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Il presente saggio è dedicato al caso di studio dell’adattamento Incendies (2010), film di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), tratto dalla omonima pièce di Wajdi Mouawad. Si tratta di un esempio in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’intermedialità, al fine di evidenziare le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora, a dispetto della millenaria storia ricettiva, la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario. I due testi infatti lasciano emergere nella loro complessa stratificazione intertestuale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura. Puntando lo sguardo soprattutto su due aspetti, quello della costruzione drammaturgica e quello del motivo della cecità, si intende evidenziare l’originale scambio dialogico che i due testi intrattengono con la fonte classica.

This essay is dedicated to the case study on the adaptation of Incendies (2010), a movie by Denis Villeneuve (presented in Italy under the title La donna che canta), based on the homonymous piece by Wajdi Mouawad. It is an example which requires to interweave and overlap the various approaches derived from myth criticism and from the studies on intermediality, in order to highlight the intersemiotic variations, the constants and the metamorphoses of a myth which – despite its thousand years history of reception – still offers a profound vitality, and persists in our imagination. From the two texts, in their complex intertextual stratification, together with several references to classical mythology emerge clear echoes of the oedipic tragedy, albeit rewritten and filtered in a context of overall dislocation which affects characters, places, themes and structure. The specific focus on two aspects – the construction of the dramaturgy and the theme of blindness – intends to shed light on the original dialogical exchange both texts cultivate with their classical source.

 

Il film Incendies (2010) di Denis Villeneuve (presentato in Italia con il titolo La donna che canta), nato dall’adattamento per il grande schermo della omonima pièce di Wajdi Mouawad, mostra nella sua complessa stratificazione intertestuale e intermediale, insieme a diversi riferimenti al mito classico, evidenti rimandi alla tragedia edipica, riscritti e riletti in un contesto di dislocazione complessiva, che investe personaggi, spazi, temi e struttura drammaturgica. La pièce dell’acclamato artista libano-canadese, Incendies (2003), secondo atto della quadrilogia scenica Le sang des promesses (che comprende Littoral, 1999; Forêts, 2006 e Ciels, 2011) lascia emergere echi molto evidenti rispetto al testo sofocleo e alla sua tradizione e ricezione, echi che vengono ripresi e rideclinati nella trasposizione cinematografica in modo a volte originale a volte fedele alla scrittura di Mouawad. Il presente studio propone dunque un caso in cui è necessario intrecciare e sovrapporre gli apporti diversi provenienti dalla mitocritica e dagli studi sull’adattamento, al fine di evidenziare le escursioni transmediali e le variazioni intersemiotiche, le costanti e le metamorfosi di un mito che mostra ancora la sua profonda vitalità e la sua persistenza nel nostro immaginario.

La prospettiva di indagine che si intende adottare è volta, in altri termini, a evidenziare la complessità della relazione fra i due testi: Incendies di Villeneuve non viene scelto cioè come semplice caso di adattamento, ma come esempio della dimensione intertestuale che investe a vari livelli qualsiasi trasposizione da un testo ad un altro e qualsiasi traduzione intersemiotica. Nell’analisi del processo di riscrittura da cui deriva il film ciò che si vuole rilevare in questa sede è il confronto con lo strato più profondo del palinsesto, con la fonte sofoclea e con la memoria mitica rispetto alla quale l’Edipo re rappresenta a sua volta una versione (seppur la più nota), nonché con la sua ponderosa tradizione ricettiva. La natura «multistrato»[1] dell’adattamento, messa in evidenza da Linda Hutcheon richiamandosi ai numi tutelari delle teorie della intertestualità (da Kristeva, a Genette a Barthes),[2] appare in questo caso in tutta la sua più feconda luminosità. Il rapporto fra il film e la pièce rende visibile (in senso letterale, come si mostrerà più avanti) in maniera emblematica l’«incrocio di superfici testuali», il «dialogo tra parecchie scritture», il «mosaico di citazioni» per cui «ogni testo è assorbimento e trasformazione di un altro testo»[3] e dunque la paradigmatica struttura a palinsesto di ogni adattamento. Per quanto ci si concentrerà sulle tracce del fantasma edipico presenti nel film e nella pièce, il focus del discorso rimane però il passaggio dall’uno all’altro ‘incendio’ e la considerazione del film come prodotto di una transcodificazione e come processo ermeneutico e creativo.[4]

