Nina's, Queen Lear

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Formatesi nel 2007 al Teatro Ringhiera di Milano da un’intuizione di Fabio Chiesa, le Nina’s sono un collettivo teatrale en travesti che, grazie al fortunato incontro con Francesco Mieli – regista di opera lirica edirettore artistico del gruppo –, ha saputo creare un proprio linguaggio imperniato sulla plasticità e teatralità del performer drag queen, facendone il fulcro della propria ricerca estetica. Nasce così un fare teatro che inchioda lo spettatore di fronte agli interrogativi della contemporaneità e lo spinge a confrontarsi con il proprio senso identitario e comunitario; un’estetica imperniata sull’elemento corporale dove l’eccesso non è però mai fine a se stesso, ma diviene piuttosto uno sguardo sagace sulla realtà e uno strumento di sottile critica sociale. Dopo il successo delle prime riscritture di grandi classici teatrali – Il giardino delle ciliegie (Anton Chekhov, 2012), L’opera del mendicante (John Gray, 2015), Vedi alla voce Alma (Jean Cocteau, 2016) –, il 10 gennaio 2019 la compagnia ha debuttato al Teatro Carcano di Milano con la rivisitazione queer di una tra le più celebri e luttuose tragedie shakespeariane, un Re Lear calato in chiave contemporanea dove il sovrano del titolo è una signora affetta da demenza senile e la brughiera una Gran Bretagna pre-Brexit alle prese con i migranti.

Queen Lear attinge apertamente a situazioni e personaggi della tragedia di Shakespeare, sempre adattandoli però ai nostri giorni. Le drag queen interpretano i personaggi shakespeariani entrando ed uscendo dalla propria parte di continuo, dimodoché la loro esperienza personale in quanto interpreti (queer) che rivestono ruoli drag diviene essa stessa materia narrativa: “Di rimorsi / di rimpianti / tempo più non è / per guardare ancora avanti”; “L’avventura di una vita / spiegare non si può / nelle cose che hai lasciato”.

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Humanhood, Zero

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Non-essere come condizione imprescindibile perché vi sia essere. Nucleo di concentrazione di un’energia incontenibile che precede e permette la generazione. Cominciamento dell’azione come svolgimento senza alcuna reversibilità possibile. Enorme occhio dello sguardo che contemporaneamente esplora e viene modificato. Ancora, dispositivo di mutamenti capaci di ridisegnare di volta in volta la scena in modo irripetibile. È tutto questo insieme, lo ‘Zero’ che dà il titolo al duetto di Júlia Robert e Rudi Cole, fondatori nel 2016 della compagnia britannica Humanhood, che fin da subito ha sviluppato un originalissimo percorso che coniuga la ricerca sulla danza a quella sulla fisica, l’astrofisica e sul misticismo orientale e che in pochi anni ha visto aumentare notevolmente l’interesse del pubblico e della critica nei suoi confronti, tanto nel Regno Unito quanto all’estero. Tutto questo, dicevamo, materializzato al centro della scena in una circonferenza perfetta di polvere bianca.

Sigillo dell’opera – nero su bianco sul programma di sala e in voce fuori campo sul finale della performance – è la citazione dal fisico teorico Nassim Haramein: «Le informazioni nell’universo possono essere comunicanti in modo istantaneo. Quindi quando muovi il tuo mignolo, tutto nell’universo sa che hai mosso quel dito, e aggiusta per esso». Fisica e danza fuse insieme nell’idea dell’informazione come gesto, dunque, che nel suo anche infinitesimale compiersi modifica istantaneamente il circostante. Un incessante tradursi e trasferirsi di energia che si riversa da un corpo all’altro, microscopico o mastodontico che sia, da un movimento all’altro, sia esso infinitesimale o planetario, tutto senza soluzione di continuità, in un collegamento universale che comprende ogni cosa, dalla nascita del mondo a ciascun istante presente.

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Con questa doppia recensione su The Cleaner, la prima antologica italiana dedicata a Marina Abramovic – ospitata dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 negli spazi di Palazzo Strozzi, a Firenze – vorremmo offrire un contributo che abbracci non solo la mostra in quanto tale, ma offra, altresì, una riflessione teorica e tecnica insieme, tesa a restituire una mappa ad ampio spettro della poetica dell’artista montenegrina e della relazione con i dispositivi visivi e audiovisivi in essa contemplati. In questo senso, il contributo di Chiara Tognolotti mette a tema la relazione tra performance e memoria attraverso uno snodo centrale della teoria del cinema, ovvero il pensiero sulla fotogenia. Il contributo di Andreina Di Brino rimette in gioco le stesse tematiche da una postura analitica, sondando, in particolare, il potenziale espressivo dell’azione performativa nel passaggio da «un’arte del corpo» a «un’arte del medium», dal ‘qui e ora’ a un tempo espanso.

