La straordinaria vitalità del teatro pugliese contemporaneo si dimostra in questa stagione estiva di festival – la seconda dopo l’emergenza epidemiologica – con numerosi artisti e compagnie presenti nella programmazione delle maggiori manifestazioni distribuite sul territorio italiano. Inequilibrio Festival 2022 – Armunia ospita infatti Oscar De Summa con L’ultima eredità, mentre Giacomo del Teatro dei Borgia va in scena al Pergine Festival, alla LXXVI Festa del Teatro di San Miniato e infine al Kilowatt Festival, nella sede di Cortona. Ma la Puglia si conferma terra feconda di sperimentazione teatrale anche dando vita a festival di rilievo nel contesto nazionale, con una missione artistica chiara e ben definita.

È il caso di Teatro dei Luoghi Fest – 2022, manifestazione trasversale di teatro, musica, danza e incontri su temi culturali, promossa dai Cantieri Teatrali Koreja a Lecce e giunta ormai alla sua XVI edizione. «Disimparare il confine» è il motto che presiede il fitto calendario di eventi previsti presso l’ormai iconica sede – completamente restaurata dall’architetto Luca Ruzza – del teatro Koreja, ma anche in molti altri luoghi e spazi cittadini, rendendo la città cornice di incontri ed occasioni, nello stesso tempo, radicati ed itineranti. Al centro della riflessione, il tema dei confini: confini geografici, ma anche emotivi ed esistenziali, che solo l’arte, attraverso i suoi molteplici linguaggi può raccontare. Il Teatro dei Luoghi diventa così pretesto per raccontare il quotidiano, il politico e il sociale, offrendo agli spettatori uno nuovo strumento per modificare la propria percezione di sé e del mondo che li circonda.

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La risposta della composizione coreografica alla musica di J.S. Bach è un intero capitolo a parte della storia culturale del Novecento. A partire dalle trascrizioni (vere e proprie ‘traduzioni’) di Ferruccio Busoni, con cui studiò Maud Allan che fu tra le prime a comprendere musica di Bach nei suoi concerti di danza (Vienna, 1902), il primo modernismo coreico ha riscoperto la musica di Bach in tutta la forza della sua dimensione immaginativa. Spesso a contrasto con la musica romantica, che aveva ormai esaurito il suo ruolo, nonché usata come correttivo alla nuova musica modernista che montava prepotente. L’uso della musica di Bach per le composizioni della danza modernista corrispose a un ritorno dell’antico a cui si poteva attingere perché i valori dei quali si faceva tramite consuonavano perfettamente con le nuove esigenze di libertà, sia nei termini dei generi musicali che in quelli più drammaturgici e coreici. E fu un procedere in largo anticipo rispetto alle superstizioni da piedistallo della filologia musicale, che nel Novecento da una parte ha fatto di Bach il campione ideale del neo-classicismo, argine alla prudenza farisaica della «distanza storica» (almeno da Furtwängler fino al nazionalsocialismo). E dall’altra, lo ha eletto a paladino del risentimento piccolo borghese post-bellico in cerca di regressioni culturali più autentiche, per alleggerire il senso di colpa nei confronti del passato più recente. Nicolas Nabokov ha apostrofato come uno ‘zoo’ l’incontro tra danza e musica nel primo Novecento, in cui l’idea del passato è un supplemento della storia. Se Luciano Berio, ancóra nel 1981, considerava il ritorno alle opere di Bach «legato alla riscoperta della dimensione pratica del fare musica», nel 1987, ossia due anni prima della caduta del muro di Berlino, John Cage invitava a «lasciar perdere Bach» poiché musica incapace di rappresentare la complessità del tempo contemporaneo. Ma l’anno prima, Steve Paxton aveva improvvisato sulle Goldberg Variations nella versione per pianoforte di Glenn Gould realizzando uno dei più alti incontri tra danza e musica nella cultura performativa del Novecento. L’anno dopo, inoltre, uscirà un importante libro di filosofia della musica: Matthäuspassion di H. Blumenberg. In entrambi i casi, la vitalità della musica di J.S. Bach è restituita alla vita del futuro. Esiste, dunque, un ‘caso Bach’ che proprio nella prassi coreografica rivela una rinnovata, certamente inedita, percezione culturale del suo mondo musicale. Infatti, i maggiori coreografi contemporanei ritrovano, nelle partiture bachiane, nuove ragioni per la loro ricerca di innovazione. Da William Forsythe a Hans van Manen, da Jiri Kylián a Nacho Duato e Virgilio Sieni, la percezione di una molteplicità di piani sonori differenti nella maestria del contrappunto bachiano si traduce in un accesso più vero all’idea di pluralità dell’epoca contemporanea.