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Disobedience, l’ultimo film di Sebastián Lelio, nelle sale italiane da alcuni giorni, racconta la storia di Ronit, fotografa londinese che vive a New York e torna a Hendon, nel sobborgo della capitale dove è cresciuta, subito dopo la morte del padre, il Rav Krucka, rabbino della comunità ebraica ortodossa che lei ha ormai abbandonato da sei anni. Al suo ritorno Ronit ritrova il cugino Dovid, erede degli insegnamenti del Rav, e scopre che ha sposato Esti, amica d’infanzia con cui lei aveva vissuto una appassionata relazione. I due sono gli unici che, seppur dopo un’iniziale ritrosia, non solo l’accolgono nella loro casa ma mostrano di voler condividere il suo dolore, mentre nel complesso gli abitanti di Hendon la condannano senza appello per avere detto addio alla famiglia, alla casa, alle regole della comunità.

Da molti acclamato come una storia d’amore proibito, Disobedience in realtà mette a fuoco le esistenze di tre persone colte in un momento di grande tensione, nel quale i loro destini tornano a intrecciarsi, a distanza di anni, prima di riavviarsi verso strade divergenti grazie a una ritrovata indipendenza. È insomma un inno alla sofferta e gioiosa facoltà del libero arbitrio, che dei rapporti umani (e di tutte le loro possibili sfumature – amorose, amicali, familiari) è radice ed essenza. Tale radice risulta tanto più indicativa quanto più i rapporti vengono osservati nella loro differenziante particolarità, attraverso l’obiettivo di un regista che ha sempre scelto (almeno fino a questo momento) di puntare lo sguardo sui destini individuali. La nuova ‘donna fantastica’ che Lelio sceglie di raccontare nel suo primo film in lingua inglese è infatti lesbica, ebrea ed esiliata da una comunità ortodossa.

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Sogno di vendere sempre più copie, ovunque nel mondo, e sono sempre insoddisfatto, nonostante i risultati siano stati buoni perché io ho un’ambizione ben più grande – e non me ne vergogno – ben più grande di quella di piazzare un po’ di copie e di avere qualche buona recensione. Il sogno è che magari queste mie parole, condividendole, possano davvero diventare uno strumento.

Roberto Saviano

 

 

A dieci anni dalla pubblicazione di Gomorra il ‘caso’ Saviano desta ancora grande interesse anche se l’attenzione si è decisamente spostata dalle vicende biografiche e letterarie del suo autore verso la potenza espressiva della serie televisiva, capace di catalizzare un numero impressionante di spettatori e di mobilitare larghe fasce dell’opinione pubblica. Lungi dall’essersi inaridita, l’onda transmediale di questo testo-feticcio degli anni zero continua a segnare l’immaginario contemporaneo, a suggerire trame, personaggi, icone che meritano di essere ricomposte e analizzate.

Consapevoli della porosità della ‘costellazione-Gomorra’, abbiamo scelto di verificare la tenuta del romanzo guardando oltre il suo orizzonte di carta, puntando l’attenzione sui frammenti visivi che ha generato, sulle scorie che si sono depositate nel passaggio dal teatro al cinema fino all’approdo fatale nell’orbita della serialità. La scelta di ‘rimappare’ le immagini di Gomorra ci ha permesso di recuperare discorsi e approcci differenti, con un taglio per lo più comparatistico ma a partire dai metodi propri dei film e media studies, che abbiamo organizzato secondo quattro direttrici principali.

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Mi pare significativo che Repubblica, per introdurre il nuovo libro di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, abbia parlato di «un romanzo vero, un romanzo-romanzo: con tanto di invenzione e fantasia». Quasi una forma di riconoscimento, indiretta e retrospettiva, della difficoltà a considerare Gomorra un romanzo vero e proprio, anche se molti – vedere per credere la pagina di Wikipedia – a suo tempo lo giudicarono e definirono tale. Per capire il senso di quello che nel frattempo è diventato l’universo mediatico di Gomorra, credo allora sia opportuno partire da qui, da questa domanda: qual è l’identità del libro di Saviano? A quale genere appartiene?

