua scritta della realtà» (stando alle teorizzazioni raccolte in Empirismo eretico) ha sempre posto al centro della messinscena il risalto dei volti, degli sguardi e dei gesti dei ‘suoi’ attori, primo fra tutti Franco Citti, destinati a divenire icone di un’umanità arcaica, fuori dal tempo, autenticamente innocente sebbene marcata da desideri brucianti, almeno fino alla svolta neocapitalistica degli anni Sessanta.

Pasolini è stato l’intellettuale e l’artista italiano che più di tutti ha «gettato il proprio corpo nella lotta», esponendo se stesso, la propria carnalità, come esempio e monito, attuando fino all’ultimo una feconda strategia comunicativa che ha trovato nella parresìa, cioè nella libertà di «un dire tutto, un dire diverso, un dire l’altro» (Bazzocchi 2017, p. 11), il punctum di quello che possiamo definire, con Roberto Esposito, il suo «pensiero vivente» (Esposito 2011, p. ), la sua visione biopolitica.

Nel contesto della filmografia pasoliniana Teorema mostra un tasso di ambiguità e una potenza descrittiva uniche, anche per via del frangente cronologico in cui si colloca, nel cuore cioè di quel fatidico ’68 che Pasolini vive in controtendenza, schierandosi con la poesia Il PCI ai giovani dalla parte dei poliziotti e non degli studenti ribelli e inaugurando nuove modalità di messa in crisi dell’ordine borghese. Trattandosi di un’opera doppia, per l’articolazione in forma letteraria e filmica, Teorema offre un campo di indagine frastagliato e complesso, soprattutto per la presenza sulla pagina e sullo schermo di sei personaggi e sei corpi ad altissima densità spettrografica, capaci di declinare – grazie a una dirompente tensione visiva – una molteplicità di gesti, sentimenti, e ferite identitarie.

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I found pain in the light and beauty in darkness.

 

 

Vi è un’immagine chiave nel densissimo e poetico Blind di Duda Paiva: quella che ci mostra una ‘figura’ di guaritrice ruotare su se stessa in una danza circolare, un vortice estatico che sembra far turbinare dal palcoscenico alla sala la ridda di motivi che l’artista brasiliano tesse e dipana lungo tutto lo spettacolo. La sequenza sembra inghiottire i nodi intrecciati fino a quel momento per scioglierli, lasciandoli sbozzolare fuori come farfalle dalle larve.

Corde, nodi, tessitura, bozzoli che dischiudono il creaturale: non sono solo immagini metaforiche dei procedimenti applicati, bensì anche gli oggetti scenici che incarnano la drammaturgia. Una drammaturgia dalle maglie perfettamente disegnate e insieme ‘larghe’, che tesse motivi lucidamente scelti ma lascia aperte possibilità molteplici di stratificazioni. Proprio come le corde presenti in scena, che si intricano e si dipanano grazie alle mani sapienti dell’artista, danzatore di formazione che trova nell’arte delle figure il terreno più fertile per la ricerca sul corpo nelle sue relazioni con la materia e con gli oggetti.

La corrispondenza tra immaginari evocati e materia scenica è impressionante. Un rincorrersi di immagini e di senso, mai esibito né compiaciuto, bensì affidato alla capacità associativa dello spettatore, provocata nelle sue potenzialità visionarie. Come spesso accade nel teatro di figura, la rappresentazione non si dà mai in quanto univoca, le prospettive si sdoppiano e si sovrappongono.

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Nel mondo dei media always on, che quotidianamente ci investono con una Ê»granularità di stimoliʼ da gestire con sempre più abile multitasking, il teatro, tra le più antiche forme di comunicazione artistica, ridefinisce il proprio statuto e la propria funzione mediali tramite l’appropriazione e l’elaborazione dei linguaggi attivi nel mediascape contemporaneo.

La questione dello sviluppo dell’arte teatrale in parallelo all’evoluzione della comunicazione e delle sue tecnologie, già asse teorico stratificato di riflessioni e traiettorie di ricerca, si arricchisce di un nuovo, significativo, momento di analisi e divulgazione con il volume Teatro e immaginari digitali. Saggi di mediologia dello spettacolo multimediale a cura di Alfonso Amendola e Vincenzo Del Gaudio (Gechi Edizioni, 2018).

 

 

Pubblicazione collettanea dalla spinta vocazione prismatica, il testo concentra l’attenzione di diversi studiosi nei confronti del «plesso semantico che tiene insieme il teatro con i nuovi media digitali» (Amendola, p. 18), nel segno di una prospettiva di ricerca duplice, media-archeologica e sociologica, ben argomentata nell’introduzione dai curatori.