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Il terzo appuntamento di questa rubrica invoca ormai come rituale l’espressione della mia gratitudine alla redazione di Arabeschi, per avere accolto con entusiasmo la proposta, di Lighting Light(s) (immaginata nel 2013 e avviata lo scorso anno): una serie di interventi che dessero voce ad artisti ‘della luce’, nello specifico creatori di luci per la scena, ma con possibili sconfinamenti nelle arti vicine. Sono passati parecchi anni ma forse non è un caso che il progetto abbia avviato il suo corso recentemente. Negli ultimi tempi infatti l’interesse per la luce in scena, territorio pressoché misconosciuto dagli studi teatrali, sta acquisendo un suo spazio. Uno spazio che ‘risuona’ di voci e prospettive differenti, e che ci sembra segnato proprio da una vicinanza e un dialogo particolari tra studiosi e professionisti della luce, tra riflessioni teoriche, indagini storiche e pratiche artistiche (cosa che succede anche in altri ambiti – evidentemente un segno del tempo). Se questo dialogo si è ormai affermato anche per gli altri ‘linguaggi’ delle arti performative, com’è ovvio in un panorama di studi mutato rispetto a qualche decennio fa, nel caso della luce il desiderio di un confronto sembra farsi più urgente. Forse per la complessità della materia dal punto di vista tecnico e tecnologico, forse per la mancanza di un panorama di studi di riferimento consolidato come per altri coefficienti scenici. Ogni conversazione – che ci piace pensare come una ‘passeggiata’, evocando dei pensieri in movimento e la condivisione fisica di uno spazio di confronto – tenderà ad evidenziare temi e motivi propri dell’interlocutore/interlocutrice. Tuttavia si cercherà anche di ritornare sulle medesime tematiche al fine di dare forma ad un prisma, man mano che si procede nel cammino e ci si addentra nei diversi paesaggi, che rischiari di luce diversa questioni centrali nelle pratiche dell’illuminazione. In tal senso materia, colore, buio, spazio, architettura, percezione, relazione con le altre arti saranno delle coordinate ricorrenti.

The third Lighting Light(s) conversation invokes as a ritual the expression of my gratitude to the editorial staff of Arabeschi, which many years ago enthusiastically welcomed the proposal, conceived in 2013 and concretized last year in these ‘dialogues’, to host a series of conversations aiming to give voice to ‘light’ artists, specifically light designers for the stage, but with possible incursions into the nearby arts. Several years have passed since the proposal, but perhaps it is not by chance that the project is starting its course right now. In recent times, in fact, the interest in lighting on stage, a territory almost unknown to theatrical studies, is acquiring its own space. A space that echoes different voices and perspectives, that seems to be marked by a particular affinity and dialogue between scholars and lighting professionals, between theoretical reflections, historical investigations and artistic practices (something that also happens in other fields – a sign of the time). This dialogue has now also established for other ‘languages’ in the Performing Arts, on a backdrop of studies that has changed since a few decades ago, in the case of light the need for comparison seems to become more pressing. Maybe because of the complexity of the subject from a technical and technological point of view; maybe because of the lack of a consolidated panorama of reference studies (as it is for other languages of the performance). Each conversation – which we like to think of as a ‘walk’, evoking thoughts in motion and the physical sharing of a space of exchange – will attempt to highlight topics and subjects that are specific to the artist interviewed. However, we will also try to revisit the same themes in order to give shape to a prism, proceeding along the path and exploring the different landscapes, that will illuminate different central issues in lighting practices. In this sense matter, colour, darkness, space, architecture, perception, relationship with other arts will be recurring references.

Conoscevo alcuni lavori del coreografo e della compagnia Karas, e insieme a colleghi e colleghe del corso DAMS di Padova avevamo individuato nel suo lavoro una possibile tappa di un progetto pluriennale e interdisciplinare.[1] E difatti Teshigawara, che inizia il suo percorso artistico come artista visivo, si confronta via via con una molteplicità di linguaggi e generi: dalla danza alle installazioni, dal cinema al teatro d’Opera, oltre a portare avanti una importantissima attività pedagogica; ha fondato a Tokyo Karas Apparatus,[2] centro di creazione artistica e trasmissione.

