Sogno di vendere sempre più copie, ovunque nel mondo, e sono sempre insoddisfatto, nonostante i risultati siano stati buoni perché io ho un’ambizione ben più grande – e non me ne vergogno – ben più grande di quella di piazzare un po’ di copie e di avere qualche buona recensione. Il sogno è che magari queste mie parole, condividendole, possano davvero diventare uno strumento.

Roberto Saviano

 

 

A dieci anni dalla pubblicazione di Gomorra il ‘caso’ Saviano desta ancora grande interesse anche se l’attenzione si è decisamente spostata dalle vicende biografiche e letterarie del suo autore verso la potenza espressiva della serie televisiva, capace di catalizzare un numero impressionante di spettatori e di mobilitare larghe fasce dell’opinione pubblica. Lungi dall’essersi inaridita, l’onda transmediale di questo testo-feticcio degli anni zero continua a segnare l’immaginario contemporaneo, a suggerire trame, personaggi, icone che meritano di essere ricomposte e analizzate.

Consapevoli della porosità della ‘costellazione-Gomorra’, abbiamo scelto di verificare la tenuta del romanzo guardando oltre il suo orizzonte di carta, puntando l’attenzione sui frammenti visivi che ha generato, sulle scorie che si sono depositate nel passaggio dal teatro al cinema fino all’approdo fatale nell’orbita della serialità. La scelta di ‘rimappare’ le immagini di Gomorra ci ha permesso di recuperare discorsi e approcci differenti, con un taglio per lo più comparatistico ma a partire dai metodi propri dei film e media studies, che abbiamo organizzato secondo quattro direttrici principali.

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Mi pare significativo che Repubblica, per introdurre il nuovo libro di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, abbia parlato di «un romanzo vero, un romanzo-romanzo: con tanto di invenzione e fantasia». Quasi una forma di riconoscimento, indiretta e retrospettiva, della difficoltà a considerare Gomorra un romanzo vero e proprio, anche se molti – vedere per credere la pagina di Wikipedia – a suo tempo lo giudicarono e definirono tale. Per capire il senso di quello che nel frattempo è diventato l’universo mediatico di Gomorra, credo allora sia opportuno partire da qui, da questa domanda: qual è l’identità del libro di Saviano? A quale genere appartiene?

Fosse stato scritto negli Stati Uniti, cadrebbe nella categoria del new journalism, col quale condivide il tratto fortemente soggettivo dell’inchiesta giornalistica: il reporter non espone i fatti, al contrario li metabolizza in chiave narrativa per renderli appassionanti e, a dispetto della loro comprovata evidenza, vagamente improbabili [fig. 1]. In Gomorra la soggettività di Saviano trapela soprattutto dalla scelta di dare ai suoi reportage un tono elegiaco, di rimpianto, che corre sotto traccia lungo tutto il libro. Una vena dolente attraversa i capitoli, quasi che l’autore si rammaricasse costantemente, pur senza mai dichiararlo esplicitamente, del triste destino toccato in sorte alla sua terra. Sullo sfondo dei delitti e dei misfatti, dei crimini e degli scempi edilizi, è tangibile l’amarezza per lo sfacelo cui è andato incontro un luogo che avrebbe potuto conoscere un destino diverso («È strano come con chiunque parli, qualunque sia l’argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti. “È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch’io”. Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone»).

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L’idea che Gomorra potesse mutare dimensione e divenire forma teatrale sembrava essere parte del suo destino. Ancora non era uscito che mi si avvicinarono in due, un regista e un giovane attore, a chiedermi di poter trasformare qualsiasi cosa avessi scritto in forma teatrale. Come se avessero in mente cosa fare sin dal primo momento in cui ci eravamo incontrati. Come una sorta di necessità. Qualcosa che puoi affrontare solo assecondandolo (Saviano, 2009).

Così Saviano ricorda l’incontro con il regista Mario Gelardi e l’attore Ivan Castiglione, che di lì a qualche tempo avrebbero curato l’adattamento teatrale di Gomorra. Rimasto un po’ in ombra, rispetto al clamore suscitato dal film di Garrone e dalla serie televisiva, lo spettacolo risponde in realtà a una precisa strategia retorica, legata al potere della parola e alla pregnanza del gesto. Per cogliere fino in fondo la ‘necessità’ di tale riduzione occorre ricordare l’importanza che lo stesso autore attribuisce al teatro, considerandolo il luogo che «permette una diffusione di verità fatta di timpani e sudore, di sguardi e luci fioche» (ibidem). Lungi dall’essere un fatto meramente occasionale, il rapporto con la scena si configura subito come importante momento di verifica e di espressione di sé, come dimostreranno più avanti le incursioni in prima persona ai bordi del palco con il monologo La bellezza e l’inferno (2009) prodotto addirittura dal Piccolo Teatro per la regia di Serena Sinigallia [fig. 1].