Fosse stato scritto negli Stati Uniti, cadrebbe nella categoria del new journalism, col quale condivide il tratto fortemente soggettivo dell’inchiesta giornalistica: il reporter non espone i fatti, al contrario li metabolizza in chiave narrativa per renderli appassionanti e, a dispetto della loro comprovata evidenza, vagamente improbabili [fig. 1]. In Gomorra la soggettività di Saviano trapela soprattutto dalla scelta di dare ai suoi reportage un tono elegiaco, di rimpianto, che corre sotto traccia lungo tutto il libro. Una vena dolente attraversa i capitoli, quasi che l’autore si rammaricasse costantemente, pur senza mai dichiararlo esplicitamente, del triste destino toccato in sorte alla sua terra. Sullo sfondo dei delitti e dei misfatti, dei crimini e degli scempi edilizi, è tangibile l’amarezza per lo sfacelo cui è andato incontro un luogo che avrebbe potuto conoscere un destino diverso («È strano come con chiunque parli, qualunque sia l’argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti. “È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch’io”. Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone»).

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«…veramente da vicino non è che fai così paura».

(Roberto Saviano a Salvatore Esposito)[1]

 

 

Quando Arabeschi ha pensato di dedicare una delle sue “Gallerie” ai dieci anni di Gomorra di Roberto Saviano, è stato subito chiaro che quel «Gomorra» non era il libro [fig. 1]. Certo, il libro era stato il punto di partenza, il gesto rivelatore, l’oggetto da cui far scaturire nuove riflessioni sulle forme narrative dell’impegno, ma Gomorra è un universo, di cui il romanzo è solo uno dei pianeti. I dieci anni di Gomorra, dunque, non vanno intesi come il compleanno di quella prima pubblicazione, ma come un lento e inesorabile percorso di ‘colonizzazione mediale’ che ha portato Roberto Saviano, di volta in volta con ‘truppe’ diverse, a marciare sulla carta stampata, sul cinema, sulla televisione, sul web. E tutti sappiamo quanto sia costata a Saviano questa marcia di continuo equivocata e strumentalizzata [fig. 2].

Senza esagerare, si può dire che Gomorra abbia rappresentato, in questo decennio, una sorta di passaggio obbligato sulla via di un’autocoscienza non solo civile e politica, ma in qualche misura anche mediale. Intendo dire che ha certamente rappresentato uno snodo decisivo nelle pratiche di avvicinamento dell’opinione pubblica ai temi della criminalità organizzata, ma ha altresì rappresentato un’occasione di riflessione sulla forma romanzo, sulla questione del realismo e dell’epica italiana, sulle nuove strade e sulla tradizione del nostro cinema (che è stato per la verità il medium che ha saputo sfruttare meno questa occasione, ne parla qui Emiliano Morreale), sulla serialità televisiva (dove gli effetti invece sono stati dirompenti, ben testimoniati da questa galleria) e infine sul web. A questo riguardo, nell’ultima pagina del romanzo, c’è un passaggio che può valere come indicazione di metodo per chi studia e combatte la camorra e al contempo come rivelazione del più complesso funzionamento dell’universo Gomorra:

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La catena di trasformazioni narrative che ha portato Gomorra di Roberto Saviano a Gomorra - La serie è sufficientemente ampia da indicare un processo culturale in atto nella scrittura audiovisiva industriale italiana. Sostenuta principalmente da un operatore/produttore come Sky, la serializzazione dei prodotti narrativi (cominciata con Romanzo criminale e giunta all’apice proprio con la serie tratta da Saviano), dà i suoi frutti anche presso altri player, da quelli più tradizionali (si pensi alla RAI e al progetto La mafia uccide solo d’estate) a quelli più innovativi (Netflix e l’operazione Suburra).

L’immagine di Ciro e Genny [fig. 1] che, quasi letteralmente, ‘si mangiano la faccia’, funge da esempio simbolico e indicativo della funzione epica seriale. Chi pensa che nel romanzo di Saviano questo elemento fosse poco presente, dimentica che furono proprio quel testo (di cui si è discusso a lungo, chiedendosi se si trattasse di fiction o non fiction) e quello di Giancarlo de Cataldo a far parlare di New Italian Epic al collettivo Wu Ming.

