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Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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All’interno delle categorie paradigmatiche rilevate da Rizzarelli nella sua «cartografia dell’attrice che scrive» (Rizzarelli 2017), Una vita all’improvvisa (2009) [fig. 1] di Franca Rame si colloca nel genere della narrazione autobiografica, scritta quasi a fine carriera (Rame avrebbe compiuto 80 anni pochi mesi dopo l’uscita del volume) e votata «a consacrare l’immagine divistica già affermata e consolidata da tempo» (ibidem). Ne viene fuori un testo in cui interviene anche Fo e in cui emerge una tensione dialogica dettata dal desiderio di cercare il contatto con un ipotetico destinatario, un «lettore privilegiato» (Battistini 2007), che ora è il marito ora è il pubblico che tanto l’ha amata e seguita durante la sua lunga carriera. Un racconto artistico e biografico in forma di affabulazione teatrale con tanto di didascalie per regolare i meccanismi scenografici e registici di un’ipotetica messa in scena (i disegni di Fo accompagnano per immagini questa storia, quasi uno per pagina), che oscilla sul terreno mutevole, «vivente e interpretante della memoria» (Battistini 2007) in cui Rame ripercorre, a balzi ed episodi, la sua vita vissuta «in modo esagerato», a cominciare dagli anni dell’infanzia fino alle prime esperienze d’attrice, apprendendo così «l’arte antica di andar all’improvvisa», ovvero di recitare a soggetto senza seguire integralmente un copione (ecco il titolo del volume), nonché il suo cammino a fianco del marito.

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1. Questa è la storia di un gruppo di ragazzi…

Con questa premessa Paola Pitagora introduce il suo Fiato d’artista, libro di memorie che ripercorre, a distanza di quasi quarant’anni, le tensioni avanguardistiche della Roma degli anni Sessanta. A condurre il lettore tra gallerie d’arte, piazze, bar, palcoscenici, set cinematografici e case private, sono le voci intrecciate di due amanti appassionati che all’epoca fecero della loro relazione il motore comune dell’esperienza artistica. È Pitagora stessa a spiegare che l’idea di scrivere questo romanzo autobiografico è nata rileggendo, negli anni Novanta, i quaderni scritti con Renato Mambor ai tempi della loro storia d’amore. Il risultato è un libro composito, fatto non solo della testimonianza privata dei due ma anche del racconto con cui Pitagora cuce insieme una lettera con l’altra, usando tutto ciò che può servire a dar di nuovo corpo a quella storia: molte parole certamente (oltre alle sue anche quelle di chi scrisse di quegli anni, da Pasolini a Calvesi), ma anche immagini scelte per spingere il lettore all’incrocio fra arti diverse là dove, all’epoca dei fatti, si attivava ogni creazione artistica [fig. 1].

Di per sé Fiato d’artista è un libro che permette di cogliere molti aspetti di una doppia vocazione realizzata dall’interazione tra scrittura e performance (Rizzarelli 2017). Intanto perché chi scrive è un’attrice versatile che ha raggiunto un pubblico molto vasto, popolare e non, frequentatore di teatri o appassionato di cinema, amante degli sceneggiati televisivi o anche semplicemente avventore casuale davanti ai programmi Rai degli anni Sessanta. In secondo luogo perché in questo libro, così materico nella sua composizione, si parla molto del lavoro dell’attore nella sua inafferrabile dimensione antropologica. A farlo sono i due protagonisti che si incontrano proprio a un workshop di recitazione nel 1958. Sedici anni lei, ventidue lui. Grandi doti mimiche il giovane pittore del Quadraro; puro potenziale invece la ragazzina emiliana che a quel mondo si era avvicinata principalmente per noia. Poco più di un anno dopo i loro percorsi erano già delineati: Mambor allestiva la mostra alla Galleria Appia Antica con Cesare Tacchi e Mario Schifano, mentre Pitagora, sotto contratto con la casa di produzione cinematografica Vides di Franco Cristaldi, cominciava a frequentare le lezioni di recitazione di Alessandro Fersen a via della Lungara. «La vita per noi è cambiata» scriveva allora Pitagora, «io vado a scuola tutti i giorni, sto in un ambiente nuovo. Ed ecco le naturali problematiche, abituata com’ero a pensare con la tua visione» (Pitagora 2001, p. 36. Corsivo mio). L’atto della visione è centrale in Fiato d’artista certamente per la sua doppia natura di opera verbo-visuale (Cometa 2017), ma anche perché esso nutre la formazione attorica di chi scrive: «avrei potuto diventare attrice se non avessi incontrato quel buffo pittore? Forse sì ma in altro modo. Intanto, il vedere. Un pittore insegna in qualche modo a vedere» (Pitagora 2001, p. 56).

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Nel panorama abbondante, diversificato e discontinuo delle scritture delle attrici teatrali – in attesa di un censimento vero e proprio – intendo mettere a fuoco i seguenti punti.