Il primo approccio, seguendo l’intuizione dello studioso Jussi Pa­rikka, si fonda sull’ «investigate the new media cultures through insights from past new media» (Parikka, 2002); il che significa, nell’indagine sul medium-teatro, riconoscere e valorizzare gli spettacoli pionieristici nell’uso delle tecnologie analogiche, che dagli anni Ottanta del secolo scorso sono riusciti a rideterminare i rapporti di forza tra teatro e media.

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Nel 2003 Agnès Varda riceve l’invito a partecipare alla 50° Biennale di Venezia, all’interno della sezione Utopia Station: un’area di transito e in transito, progettata come lo spazio di una stazione, dove poter sostare e osservare contributi artistici di varia natura, provenienti da tutto il mondo. Aderiscono al progetto oltre 150 tra artisti, architetti e interlocutori che non fanno necessariamente parte del panorama artistico contemporaneo. Agnès Varda, tra questi ultimi, nell’accogliere l’invito propone per l’occasione un’installazione videosonora. Da questo momento per la cineasta belga si aprono nuove opportunità, sia sul piano dei territori artistici, fino a quel momento videofilmici e fotografici, sia su quello della scrittura. Pur mantenendo i principi compositivi che ne caratterizzano da sempre il lavoro, a partire da Patatutopia – questo il titolo della videoinstallazione – i tratti della multimedialità interverranno nella scrittura di Agnès Varda consentendole di ampliare, strutturalmente, le declinazioni dei dispositivi di ripresa e i modi della rappresentazione del racconto. O, della ex-peau-sizione, per dirla con il neologismo di Jean-Luc Nancy, subentrato proprio al termine Ê»rappresentazioneʼ, peraltro con un rinvigorimento di senso dato dalla sostituzione, al suo interno, della sillaba Ê»poʼ con la parola omofona peau, pelle.

A fondamento dell’intero lavoro di Varda c’è, infatti, un Ê»discorsoʼ aperto allo sguardo, alla presentazione del racconto più che alla sua rappresentazione, attraverso uno s-velamento progressivo operato dai mezzi di ripresa prima e poi di montaggio, che va di pari passo, autoalimentandosi, con la creazione-rivelazione di immagini e suoni da condividere. Un togliere i veli alla realtà, andando oltre la pura documentazione della stessa, per far affiorare un mondo-corpo fatto di Ê»piccole coseʼ; e forse, proprio per questo, maggiormente incisivo.

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A ricordarci che le Ê»questioni di pelleʼ hanno una rilevanza di genere, una testata come Ê»BellaWeb.itʼ allorquando si preoccupa non solo di fornire alle sue lettrici – e ai suoi eventuali lettori – opportune indicazioni sulla cura dell’epidermide femminile ma anche di informare sulle locuzioni correlate. Nel riportare il significato della formula «non sto più nella pelle», sulla scorta del Dizionario dei modi di dire Hoepli, ne riconduce la genealogia alla nota favola di Fedro «dove la rana per diventare più grossa si gonfia fino a scoppiare» [fig. 1].

L’apologo, nella sua componente pedagogico-punitiva, non sembrerebbe in linea con la definizione data invece dell’«attesa frenetica di qualcosa di piacevole con grande gioia e impazienza», oppure della «manifestazione di una tale eccitazione da sembrar sul punto di schizzare fuori dalla pelle, incapaci di trattenersi». L’accostamento è però funzionale a rilevare il portato stratificato dell’espressione, facendoci muovere così tra le pieghe delle parole come tra le pieghe della pelle, invece che schiacciarci nella chiusura perentoria della definizione. Da un lato si richiama infatti la valenza identitaria connessa al binomio essere/apparire, dove la muta è riconducibile tanto a una condizione di costrizione che porta a Ê»scoppiareʼ, quanto a un cambiamento espressamente ricercato, volto a lacerare la pellicola che dà forma e quindi anche riconoscibilità in un ordine simbolico; dall’altro, si espone il ventaglio emozionale che induce o accompagna tale muta, dal momento che le pelli, tutt’altro che materiale inerte, vibrano e respirano.

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  • Arabeschi n. 12→

Studiare il corpo (e i corpi) al cinema significa anzitutto considerare due distinte, sebbene interrelate, dimensioni. Da una parte, i film (e in generale i prodotti audiovisivi) rappresentano i corpi: li traducono, cioè, in immagini visive e sonore costruite attraverso molteplici forme di sguardo, caricandoli di significati di volta in volta differenti, e proiettandoli fuori dal mondo fisico e carnale e dentro un universo di fantasie, modelli e repertori immaginari. Dall’altra, i corpi sono anche (e soprattutto) una delle materie principali attraverso cui il cinema, la televisione e le arti elettroniche formano e sviluppano il loro discorso, la loro “parola audiovisiva”: pensiamo, ad esempio, a come i gesti e le voci degli attori e delle attrici partecipino alla produzione e alla messa in forma del racconto nel cinema narrativo, a come la performance corporea stia spesso alla base delle sperimentazioni videoartistiche; o ancora alla centralità assoluta del corpo (parlante, danzante, cantante, in ogni caso “presente”) che ha caratterizzato la comunicazione televisiva fin dalle sue origini.