 

Due volti, un uomo e una donna – Ulay e Marina – si affrontano, vicini. Seduti sulle ginocchia, vestiti di abiti di cotone leggero, sono inquadrati in piano medio. Lo spazio intorno a loro è vuoto, neutro. Le bocche si aprono ed emettono un suono lieve che diviene sempre più intenso con il passare dei secondi; la telecamera si avvicina lenta ai volti fino a riprenderli in primo piano. Lo sforzo dell’emissione vocale si disegna sulla pelle dei due: i nervi delle gole si disegnano netti, gli occhi si sgranano, il sudore e le lacrime rigano le epidermidi. Quando la performance si avvia alla fine, dopo quindici minuti, Marina e Ulay urlano uno nella bocca dell’altra e la telecamera è vicinissima, così da riempire lo schermo dei loro volti.

 

 

Il motivo del registrare e riprodurre in video le performance rimane per me uno degli snodi critici più ricchi di suggestioni delle sale di Palazzo Strozzi. Marina Abramović pone a centro radiante dei suoi lavori una fisicità forte e necessaria: «non potevo realizzare un solo lavoro senza la presenza del pubblico, perché questo mi dava l’energia affinché io riuscissi, attraverso un’azione specifica, ad assimilarla e a rimandarla indietro, a creare un vero campo energetico», ha affermato spesso.[1] Eppure la distanza che la ripresa video sembra instaurare non smussa l’effetto di presenza, giacché la camera non agisce da semplice testimonianza bensì stringe una relazione intensa con i corpi e gli spazi della performance non solo perché il tempo della performance coincide con quello della registrazione ma giacché, a me pare, le posture e le movenze dell’artista mediate dallo schermo non appaiono lontane nel tempo e nello spazio ma, al contrario, quello stesso schermo diviene una superficie porosa percorsa da un flusso di emozioni che mescolano chi guarda alle immagini, come disegnando un luogo abitato da entrambi. Così quando ho visto, nella prima sala della mostra fiorentina, il video di AAA−AAA − girato una prima volta a Liegi nel febbraio 1978 per la televisione e filmato di nuovo ad Amsterdam pochi mesi dopo, in giugno – non ho potuto fare a meno di andare con la mente, mentre sentivo il potere intenso di quelle immagini, alle teorie sul cinema degli anni Venti, e in particolare agli scritti di Louis Delluc, Jean Epstein e Béla Balász, innervate dai motivi della visione aptica e della trama di emozioni che intesse la superficie dello schermo, oggetto polimorfo, tessuto/specchio/pellicola che avvolge i corpi degli attori/performer, le loro immagini e il pubblico in un unico spazio percettivo e affettivo.

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Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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1. Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi

A febbraio 2014 una certa Martina Dell’Ombra de Broggi de Sassi annuncia la sua «scesa politica» in un video postato su YouTube e rilanciato sui suoi profili social (pagina Facebook e account Twitter). Dalla webcam della sua stanza, la giovane si presenta: «Sono una ragazza normale con un grande sogno politico…» e, con uno spiccato accento romano, aggiunge «Mi candiderò alle elezioni con un partito principale perché se annamo, annamo pè vince!». Poi a proposito della politica: «Mi ricordo… quando Berlusconi è sceso in campo e ha fatto il discorso in televisione, io ho pianto tutto il giorno perché sentivo che si stava verificando un evento importante». In poco più di ventiquattro ore l’annuncio dell’aspirante politica ottiene migliaia di visualizzazioni che aumentano giorno dopo giorno in maniera virale, e in concomitanza con la pubblicazione di video successivi in cui racconta di vivere a Roma Nord con la famiglia e con un barboncino nano, di avere la servitù e l’autista, e di avere studiato public relations all’Università telematica Unitelma Sapienza. Illustra inoltre il suo programma politico che prevede l’«I Phone di cittadinanza», soluzioni per il lavoro, «Io conosco tutte persone che lavorano, se non le conoscete ve le presento io», e propone un «ritorno alla moneta personalizzata» per rilanciare l’economia. Lancia la sua campagna #votamarti, corteggia i leader politici in auge (prima Matteo Renzi e poi Matteo Salvini), e inizia a dispensare consigli sui più disparati temi di attualità. Esprime un’opinione su tutto, dai gay che «sono nati strani… ma non è colpa loro», all’outfit ideale per le donne in politica che deve essere «rosa antico perché la politica è una cosa antica», fino alle pari opportunità: «Noi donne dobbiamo tornare ad avere meno diritti e più privilegi. Avere il privilegio di non lavorare, di farsi mantenere, di dedicarsi alle cose belle della vita che non è lavorare».