 

1. 1887, la prima autobiografia d’attrice in Italia Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori

Tutti e quattro i protagonisti della generazione del Grande attore – Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Antonio Petito – scrivono le loro memorie ma non per questo è meno forte il gesto di Ristori di riconoscersi soggetto degno di biografia, sia pure novant’anni dopo il pionieristico Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Le memorie sono uno strumento fondamentale di costruzione e diffusione della propria immagine pubblica, dunque fissano immagini artificiali e idealizzate che vanno decodificate. Ristori fornisce di sé un’immagine edificante di moglie e di madre ma nello stesso tempo mette in luce i suoi poteri come primadonna e capocomica e non ne nasconde i lati faticosi. E, soprattutto, oltre alle vicende biografiche, propone sei studi approfonditi dei maggiori personaggi interpretati [fig. 1]. Da questo punto di vista rappresenta un modello avanzato rispetto a produzioni successive anche recenti, pur significative: la stessa Valentina Cortese – indiscutibilmente una diva – è avara di approfondimenti sul suo lavoro specifico di attrice (Quanti sono i domani passati) e ancor meno dicono le memorie di Ilaria Occhini (La bellezza quotidiana).

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Dopo aver vissuto da protagonista la stagione cinematografica degli anni Sessanta, Sandra Milo torna sulla scena mediatica alla fine degli anni Settanta, in un contesto politico-culturale profondamente mutato. Il suo riposizionamento continuo attraverso televisione, pubblicità e rotocalchi sembra determinare il passaggio da star a celebrità pubblica sul modello contemporaneo, in cui il corpo eccentrico dell’attrice si carica di un elemento ‘agentico’ che, tuttavia, tenta di liberare e di affermare una femminilità non più attuale. Questo tentativo di costruzione di uno spazio di manovra esterno al cinema che le consenta di tornare in auge, trova la sua affermazione nella scrittura di due autobiografie, dedicate rispettivamente alla scandalosa relazione professionale e sentimentale con Federico Fellini, Caro Federico (Rizzoli 1982), e ai suoi controversi rapporti con leader politici, cortigiani e portaborse di un’Italia di corrotti e corruttori, Amanti (Pironti 1993).

Mentre la progressività femminista dagli anni Settanta in poi si va consolidando attraverso la rappresentazione di nuovi modelli identitari, la Milo – apparentemente esclusa dalle forme del progresso – nel racconto di sé trova invece un mezzo per condurre la sua personale ‘rivoluzione del femminile’, proponendosi come eccentrica eroina di un pensiero genuinamente anticonvenzionale e contro-egemonico, a suo modo capace di mettere in discussione ogni pretesa razionalistica del patriarcato e del conformismo socio-culturale. Nel panorama mediatico italiano, l’esuberante figura di Sandra Milo si è consolidata come una presenza costante, che ha sempre finito per eccedere il luogo della sua rappresentazione.

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1. L’insalata di Pantagruel

In una delle immagini che accompagnano il primo libro di ricette pubblicato da Sophia Loren, In cucina con amore (1971, riedito poi nel 2014 sempre da Rizzoli), Tazio Secchiaroli ritrae la diva in una posa bizzarra: il volto incorniciato da due enormi posate da insalata di legno con il manico scolpito con figure di animali, come fossero una sorta di padiglioni auricolari grandi quanto il volto della donna [fig. 1]. Tornerò su quest’immagine in chiusura; per il momento ricordo solo la didascalia che la accompagna, «Sophia sta pensando a un’insalata degna di Pantagruel?», a richiamare, accanto all’ovvio rimando al cibo, i motivi della sovrabbondanza e dell’eccedere, in una dimensione domestica della cucina che si tinge al contempo di toni meno rassicuranti. Emerge da subito un movimento tensivo che allontana il testo dalle immagini, a segnalare una distanza tra lo spazio letterario, dove la diva parla in prima persona, e il territorio del visivo, dove è osservata da uno sguardo altro; ed è questo disequilibrio che vorrei esplorare qui.

 

2. «Con le mani sporche di farina»

 

 

Le prime parole del racconto di sé di Sophia Loren, Ieri, oggi, domani. La mia vita, edito nel 2014, mescolano con sapienza – come in un impasto ben amalgamato – gli ingredienti di un’immagine divistica composita nel desiderio di dare corpo a una figura familiare e impalpabile insieme, ovvero la stella del cinema, splendente di bellezza, che sa altresì indossare il grembiule e governare padelle fumanti; e certo il ricorrere nella narrazione autobiografica dello spazio della cucina rappresenta l’«unica traccia dell’impronta della soggettività dell’autrice», come rileva Maria Rizzarelli (Rizzarelli 2017). Ma già nel 1971 il gesto del cucinare rappresentava uno dei luoghi centrali nella cartografia divistica di Loren: in quell’anno, difatti, appare In cucina con amore, libro di ricette che vede la diva rimboccarsi le maniche, tirare la pasta e sporcarsi le mani di farina [fig. 2], con le memorie che lievitano in una cucina reale e immaginaria insieme, a dar forma a un’immagine divistica giocata sui canoni di italianità più appetitosi, la bellezza e il buon cibo.