Categoria troppo presto caduta in disuso, e probabilmente osteggiata dal mondo accademico, NIE è stata (ce ne accorgiamo oggi) una intuizione tutt’altro che peregrina, in grado di spiegare non solo come si stavano muovendo alcuni scrittori contemporanei, ma anche poi come si sarebbero trasformate le operazioni creative dell’audiovisivo italiano. Il passaggio attraverso il film di Matteo Garrone, forse l’autore che più ha ‘raffreddato’ la materia narrativa, non ha in alcun modo interrotto la catena testuale che ha infine portato all’epica trascinante di Gomorra - La serie.

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Il saggio focalizza l’attenzione sul recente adattamento del romanzo As I Lay Dying (1930) in quanto primo tentativo cinematografico che mira a ricreare visivamente le peculiarità della scrittura di Faulkner. Un coro di quindici voci compone l’odissea della famiglia Bundren, il cui pellegrinaggio attraverso la mitica Contea di Yoknapatawpha fa da contrappunto al viaggio individuale dei singoli personaggi, espresso dal monologo interiore di ognuno di essi. La moltiplicazione del punto di vista, i continui salti temporali e il flusso di coscienza, nel quale si confondono realtà e sogno, rappresentano una vera e propria sfida per il mondo del cinema, raccolta solo di recente dall’attore e regista James Franco, nell’omonimo film del 2013. Attraverso un puntuale confronto col testo di partenza, il presente contributo analizza le strategie e le tecniche cinematografiche con le quali il regista ha tradotto per il grande schermo gli elementi narrativi del romanzo, in maniera originale e innovativa.

The essay focuses the attention on the recent adaptation of the novel As I Lay Dying (1930), because is the first cinematographic attempt that aims at visually creating the features of Faulkner’s writing. A chorus of fifteen voices composes the Bundren’s odissey, whose peregrination through the fictional County of Yoknapatawpha makes the counterpoint to the individual journey of the singles characters, expressed by various interior monologues. Multiple points of view, continuos time-jumps and stream of consciousness, in which reality and dream are confused, keep challenging the language of cinema. The actor and movie director James Franco accepted this challange in the 2013 film homonymous. Through a detailed comparison between the film and the novel, this paper analyzes strategies and cinematographic techniques exploited by the director to translate the narrative elements of the novel, in an original and innovative way

1. Adattamenti: non solo cinema

Benché non si tratti di un fenomeno moderno, quello degli adattamenti investe oggi i più disparati settori artistici e poiché si tratta di un processo culturale in larga espansione, merita una particolare attenzione nel campo della letteratura comparata.

Siamo circondati da ‘riscritture’: non solo cinema, televisione o teatro, ma anche web series, fumetti, videogiochi e parchi a tema possono essere il prodotto finale di un adattamento. La critica non è sempre unanime nel definire cosa è e cosa non è adattamento, ma la tendenza è spesso quella di considerarlo come un’opera minore o ancillare all’‘originale’, come spesso accade nel caso di film tratti da romanzi. [1]

E quando ad essere adattato sul grande schermo è uno dei romanzi più sperimentali e ambigui del modernismo americano, di certo il confronto è inevitabile; a maggior ragione se l’autore è un Premio Nobel di nome William Faulkner e il regista un eclettico James Franco.

 

2. James Franco e William Faulkner: l’incontro fra due mondi

James Franco non è solo una giovane icona del cinema di Hollywood, ma è un artista poliedrico che vive l’arte in tutte le sue forme. L’attore che nei panni di James Dean (James Dean, di Mark Rydell, 2001) e in quelli di Henry Osborn nella trilogia Spiderman di Sam Raimi (2002-2007) ha conquistato il pubblico internazionale, si alterna infatti fra cinema, teatro e televisione, scrive poesie e short stories, coltiva la passione per la pittura e realizza installazioni di videoarte. Non di minore importanza è la sua passione per la letteratura, che lo ha portato ad affiancare il lavoro sul set con gli studi presso l’Università di Yale, dove consegue il dottorato in Lettere.