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All’interno delle categorie paradigmatiche rilevate da Rizzarelli nella sua «cartografia dell’attrice che scrive» (Rizzarelli 2017), Una vita all’improvvisa (2009) [fig. 1] di Franca Rame si colloca nel genere della narrazione autobiografica, scritta quasi a fine carriera (Rame avrebbe compiuto 80 anni pochi mesi dopo l’uscita del volume) e votata «a consacrare l’immagine divistica già affermata e consolidata da tempo» (ibidem). Ne viene fuori un testo in cui interviene anche Fo e in cui emerge una tensione dialogica dettata dal desiderio di cercare il contatto con un ipotetico destinatario, un «lettore privilegiato» (Battistini 2007), che ora è il marito ora è il pubblico che tanto l’ha amata e seguita durante la sua lunga carriera. Un racconto artistico e biografico in forma di affabulazione teatrale con tanto di didascalie per regolare i meccanismi scenografici e registici di un’ipotetica messa in scena (i disegni di Fo accompagnano per immagini questa storia, quasi uno per pagina), che oscilla sul terreno mutevole, «vivente e interpretante della memoria» (Battistini 2007) in cui Rame ripercorre, a balzi ed episodi, la sua vita vissuta «in modo esagerato», a cominciare dagli anni dell’infanzia fino alle prime esperienze d’attrice, apprendendo così «l’arte antica di andar all’improvvisa», ovvero di recitare a soggetto senza seguire integralmente un copione (ecco il titolo del volume), nonché il suo cammino a fianco del marito.

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1. Questa è la storia di un gruppo di ragazzi…

Con questa premessa Paola Pitagora introduce il suo Fiato d’artista, libro di memorie che ripercorre, a distanza di quasi quarant’anni, le tensioni avanguardistiche della Roma degli anni Sessanta. A condurre il lettore tra gallerie d’arte, piazze, bar, palcoscenici, set cinematografici e case private, sono le voci intrecciate di due amanti appassionati che all’epoca fecero della loro relazione il motore comune dell’esperienza artistica. È Pitagora stessa a spiegare che l’idea di scrivere questo romanzo autobiografico è nata rileggendo, negli anni Novanta, i quaderni scritti con Renato Mambor ai tempi della loro storia d’amore. Il risultato è un libro composito, fatto non solo della testimonianza privata dei due ma anche del racconto con cui Pitagora cuce insieme una lettera con l’altra, usando tutto ciò che può servire a dar di nuovo corpo a quella storia: molte parole certamente (oltre alle sue anche quelle di chi scrisse di quegli anni, da Pasolini a Calvesi), ma anche immagini scelte per spingere il lettore all’incrocio fra arti diverse là dove, all’epoca dei fatti, si attivava ogni creazione artistica [fig. 1].

Di per sé Fiato d’artista è un libro che permette di cogliere molti aspetti di una doppia vocazione realizzata dall’interazione tra scrittura e performance (Rizzarelli 2017). Intanto perché chi scrive è un’attrice versatile che ha raggiunto un pubblico molto vasto, popolare e non, frequentatore di teatri o appassionato di cinema, amante degli sceneggiati televisivi o anche semplicemente avventore casuale davanti ai programmi Rai degli anni Sessanta. In secondo luogo perché in questo libro, così materico nella sua composizione, si parla molto del lavoro dell’attore nella sua inafferrabile dimensione antropologica. A farlo sono i due protagonisti che si incontrano proprio a un workshop di recitazione nel 1958. Sedici anni lei, ventidue lui. Grandi doti mimiche il giovane pittore del Quadraro; puro potenziale invece la ragazzina emiliana che a quel mondo si era avvicinata principalmente per noia. Poco più di un anno dopo i loro percorsi erano già delineati: Mambor allestiva la mostra alla Galleria Appia Antica con Cesare Tacchi e Mario Schifano, mentre Pitagora, sotto contratto con la casa di produzione cinematografica Vides di Franco Cristaldi, cominciava a frequentare le lezioni di recitazione di Alessandro Fersen a via della Lungara. «La vita per noi è cambiata» scriveva allora Pitagora, «io vado a scuola tutti i giorni, sto in un ambiente nuovo. Ed ecco le naturali problematiche, abituata com’ero a pensare con la tua visione» (Pitagora 2001, p. 36. Corsivo mio). L’atto della visione è centrale in Fiato d’artista certamente per la sua doppia natura di opera verbo-visuale (Cometa 2017), ma anche perché esso nutre la formazione attorica di chi scrive: «avrei potuto diventare attrice se non avessi incontrato quel buffo pittore? Forse sì ma in altro modo. Intanto, il vedere. Un pittore insegna in qualche modo a vedere» (Pitagora 2001, p. 56).