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Non sappiamo se Andrea Zanzotto e Laura Betti abbiano mai avuto occasione di conversare «a lungo» intorno a Teta Veleta ma è indubbio che in queste poche righe si concentri il nucleo di senso di un romanzo che a distanza di quarant’anni resta una sorta di rompicapo tanto per gli studiosi di letteratura quanto per gli storici del cinema e del teatro, perché tutte le etichette franano di fronte a una materia incendiaria, ‘de-scritta’ in una lingua prodigiosamente azzardata. Il tono con cui Zanzotto apostrofa Betti è il primo indizio della profonda consonanza fra i due, della reciprocità di un rapporto coltivato all’ombra di Pasolini ma proseguito poi oltre il fatidico muro del 2 novembre 1975 attraverso formule di stima e tenerezza reciproca, che i frammenti epistolari consentono di mettere in chiaro. L’appellativo «realfantomatica» fonde con arguzia il tratto naturalistico, terragno, della «pupattola bionda» (Pasolini 1971) con la strenua propensione al mascheramento di sé, al gioco indiavolato di pose e stili, forse la dote più interessante del suo profilo di attrice, stretto fra immedesimazione e disincanto. L’essere ‘realfantomatica’ di Betti rimanda infatti a quel paradosso («Non ho mai capito la reale differenza tra recitare ed esistere», Betti 2002) con cui ha attraversato l’industria culturale del nostro Paese, mostrando una spiccata vocazione internazionale e giungendo a scandire il proprio idioletto fino alle estreme conseguenze: «fare l’attrice significa cambiar pelle, ma anche dimenticare, rimuovere ciò che si è e non piace essere» (Del Bo Boffino 1979). Al netto delle contraddizioni e degli infingimenti, Betti approda alla ‘scrittura romanzesca’ per sperimentare un esercizio di «autoanalisi» (Betti 2006, p. 38), che celebra un ingombrante cortocircuito fra autrice e personaggio.

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Nel 1995 Claudia Cardinale dà alle stampe un’autobiografia (Io Claudia, tu Claudia), firmata con la giornalista Anna Maria Mori, frutto di un anno di incontri, che solleva un velo su alcuni misteri legati alla sua vita privata e alla sua immagine pubblica. In questo ‘romanzo di una vita’ la diva di origini tunisine si mette a nudo, mentre la coautrice garantisce la sincerità delle confessioni raccolte e trascritte. In assenza del principale imputato, Franco Cristaldi, morto nel 1992, i racconti di Cardinale restano l’unica fonte possibile per ricostruire in profondità lo scandalo che la travolse nel 1967 ma soprattutto per conoscere più approfonditamente i modi di produzione dello star system italiano nell’epoca d’oro del nostro cinema. Dieci anni dopo la prima autobiografia, in Francia esce un nuovo libro, ancora redatto a quattro mani (con Danièle Georget) ma firmato da sola, Mes étoiles, in cui la biografia viene ripercorsa da capo, ma la finalità appare sostanzialmente diversa: far pace con il mestiere di attrice, da lei non progettato ma scelto, giovanissima, per fuggire le conseguenze di una violenza sessuale raccontata solo quarant’anni dopo, nel libro precedente. Ne Le stelle della mia vita (titolo dell’edizione italiana, uscita un anno dopo Mes étoils) il cinema appare un luogo di rivelazioni, il mezzo che ha offerto alla star la possibilità di incontrare alcune grandi personalità cui intende rendere omaggio, ma anche interpretare tanti tipi di donna. Cambia il tono, il racconto assume una pacatezza assente nel primo libro e Cardinale pare rappacificarsi con la sua vita professionale. Bilancio esistenziale articolato in due tempi, attraverso centinaia di pagine a stampa, questa particolare tipologia di scrittura del sé rappresenta il luogo ideale dove l’attrice può riflettere sulla propria vita e sul proprio lavoro, ma anche il mezzo con cui ha potuto ridefinire in pubblico la propria identità di donna e di artista.

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Là la donna adulta ritrova se stessa bambina e scopre di essere ancora la medesima persona. Tale è il significato del titolo proustiano […]. Lo ricavai da un passo del Tempo ritrovato.

«Ci appartiene veramente soltanto ciò che noi stessi portiamo alla luce estraendolo dall’oscurità che abbiamo dentro di noi… Intorno alle verità che siamo riusciti a trovare in noi stessi spira un’aura poetica, una dolcezza e un mistero, i quali non sono altro se non la penombra che abbiamo attraversato». Così mi appropriai della frase; anzi, della sua parte migliore.

Lalla Romano

 

Avevo molte storie da raccontare, molti aneddoti. Ma della storia che abitava dentro di me, la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne?

Marie Cardinal

 

1. Autobiografia come formazione e cura di sé

 

 

Nel 1993 Catherine Spaak pubblica Da me, autobiografia basata sull’idea di raccontare senza un ordine preciso frammenti di vita, ricordi, pensieri, con lo scopo di selezionare tutto quello che l’attrice desidera tenere con sé (il ‘da me’ del titolo) e quello che, al contrario, vuole allontanare. Nel testo si susseguono quindi, apparentemente senza coerenza (Spaak 1993, p. 7), avvenimenti e fantasie, persone reali e personaggi inventati, considerazioni sulla letteratura, sull’arte e sul cinema.

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