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Magistrale opera a due mani realizzata nel 1974 da Louis Malle e Patrick Modiano, Lacombe Lucien, è sunto della poetica di memoria e ombra del romanziere e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente. Anti declamatorio e non argomentativo, costruito sulle azioni puramente istintive di un personaggio che blocca ogni possibile forma di empatia, il film si offre al pubblico in tutta la sua accecante immediatezza visiva e narrativa, ma oppone una sorta di schermatura all’implicazione razionale e sentimentale. Non esiste, però, barriera che non spinga al proprio superamento: l’opacità costitutiva di Lacombe Lucien chiama in causa lo spettatore e il critico. La resistenza che il film oppone alla comprensione è all’origine della nostra indagine: dalla questione della paternità dell’opera al dibattito ideologico sulla moda rétro, l’articolo studia la corrispondenza tra due forme distinte di ‘messa in scena’ dell’opacità e s’interroga sull’ambiguità insita nel recupero testimoniale attraverso il mezzo filmico, per giungere, infine, ad affrontare la questione decisiva dello sguardo cinematografico sull’orrore della storia e sulla responsabilità individuale.

A masterpiece co-created by Louis Malle and Patrick Modiano in 1974, Lacombe Lucien summarizes the novelist’s poetics of memory and shadow, and is an exemplary manifestation of the ways in which cinematic modernity relates to recent history in unexpected and disturbing ways. Avoiding declamatory and argumentative stances, the film is centred on the purely instinctive actions of a character who blocks any possible form of empathy. As such, it offers the public a visual and narrative construct that is blindingly immediate yet also raises a barrier against rational and emotional involvement. However, since all barriers arguably seek to be overcome, the constitutive opacity of Lacombe Lucien challenges spectator and critic alike. The resistance the film opposes to its own understanding constitutes the basis of this essay. Exploring issues from the question of authorship to the ideological debate on retro fashion, it examines the correspondence between two distinct forms of ‘staging’ of opacity, and interrogates the ambiguity inherent in acts of testimonial recovery through film in order to consider the decisive question of the relationship between the cinematic gaze, the horror of history, and individual responsibility.

Belle fonction à assurer, celle d’inquiéteur.

André Gide

 

Frutto della collaborazione tra il romanziere Patrick Modiano e il regista Louis Malle, Lacombe Lucien esce nel 1974, al termine di una complessa fase di gestazione che ha inizio più di dieci anni prima e che giunge a compimento solo con l’intervento tardivo dello scrittore. Nasce da tale incontro una magistrale opera a due mani, che è al contempo sunto della poetica di memoria e ombra del primo Modiano e manifestazione esemplare di una modernità cinematografica che si rapporta in modo inatteso e perturbante alla storia recente.

Ambientato nella provincia agricola del sud-ovest della Francia nell’estate del 1944, il film, che porta il nome del protagonista, mette in scena la collaborazione con la Gestapo di un contadino diciassettenne privo di consapevolezza politica e l’ambiguo rapporto che il giovane instaura con la famiglia di un sarto ebreo nascosta nel paese. Se il personaggio principale, la storia narrata e il contesto storico rappresentato fanno appello, nel loro insieme, all’adozione di un ‘punto di vista’ ideologico, sembrano, cioè, domandare al regista e allo sceneggiatore di relazionarsi in modo chiaro al passato recente, il film, nella sua forma compiuta, non risponde a tali richieste, o perlomeno non nel modo atteso. Non assertivo, né argomentativo, Lacombe Lucien svela brutalmente frammenti di una realtà storica scomoda e difficile da assumere, quale la partecipazione ‘dal basso’ alle azioni repressive dell’occupante, ma evita la formulazione esplicita di un giudizio etico e politico sui fatti narrati. Si discosta, dunque, dalla retorica verbosa delle forme più convenzionali di un cinema di denuncia – rassicuranti poiché invitano a un mutuo riconoscersi nell’indignazione e nella rivolta – e resta un’opera oscura, a tratti irritante. La pellicola recupera il passato con dovizia documentaria, eppure tace l’essenziale. Blocca il fremito emozionale dei volti, riduce la parola e la sottomette ai fatti, non esplicita la ragione delle cose e la realtà psicologica che la sottende, non motiva gli atti individuali e le vicende collettive. Nessuna fede ideologica guida i protagonisti, vittime consenzienti o istintivi carnefici di una fatalità storica incarnata in una gomma bucata o in un orologio rubato.