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Nel panorama abbondante, diversificato e discontinuo delle scritture delle attrici teatrali – in attesa di un censimento vero e proprio – intendo mettere a fuoco i seguenti punti.

 

1. 1887, la prima autobiografia d’attrice in Italia Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori

Tutti e quattro i protagonisti della generazione del Grande attore – Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Antonio Petito – scrivono le loro memorie ma non per questo è meno forte il gesto di Ristori di riconoscersi soggetto degno di biografia, sia pure novant’anni dopo il pionieristico Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Le memorie sono uno strumento fondamentale di costruzione e diffusione della propria immagine pubblica, dunque fissano immagini artificiali e idealizzate che vanno decodificate. Ristori fornisce di sé un’immagine edificante di moglie e di madre ma nello stesso tempo mette in luce i suoi poteri come primadonna e capocomica e non ne nasconde i lati faticosi. E, soprattutto, oltre alle vicende biografiche, propone sei studi approfonditi dei maggiori personaggi interpretati [fig. 1]. Da questo punto di vista rappresenta un modello avanzato rispetto a produzioni successive anche recenti, pur significative: la stessa Valentina Cortese – indiscutibilmente una diva – è avara di approfondimenti sul suo lavoro specifico di attrice (Quanti sono i domani passati) e ancor meno dicono le memorie di Ilaria Occhini (La bellezza quotidiana).

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Sebbene non si muovano all’interno del divismo attoriale, bensì in quello del divismo in sé, le webstar costituiscono un caso particolarmente calzante nella questione delle divagrafie. L’autobiografia, infatti, è un elemento imprescindibile del bagaglio della perfetta diva del web [fig. 1], indipendentemente dall’età estremamente giovane. Un fenomeno transmediale (Jenkins 2006) dal quale risulta una produzione di opere-gadget, utili soprattutto a contenere un autografo durante gli incontri tra le piccole ammiratrici e la loro beniamina [fig. 2]. A riempire le pagine, oltre le numerose fotografie, sono gli stessi aneddoti già noti all’interno dei social media nei quali queste giovani star operano. Si tratta di vite comuni nelle quali qualsiasi ragazzina può rispecchiarsi, ma dove aleggia il barlume della fama che riesce a farle sognare. Nel divismo cinematografico tale processo di empatia riguarda solo alcuni attori (Jandelli 2007), e tramite la sovrapposizione dei concetti persona-personaggio (Metz 1977); anche sul web avviene qualcosa di simile, con la differenza che chiunque all’interno di una cultura dell’iperselfie (Scrivano 2015) costruisce un sé-personaggio mediale; allo stesso tempo qualsiasi elemento pubblicato alimenta un’autobiografia costante: le ragazze in particolare vi partecipano sempre di più attraverso forme molto diverse (Maguire 2018).

Quando i content creators raggiungono una fama sufficiente da possedere un valore economico, è molto probabile corredino la propria produzione di almeno un libro stampato. Il contenuto può dipendere dalle tematiche affrontate (il caso dei manuali e i libri di divulgazione), oppure attuarsi nella forma di romanzo e autobiografia. Queste ultime due opzioni rappresentano un ‘concime’ per la vena critica delle book-community. In particolare su YouTube, dove è possibile dilungarsi in argomentazioni, se ne contesta lo scarso valore letterario (ad esempio Matteo Fumagalli dedica una serie alla critica ironica dei ‘libri trash’, dove compaiono i libri degli youtuber), e la vacuità della retorica del sogno che infesta quasi ogni produzione (si veda il video di Ilenia Zodiaco dal titolo ‘Youtuber che scrivono libri e la retorica dei sogni’).

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