Pensare il corpo negli scenari mediali obbliga a misurarsi con un oggetto visibilissimo ma intimamente sfuggente. Allo stesso tempo portatore e produttore di senso, il corpo cinematografico si impone come rappresentazione (e, dunque, come incarnazione di una pluralità di significati sociali, culturali, autoriali, e così via) e insieme come entità performativa, capace di creare significati attraverso la propria fisicità.

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Ed è vero che tu avevi troppa pelle. Ma, sotto tutti quei rivestimenti, come sapere di che cosa era fatta? Attorno a te, ti avviluppavano tante stoffe orizzonti che tu non conoscevi i tuoi bordi.

Luce Irigaray

 

 

 

Chi scrive è Renzo Renzi, studioso di Michelangelo Antonioni, e la suddetta Eleonora, destinataria di questa spiritosa lettera-articolo, apparsa sulle pagine di Ê»Cinema Nuovoʼ, è ovviamente Rossi Drago, una delle protagoniste del film Le amiche (1955) [fig. 1]. Ho scelto di iniziare il mio excursus sulle donne di Antonioni da queste considerazioni, anche se in un’accezione puramente pretestuosa, senza tener conto del loro reale peso all’interno del contesto storico-sociale degli anni Cinquanta, per almeno due motivi. Il primo è che nel suo Ê»elogio della donna vestitaʼ Renzi, oltre a chiamare in causa direttamente la pelle, utilizza la parola Ê»misteroʼ a proposito della femminilità, aspetto che sarà centrale nel prosieguo del discorso. Il secondo è che le sue parole mi hanno fatto tornare in mente una battuta abbastanza emblematica pronunciata nel film da una delle amiche, la civettuola Mariella (Annamaria Pancani) la quale, nella famigerata sequenza della gita al mare, seduce Cesare (Franco Fabrizi) facendo infuriare Momina (Yvonne Fourneaux). I due vengono sorpresi ad amoreggiare in un anfratto della spiaggia e, nel ricomporsi, Cesare suggerisce a Mariella di darsi una sistemata perché ha il vestito sporco di sabbia. La risposta della giovane si ricollega in qualche modo a quanto scritto da Renzi: «Lo sai qual è il vestito della donna? La pelle» [fig. 2]. Lungi dal voler problematizzare la questione dell’habitus, che ci porterebbe inevitabilmente a esondare nello sconfinato territorio dei rapporti tra il cinema di Antonioni e l’universo della moda, mi limito qui a constatare che il mistero della femminilità antonioniana si inscrive in un apparato visivo di stratificazioni, tramite cui diventa possibile esaminare le caratteristiche formali della sua poetica. È il corpo della donna in sé ad essere Ê»stratoʼ – derma, tessuto, superficie, involucro, filtro, specchio – all’interno di un flusso sinestetico, tensivo ed enigmatico, in cui risulta annullata la differenza convenzionale tra esterno e interno, unione e separazione, oggettivo e soggettivo, personaggio e paesaggio, sfondo e figura, vero e falso, aisthesis e senso. Da questo punto di vista, si tratta dello stesso mistero che, secondo Antonioni (come si evince dalla celebre dichiarazione di poetica contenuta nel testo del 1964 Prefazione a «sei film»), è riferibile all’immagine cinematografica e alla potenza fotogenica vincolata alla sua ontologia: «Noi sappiamo che sotto questa immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto questa un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà». L’esperienza del mondo è segnata da un’ambiguità radicale, dal disaccordo creativo tra percezione e immaginazione, dall’insanabile lacerazione dei legami emozionali ed esistenziali, dalla separazione tra i corpi (e le menti), dalla metamorfosi perpetua del senso e dall’impossibilità di comprendere in maniera univoca le parole, le persone e le cose. Per questa ragione la realtà deve essere costantemente interrogata, decifrata, letta per gradi, trasfigurata, dilatata, sottoposta a insindacabile blow-up, attraverso una processualità visiva aperta, libera, scettica, problematica, Ê»estraniataʼ, per dirla con Lorenzo Cuccu: «[…] una forma di visione le cui strutture o articolazioni spazio-temporali svolgono una funzione per così dire “autorappresentativa”, nel senso che servono a rendere percepibile e a fare protagonista dell’immagine filmica l’esperienza visiva che l’autore viene compiendo sul mondo visibile, nelle sue varie possibilità di articolazione e di specificazione e dunque nella sua mobilità e pluridirezionalità di relazioni».