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1. Ciò che maggiormente colpisce, ripensando al fenomeno Gomorra nelle sue varie incarnazioni, è quanto l’esito forse artisticamente più alto della ‘filiera’, il film di Matteo Garrone, sia stato alla fine quello con meno conseguenze sull’industria culturale e sull’opinione pubblica. Anzi, già il successo del film aveva preso alla sprovvista gli stessi produttori, che non si aspettavano un incasso così trionfale: 10 milioni di euro, decimo posto dei film più visti nella stagione. Da allora, nessun film italiano che non fosse una commedia ha raggiunto quelle cifre.

Colpisce soprattutto la difficoltà che la critica, italiana e straniera, ha avuto a collocare il film. Per lo più, si è insistito molto sul realismo di fondo, arrivando a parlare di ‘neo-neorealismo’, trascurando il lavoro svolto da Garrone sulla messinscena, e il suo peculiare metodo. La novità del film stava infatti anzitutto nel rifiuto della tradizione del cinema politico e di denuncia italiano, di ogni didascalismo come del frequente i metodi del poliziesco o dell'indagine ai problemi sociali.

Il successo del film si è poi proiettato sull’intera opera del regista, fino a costituire un equivoco critico. Garrone è diventato ‘il regista di Gomorra’¸ il narratore realista di un mondo degradato. L’equivoco si è proiettato sul film successivo, Reality, che dunque (pur essendo forse il capolavoro dell’autore, intreccio di allegoria e fiaba incarnato in luoghi iperrealisti) è stato ascritto a un grottesco di fondo: il critico di un quotidiano descrisse addirittura la scena iniziale come «un matrimonio di camorristi». Invece, a leggere nell'insieme la sua opera, è proprio lo sfondo sociale così determinato a costituire un’eccezione nell’opera del regista. Il quale, dopo le prime prove costituite da una narrazione più aperta, tentata dalla commedia, ha strutturato sempre più il proprio cinema a partire da un conflitto tra il copione e la regia, facendosi cantore di ossessioni radicate in un set forte, in cui echeggia la sua formazione di pittore. L’imbalsamatore, Primo amore, Reality, Il racconto dei racconti sono altrettante fiabe italiane, tendenti al gotico con qualche accenno di grottesco, e insieme costituiscono, senza alcun affondo sociologico, una forma mediata di antropologia di un paese e di una interazione tra set e personaggi del tutto peculiare, più prossima al cinema sperimentale che all’uso corrente dei luoghi nel cinema italiano e non solo.

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1. Non mi bastavano le fotografie

…Sono stato per la prima volta a Casal di Principe nel giugno dell’anno 2005, quale inviato del settimanale “D” di Repubblica.

Un grande cancello rosso in ferro e un muro altissimo, almeno 3 metri, circondava la dimora di Walter Schiavone; il lungo viale fatto di sanpietrini e in fondo, la villa semidistrutta, bruciata, vandalizzata e completamente spogliata di ogni pezzo di valore: ringhiere, infissi, lampadari, marmi. Restavano i segni del lusso e del potere: le colonne, il timpano, e la vasca, come nelle case patrizie dell’Antica Pompei; ma quella era la villa di Scarface.

Delle ore trascorse nella villa a fotografare ricordo che mi sentivo come quando da bambino volevo fare l’archeologo, una sorta di avventura alla scoperta di tutti i possibili segni lasciati dalla famiglia che abitava quei luoghi nel passato.

Entrai dappertutto e spesso la meraviglia di quella singolare scenografia mi faceva sgranare gli occhi: immediatamente aprivo il cavalletto.

Dovevo dare il tempo alla luce di scalfire e penetrare nel nero della fuliggine per leggere i dettagli più nascosti; chiudere il diaframma al massimo per ottenere una messa fuoco nitida dell’immagine in tutta la sua profondità. La poca luce che entrava dalle finestre ostruite dalle piante infestanti, mi costringeva a esposizioni di decine di minuti, e tutto quel tempo lo utilizzavo per memorizzare il luogo; non mi bastavano le fotografie.

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Tra le tante storie germinate dalle radici di Gomorra c’è quella raccontata dalle foto di Mario Spada scattate sul set del film di Garrone, che aggiunge un altro episodio alla straordinaria avventura «transmediale» (Wu Ming, 2009) a cui ha dato avvio la penna di Saviano. Lo scrittore napoletano, nelle due pagine che accompagnano il volume che raccoglie gli scatti (Postcart, 2009), disegna il ritratto del fotografo puntando subito l’attenzione sulla prossimità dello sguardo rispetto all’oggetto messo a fuoco:

Il discorso di Saviano potrebbe forse essere letto alla luce di quanto Sciascia dice a proposito delle fotografie di Ferdinando Scianna: la capacità del fotografo di Bagheria di cogliere in un istante aspetti riposti della ‘sicilitudine’ deriva dalla consuetudine del suo sguardo immerso in una realtà che conosce bene. Sciascia cita la teoria di Stendhal sull’innamoramento espressa in De l’amour, in cui l’immagine della cristallizzazione del rametto esposto alle intemperie durante l’inverno e trasformato in carbone diviene la metafora della sintesi apparentemente inconciliabile di tempi lunghi e repentini che caratterizzano l’insorgere dell’amore… e per Sciascia anche della fotografia. Spada, come Scianna, conosce bene l’universo sul quale punta l’obiettivo della sua Leica, ma lo ritrae poi nei tempi contratti dello scatto «con un’aggiunta imprevista di contorni e significati», grazie al suo «sguardo discreto e impietoso». È ancora Saviano a notare i tratti del suo stile inconfondibile e a sottolineare la fedeltà ad un’idea della fotografia come ricerca di «luoghi di vita», anche nella eccezionalità delle foto realizzate sul set del film di Garrone, all’interno del quale Spada «si muove come un animale nel suo habitat, in situazioni verosimili, ma questa volta finte. Eppure le ritrae in tutta la loro verità».