Non sorprende che nelle sue opere per la scena rifluiscano pratiche e linguaggi diversi: ne cura costumi, scenografie, luci, scelte musicali.[3] La luce, senza dubbio insieme al gesto motivo portante del suo processo creativo, costituisce spesso anche la zona osmotica tra i vari linguaggi; pensiamo alla scena di Kazahana (2004, Fiore nel vento grossomodo la traduzione): una struttura di elementi verticali che diventa una sorta di sipario di luce[4] simile ad una installazione.

Teshigawara enumerando i suoi interessi fa riferimento anche alle peculiarità dei singoli linguaggi. Al ‘restare’ della scultura (cita Rodin) compara l’inarrestabile movimento del corpo vivente. Nel suo lavoro coreografico in più occasioni la velocità con la quale si susseguono i movimenti ci è apparsa come sfarfallio dell’immagine nella luce, nell’impossibilità per il nostro sguardo di fermarla.

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  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

Nota dei curatori*

Beatrice Libonati e Jan Minarik sono gli storici interpreti dei personaggi di Judith e di Blaubart nello spettacolo di Pina Bausch Blaubart. Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper “Herzog Blaubarts Burg” (‘Barbablù. Ascoltando una registrazione dell’opera di Béla Bartók “Il castello del duca Barbablù”). In occasione del convegno internazionale “Barbablù. Trasposizioni del mito nelle arti e nelle letterature” (Pisa, 9-11 ottobre 2019) sono stati intervistati da Elena Randi in videoconferenza con traduzione dal e verso il tedesco di Serena Grazzini. Questa sezione contiene l’intervista e il testo di presentazione di Elena Randi. I curatori ringraziano sentitamente Beatrice Libonati, Jan Minarik e Elena Randi per aver acconsentito alla pubblicazione dei testi in questa galleria.

 

 

Blaubart. Beim Anhören einer Tonbandaufnahme von Béla Bartóks Oper “Herzog Blaubarts Burg” (Barbablù. Ascoltando una registrazione dell’opera di Béla Bartók “Il castello del duca Barbablù”) di Pina Bausch viene messo in scena per la prima volta l’8 gennaio 1977 al Tanztheater Wuppertal, la sede in cui la compagnia fondata dall’artista tedesca nel 1973 lavora da decenni. Le scenografie e i costumi sono di Rolf Borzik, gli interpreti principali sono Jan Minarik e Marlis Alt. Mentre il primo continua a interpretare il lavoro per molti anni, la parte femminile principale passa a varie danzatrici fino a quando, a partire dal 1979, Pina Bausch la assegna a Beatrice Libonati.

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Humanhood, Zero

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  • Arabeschi n. 15→

Non-essere come condizione imprescindibile perché vi sia essere. Nucleo di concentrazione di un’energia incontenibile che precede e permette la generazione. Cominciamento dell’azione come svolgimento senza alcuna reversibilità possibile. Enorme occhio dello sguardo che contemporaneamente esplora e viene modificato. Ancora, dispositivo di mutamenti capaci di ridisegnare di volta in volta la scena in modo irripetibile. È tutto questo insieme, lo ‘Zero’ che dà il titolo al duetto di Júlia Robert e Rudi Cole, fondatori nel 2016 della compagnia britannica Humanhood, che fin da subito ha sviluppato un originalissimo percorso che coniuga la ricerca sulla danza a quella sulla fisica, l’astrofisica e sul misticismo orientale e che in pochi anni ha visto aumentare notevolmente l’interesse del pubblico e della critica nei suoi confronti, tanto nel Regno Unito quanto all’estero. Tutto questo, dicevamo, materializzato al centro della scena in una circonferenza perfetta di polvere bianca.

Sigillo dell’opera – nero su bianco sul programma di sala e in voce fuori campo sul finale della performance – è la citazione dal fisico teorico Nassim Haramein: «Le informazioni nell’universo possono essere comunicanti in modo istantaneo. Quindi quando muovi il tuo mignolo, tutto nell’universo sa che hai mosso quel dito, e aggiusta per esso». Fisica e danza fuse insieme nell’idea dell’informazione come gesto, dunque, che nel suo anche infinitesimale compiersi modifica istantaneamente il circostante. Un incessante tradursi e trasferirsi di energia che si riversa da un corpo all’altro, microscopico o mastodontico che sia, da un movimento all’altro, sia esso infinitesimale o planetario, tutto senza soluzione di continuità, in un collegamento universale che comprende ogni cosa, dalla nascita del mondo a ciascun istante presente.

