«Noi nati cittadini col vizio velenoso sì, ma magnifico della rapidità, delle insegne luminose, dei teatri e dei cinema sempre aperti, dell’urlare dei rivenditori, delle radio a tutto volume, delle sirene del porto e chi più ne ha più ne metta, non ci possiamo accontentare a lungo della pace dei campi (se pace è) e della lentezza dei cervelli. In città!».
Goliarda Sapienza, Io, Jean Gabin.
Ormai da tempo il tema del ‘paesaggio sonoro’ è al centro di una sfaccettata attività di ricerca con importanti sviluppi, anche in Italia, nei vari ambiti dei saperi umanistici. A distanza di più di venticinque anni dal pioneristico studio di Raymond Murray Schafer[1]– che ha messo al centro l’esperienza acustica come elemento distintivo per la comprensione del ‘paesaggio sonoro’ – l’indagine punta a interpretare le modalità secondo cui siffatta esperienza segna il tempo della vita umana e si modula in modo differente nei vari contesti storico-sociali e culturali delle città.[2]
In tale prospettiva, quest’articolo vuole approfondire l’esperienza sonora della scrittrice Goliarda Sapienza (Catania 1924-Gaeta 1996) attraverso la narrazione restituita dai suoi tre romanzi cosiddetti ‘di formazione’: Lettera aperta, Il filo di mezzogiorno e Io, Jean Gabin.[3] Ricostruita nella relazione con gli spazi della casa, del quartiere e della città, e negli anni della giovinezza (1924-1941), questa esperienza si rivela un marcatore d’identità narrativa, giacché attesta vicinanze e distanze, inclusioni ed esclusioni, disparità e uguaglianze, modi di stare e dare ‘senso’ al mondo della scrittrice. L’esperienza sonora diventa quindi uno strumento di conoscenza, una chiave di lettura delle pratiche sociali di Goliarda, intese sia come rapporto con la comunità sia come relazioni interpersonali intrecciate nei vari ambiti della sua vicenda giovanile.