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«Se sono bravi vivono» dice Matteo Garrone sul set di Gomorra durante una pausa delle riprese. Sta cercando di frenare l’ ‘entusiasmo’ di Giovanni Venosa, interprete del capo del clan di Pineta Mare, talmente immedesimato nella parte e coinvolto nel progetto del film da suggerire con grande insistenza al regista di concludere la storia con la morte, per mano sua, di Marco e Ciro (Marco Macor e Ciro Petrone), protagonisti della quinta sezione dell’opera [fig. 1].

È uno dei passaggi chiave dell’ultima parte del documentario realizzato da Melania Cacucci e intitolato Gomorra. Cinque storie brevi che, come il film di Matteo Garrone, si struttura in segmenti non tuttavia intrecciati ma corrispondenti a capitoli separati incentrati sui personaggi principali del film.

Il materiale, girato con tecnologia digitale agile e ‘leggera’, viene montato da Elisa Santelli con sequenze del film, registrazioni dei ciak (tramite video assist) e brani audio di presa diretta al fine di costituire quello che originariamente doveva essere il backstage del film da inserire nei contenuti extra del DVD. Le figure umane e le dinamiche che tra esse si stabiliscono, prontamente colte dalla videocamera della regista, fanno sì tuttavia che il progetto iniziale, da semplice ‘dietro le quinte’ di Gomorra, si trasformi in un documento più articolato che approfondisce i temi presenti nel film e il contesto in cui si è svolta la lavorazione.

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Il 12 ottobre del 2016, nel corso della diciassettesima puntata di Gazebo Social News, lo show condotto da Diego Bianchi, il vignettista e autore Makkoz disegna un personaggio proveniente da Napoli. Lo rappresenta con una caricatura di Genny Savastano, uno dei protagonisti di Gomorra - La serie, con tre frasi che contornano il personaggio [fig. 1]: «Stai senza pensieri», «Two Fritturs» e «Come to take the forgiveness». Ci sono una serie di cortocircuiti linguistici e mediatici che vanno in scena all’interno di questa immagine, una serie di immaginari che vengono convocati. Siamo all’interno di una trasmissione televisiva in un certo senso di nicchia, come Gazebo, ma a cui il preserale ha dato una più vasta popolarità. Le frasi, forse oscure ai più, arrivano dalla serie tv di Gomorra, ma rimodellate dal gruppo satirico The Jackal, autore di una fortunata web serie parodica, Gli effetti di GOMORRA LA SERIE sulla gente (d’ora in poi, Gli effetti). Alcune poi sono in inglese perché la web serie ha avuto un piccolo spin-off, Impara l’inglese con GOMORRA, dove i tormentoni vengono tradotti in inglese. Web, TV, ma anche cinema: il Genny Savastano disegnato da Makkoz rimanda molto più marcatamente al De Niro di Taxi Driver di quanto non lo faccia il personaggio della serie – che pure sempre da lì attinge parte del proprio stile e mise. Può sembrare strano partire da questa immagine per parlare di un aspetto del mondo Gomorra, ma proprio immagini come questa fanno vedere quando questo sia entrato nella cultura popolare, e lo abbia fatto ibridando una serie di linguaggi e media diversi.

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La prima sequenza di Gomorra di Matteo Garrone si svolge in un centro estetico. Gli spazi angusti delle cabine abbronzanti e di una toilette invadono le inquadrature ravvicinate. Tutta l’immagine è bagnata in una luce blu intensissima [fig. 1]. Per qualche secondo la sensazione è di trovarsi in un altro mondo, uno spazio futuristico e sospeso: poi subentra la tensione, e sarà l’irruzione della lingua napoletana e soprattutto l’esplosione di violenza a precipitare bruscamente lo spettatore nelle precise coordinate spazio-temporali che rispondono al nome di Gomorra.

La prima inquadratura del primo episodio di Gomorra - La serie è una strada notturna, sovrastata da un cavalcavia, su cui incombe a sua volta un cielo nuvoloso blu cupo [fig. 2]. È un esterno gravato da una banda orizzontale scura, che ne abbatte il potenziale spaziale. Nel corso della serie il blu appare come un colore ricorrente, presente in modulazioni diverse nelle scene notturne o nelle location interne: un blu innaturale, come le stranianti prime inquadrature del film del 2008, riaffiora nell’uso di neon, luci pop, fluo, nei locali e nelle stanze che hanno il ruolo di luoghi del potere. L’illuminazione artificiale è uno dei principali strumenti visivi usati dalla serie per controbilanciare la cifra realistica che emerge ad esempio nella rappresentazione cruda della violenza.

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