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Stella lucentissima nell’orbita breve del larmoyant popolare, Yvonne Sanson è probabilmente l’unica diva costruita a misura di melodramma (Morreale 2011, p. 140; Bayman 2015, p. 11), destinata a risplendere e a tramontare assieme alle dolenti pellicole che furoreggiavano sugli schermi italiani del secondo dopoguerra. Chi guardi alla sua misconosciuta carriera, si accorge, invero, che l’attrice ha attraversato tutti i generi del cinema popolare, dal comico allo spaghetti western, dal film in costume al thriller erotico, comparendo in circa cinquanta titoli disseminati nell’arco di un trentennio. Così, bionda e sciantosa, impersona la bulgara Sonia al fianco di Totò in L’imperatore di Capri (L. Comencini, 1949), perfetta spalla comica in quello spumeggiante e quasi astratto gioco di fraintendimenti, burle e travestimenti; poi, castana e posata, interpreta con grazia la paziente moglie di Vittorio De Sica, un lubrico governatore borbonico, in La bella mugnaia (M. Camerini, 1955), dove il ruolo di seconda attrice – la vedette in questo caso è Sophia Loren, seducente e campagnola, con calze a righe e corsetti attillati – le consente di impersonare autorevolmente la figura della governatrice. E ancora poi, a partire dagli anni Sessanta, capelli bruni e disciplinati da eleganti messe in piega, interpreta numerosi e defilati ruoli materni in pellicole molto diverse fra loro: in Il re di Poggioreale (D. Coletti, 1961) sopravvive, a fianco del marito (Ernest Borgnine), alla morte dell’unico figlio; in Il profeta (D. Risi, 1967) è la moglie inquieta di un ricco industriale, madre di un lascivo rampollo, e balla il twist con Vittorio Gassman; nel rocambolesco Don Franco e Don Ciccio nell'anno della contestazione (M. Girolami, 1970) e nell’orrorifico e scollacciato AAA Massaggiatrice bella presenza offresi (D. Fidani, 1972) è alle prese con figlie ribelli e scapestrate, che rischiano di mettersi nei guai; infine in Il conformista (B. Bertolucci, 1970) è la madre di Giulia (Stefania Sandrelli), veste abiti sobri, dal taglio impeccabile, ed ha a cuore soltanto la forma esteriore della famiglia ‘perbene’, preoccupandosi sopra ogni cosa di evitare lo scandalo.

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Da un dialogo a più voci sugli intrecci concettuali e interdisciplinari intorno a performance, arti performative, performatività e performativo prende origine la raccolta di saggi Reti performative. Letteratura, arte, teatro, nuovi media, riflessione edita a cura di C. Maria Laudando (Tangram Edizioni Scientifiche, 2015). Il merito del volume, da un lato, riguarda l’influenza della svolta performativa novecentesca sulla relazione tra letterarietà, teatralità e visualità e i suoi effetti nel panorama (post)mediale; dall’altro, tenta d’illuminare i confini, le soglie, i margini e le tracce ‘in-visibili’ delle pratiche discorsive, dei processi di ricezione e ‘rimedi-Azione’.

La nota introduttiva della curatrice anticipa gli echi tra i tredici interventi che articolano il confronto: l’assunzione di una prospettiva inter/antidisciplinare e l’apertura a uno spazio liminale tra «teoria e prassi, forma e materia, progettualità e azioni» (p.17). Il volume si divide in tre ‘inter-sezioni’. La prima dipana i fili delle questioni teoriche che ruotano intorno ai concetti legati al termine ‘performance’, ricostruisce uno schema storico-culturale e delinea un approccio metodologico. La sezione centrale, intitolata Il gioco delle parti, affronta i cambiamenti nelle relazioni e nei ruoli ai confini tra diverse pratiche artistiche, (s)oggetti reali e virtuali nel corso del Novecento e nel panorama contemporaneo. Il legame generale tra teoria e prassi emerge chiaramente nell’ultima parte dedicata agli Intrecci e alle dissolvenze identitarie delle pratiche discorsive e dei dispositivi come performance culturali. Il ruolo delle ‘parole-immagini-azioni’ nelle pratiche quotidiane e nelle ricerche artistiche, anticipato già nell’introduzione, ritorna specularmente nel dialogo finale con gli artisti Bianco-Valente. Esse danno vita a un complesso «ecosistema mediatico» (Esposito, p.88), un insieme di processi e interazioni, capace di ‘rendere visibile’ i fili di una (nuova) geografia di memorie, immaginari ed esperienze di sé e dell’Altro.

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