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Dal 25 giugno al 7 luglio si è svolta la ventiduesima edizione del Festival Inequilibrio diretta da Angela Fumarola e Fabio Masi, che, ospitando quaranta creazioni tra danza, teatro e musica, ha proposto al suo pubblico molteplici visioni del contemporaneo. La manifestazione è diventata, così, terreno di relazione tra artisti e spettatori dopo aver sostenuto, durante tutto l’anno, progetti di ricerca che hanno trovato nelle sedi di Fondazione Armunia un luogo fisico ed un’occasione d’incontro. Risultato di questa operazione è stata la costituzione di uno spazio collettivo aperto al confronto fra le generazioni che hanno segnato alcune tra le più significative tracce d’autore dell’ultimo trentennio.

Da questa sinergia di forze creative è scaturita un’antologia di temi uniti dallo spazio e dalle emozioni che nella cornice festivaliera ha offerto agli spettatori occasioni rare da vedere tutte insieme, andando oltre il ruolo di ‘vetrina’ destinata ai giovani e presentando i lavori di autori, performer, danzatori e creatori con una consolidata carriera alle spalle, ma sempre animati da una costante tensione verso il futuro. In particolare – seppure partendo dai grandi temi dell’oggi quali l’emarginazione, la migrazione e la ridefinizione dei confini (interiori ed esteriori) – l’arte teatrale ha indagato a fondo il ruolo dell’attore, dello spettatore, del testo drammatico nella contemporaneità e nel dialogo con i media e le nuove tecnologie.

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La danza di Roberto Zappalà non è mai ingenua: sceglie sempre di raccontare l’umanità, la terra, la Sicilia, le passioni più becere e quelle più elevate. In Odisseo. Il naufragio dell’accoglienzae in Pre-testo1: naufragio con spettatore, entrambi spettacoli posti all’interno del più ampio progetto Re-mapping Sicily, il coreografo catanese mette in scena il dramma di corpi esiliati, rifiutati, abbandonati a un destino di viaggio che, però, non nega una possibilità di speranza. 

The dance of Roberto Zappalà is never naive: he always speaks about humanity, the ground, Sicily, instincts and poetry. In Odisseo. Il naufragio dell’accoglienzaand in Pre-testo1: naufragio con spettatore, both of them connected to the major project Re-mapping Sicily, the Catania’s choreographer talks about the drama of exiled, rejected, abandoned human bodies and about their destiny of travel which, however, does not deny a possibility of hope.

 

La ricerca coreografica di Roberto Zappalà propone dinamiche connesse alla terra, votate alla disarticolazione di gesti e figure, in grado di aderire a un disegno che vede i corpi al centro di un feroce rovesciamento di linee e posizioni. È un’istintività di matrice animalesca a guidare i movimenti e a comporre quadri che tentano di mimare la fluidità incandescente della lava senza rinunciare all’intreccio di frame narrativi. Il fecondo dialogo con il dramaturg Nello Calabrò assegna ai progetti della Compagnia Zappalà Danza una profondità di sguardo e di racconto che rappresenta un unicum nel contesto italiano e rilancia un modello di ensemble creativo. Il metodo compositivo[1] di Zappalà si agglutina intorno allo scarto fra improvvisazione e tecnica ballettistica: la partitura si affida alle individualità di ogni interprete e allo stesso tempo aderisce a un codice linguistico – modem – geometricamente connotato.[2] La sintesi di tale linguaggio coreografico si declina in tre diverse accezioni del corpo (devoto, etico, istintivo), che implicano la centralità del movimento, la ricerca della qualità estetica della composizione e con essa la «supremazia dell’immagine sul significato».[3] La potente «geografia delle sensazioni»[4] messa in atto da Zappalà prevede innanzitutto una pre-disposizione «alla purezza ma anche alla perversione, alla fatica ma anche alla leggiadria…»; tale inclinazione fa sì che i corpi dei danzatori siano devoti al pubblico da cui attendono una «consacrazione»[5] capace di trasformarsi in poesia. Tra i vettori che contribuiscono ad accelerare il coinvolgimento degli spettatori c’è senza dubbio la dimensione ‘etica’ della danza di Zappalà, cioè l’attenzione al portato di sofferenza dei corpi, soprattutto di quelli esposti alla violenza del mondo. Partendo da un’acuta osservazione degli scenari isolani, lo sguardo del coreografo si proietta lungo le direttrici dei naufragi contemporanei, (dis)seminando gesti e pratiche di re-enactment che esplorano – e tentano di superare – i pregiudizi verso alcune etnie. Grazie a una serie di mediazioni letterarie e filosofiche,[6] si giunge alla codificazione di «una sorta di saggio sul corpo poetico, “cor-po-etico”»[7] che conduce all’eliminazione dal registro espressivo del pudore[8], considerato un freno all’istinto, nonché di ogni gabbia culturale attraverso un processo di «esegesi», ovvero di scoperta minuziosa delle molteplici possibilità di escursione, interne ed esterne, delle giunture muscolo-scheletriche a cui si accompagna un intenso scavo psicologico. È proprio tale ‘escursione’ a determinare la direzione coreografica di Zappalà, nel senso rilevato da Tomassini, come «esplorazione e allenamento», come «riconoscimento della differenza, per ciò che nel corpo appare anche imperfetto o anomalo».[9] Il linguaggio modem articola l’imperfezione e l’istinto e attraversa tutti gli strati del derma, ‘scortecando’ la superficie e giungendo a toccare l’invisibile.