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La tessitura visiva (grazie soprattutto alla fotografia di Edward Lackman), la ricerca della perfezione estetica di ogni inquadratura, l’insistenza sulle sfumature cromatiche degli anni Cinquanta – da alcuni giudicate eccessive, al limite di una freddezza patinata – rispondono invece alla poetica cinematografica del regista, il quale con estrema coerenza ha voluto recuperare e ricostruire meticolosamente un contesto storico e culturale all’interno del quale la storia narrata assume un valore molto preciso (e non certo scindibile da tale contesto). E del resto Todd Haynes ha più volte dichiarato che l’intento di ogni suo film è quello di «aprire la finestra verso un altro mondo e chiedere allo spettatore di entrare in quel mondo».

Il romanzo di Patricia Highsmith (The Price of Salt, 1952, pubblicato con lo pseudonimo di Claire Morgan), da cui è tratto Carol, sembra scelto prima di tutto in funzione di questa poetica. Come già in Far from Heaven (2002), anche qui Haynes ambienta una storia omosessuale nel passato, forse perché da una certa distanza è più facile scorgere i riflessi del presente, segnalarne le storture e riconoscerne i retaggi.

Rispetto al testo di partenza, la sceneggiatura di Phyllis Nagy opera alcune ‘infrazioni’ interessanti comprensibili probabilmente in una prospettiva più spiccatamente visiva. Si tratta in primo luogo dello spostamento del baricentro narrativo: il romanzo di Therese, e la sua Bildung, che rappresenta l’asse attorno a cui si sviluppa il racconto di Highsmith, si trasformano nella love story di Carol e Therese. Si tratta di un ‘tradimento’ più apparente che reale perché, se è vero che non possiamo seguire come nel romanzo l’educazione sentimentale di Therese attraverso la narrazione dei suoi pensieri e delle sue sensazioni, quel che Haynes mette a fuoco nel film è la storia dell’evoluzione del suo sguardo. I filtri che velano di continuo le inquadrature della vita per le strade di New York, cioè le vetrine e i finestrini attraverso cui la realtà viene mostrata soltanto per frammenti, sono la traduzione dello sguardo sul mondo della protagonista, che già nel romanzo si ritrova più volte a guardare fuori attraverso questi opachi dispositivi della visione. Si direbbe anzi che gli occhi di Therese nel racconto di Highsmith scrutino la realtà sempre attraverso la mediazione di uno schermo: a volte il vetro di una finestra, altre volte il filtro di un dipinto. In più di un’occasione l’oggetto della sua visione viene descritto attraverso una citazione figurativa: «il volto oblungo di Phil sotto i capelli cortissimi» la fa pensare a «un El Greco»; «la bellezza di Carol» la colpisce «come se avesse dato uno sguardo alla Vittoria Alata di Samotracia»; la vista attraverso la vetrina dei magazzini Frankeberg le evoca un quadro di Mondrian; il panorama osservato dalla finestra dell’albergo di Chicago le ricorda una veduta di Pisarro. A metà del viaggio che le due donne compiono insieme, Carol rimprovera Therese proprio per questo sistema ‘mediato’, «di seconda mano», di guardare la realtà: «tu preferisci le cose riflesse su uno specchio, vero?» – le chiede, quasi a sfidarla e a incoraggiarne un possibile cambiamento di prospettiva. Nelle pagine del romanzo, e nelle sequenze del film, Carol diventa per Therese l’oggetto perturbante che innesca la rivoluzione del suo sguardo, educando i suoi occhi a posarsi direttamente su cose e persone, insegnandole a rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla realizzazione del suo desiderio. Ecco perché, dopotutto, il film di Haynes è molto più fedele (ammesso che ciò sia poi così importante!) al romanzo di quanto non possa sembrare a prima vista. L’inquadratura della grata che segna l’incipit di Carol suggerisce sin dall’inizio la centralità della condizione visiva e, per certi versi, funziona come l’assunzione del punto di vista di Therese, la cui evoluzione e le cui difficoltà esistenziali vengono raccontate proprio attraverso il raffinato sistema di tropi visuali che, in modo molto evidente, il regista dissemina nella trama filmica.

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