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Dopo anni di intensa collaborazione con Roberto Zappalà si tenta qui di rintracciare alcune regole di composizione drammaturgica e allo stesso tempo si offrono alcuni appunti di lavoro, a testimonianza della densità che agisce sotto traccia nelle creazioni della compagnia.

 

Sono trascorsi quasi venti anni da quando Roberto Zappalà, dopo aver visto un mio video, mi chiedeva di girarne uno per Mediterraneo:(le antiche sponde del futuro). Il video per motivi tecnici e produttivi non poté essere realizzato e i suoi possibili contenuti si trasformarono in parole e azioni. Un’impossibilità è stata alla base di una collaborazione che nel corso degli anni si è trasformata in amicizia, e quindi, riportando tutto a un rapporto di lavoro, quanto di più lontano possibile da un sistema o metodo codificato.

Questo non-sistema è ormai diventato naturale al punto che individuarne le costanti, gli snodi indispensabili è quasi impossibile: come riconoscere dei punti di sutura ormai perfettamente rimarginati.

Per chiarire, prima di tutto a me stesso, questo (non)metodo di collaborazione cercherò comunque di riconoscere delle ripetizioni, dei percorsi obbligati, per tracciarne una mappa, consapevole però che si tratta di una mappa mutevole, mai definitiva.

Tutto fra noi nasce dal conversare, dalla parola parlata nelle condizioni e nei luoghi più disparati: ufficio di Roberto, tavola più o meno imbandita, spiaggia, auto, telefono, (soprattutto di notte; Roberto è spesso in tournée all’estero, e si sa, i fusi orari...), passeggiate. Questa parete di parole si trasforma in tempi diversi, a seconda della singola creazione che detta le sue regole oscure ma ferree, in una quantità di appunti (e anche di disegni di Roberto) altrettanto esagerata, appunti caotici e quasi incomprensibili a distanza di intervalli lunghi. Vero e proprio materiale grafico non figurativo.

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Il 15 luglio 2018 la redazione ha incontrato Roberto Zappalà presso gli spazi di Scenario pubblico, sede della Compagnia Zappalà Danza. La conversazione con il coreografo ha attraversato i nodi principali della sua ricerca artistica – il corpo, il movimento, la residenza, l’impegno – senza dimenticare l’entusiasmo e le insidie del territorio siciliano in cui si radica da sempre la sua attività. L’intervista permette di cogliere l’autenticità di un metodo compositivo ormai riconosciuto a livello internazionale, come dimostrano le lunghe tournée in Argentina e in Europa, e di riconoscere il piglio vulcanico di un autore costantemente in moto.

 

 

 

Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Ana Duque; montaggio: Vittoria Majorana, Damiano Pellegrino.

 

 

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

 

D: La tua è una danza forte, potente e istintiva, vulcanica e profondamente radicata alla terra. Qual è il ruolo delle tue origini siciliane all’interno del linguaggio coreografico della compagnia Zappalà Danza?

 

R: Al plu-ra-le! La nostra danza, perché un coreografo senza danzatore è praticamente inesistente. La nostra danza è nata attraverso la convivenza quotidiana con diversi danzatori. Seppur in percentuali diverse, il loro contributo negli anni è stato importantissimo ed essenziale.

La nostra danza è molto vulcanica, ma è quasi un luogo comune ormai. È molto forte, potente. Qualcuno dice erotica. Sono tutte sottolineature che mi stanno bene. Sono giuste. Sono abbastanza corrette. Ed è inevitabile che il territorio sia stato fortemente influencer in questo: perché il territorio è vulcanico, perché il territorio è arrogante, violento, dolce quando vuole; perché il territorio ha questi chiaroscuri straordinari nel carattere delle persone, nella luce, nel clima.

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