Grande Laura!

di

     
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In occasione del focus speciale su Laura Betti, lo scrittore e critico Goffredo Fofi ci regala una testimonianza lucida e appassionata del suo rapporto con l’amica attrice, delineando i tratti di un rapporto sui generis, cresciuto nel tempo e alimentato da un approccio sempre schietto e sincero.

On the occasion of the special focus on Laura Betti, the writer and critic Goffredo Fofi gives us a lucid and passionate testimony of his relationship with her, outlining the features of a relationship sui generis, which has grown over time and has always remained sincere.  

 

 

 

Più che un'attrice – pur brava, anzi più brava di quanto non le venisse riconosciuto – Laura Betti fu un personaggio davvero importante nella storia dello spettacolo italiano per quanto ha saputo dare alla musica e al teatro e non solo al cinema, senza dimenticare la sua attività di scrittrice decisamente ‘d'avanguardia’, incurante di regole e più libera finanche del suo amico e maestro Pasolini. Bisognerebbe rileggerla, oggi, con l'attenzione che merita e certamente, credo, si resterebbe ancora sorpresi della sua creativa libertà... più ‘d'avanguardia’ di quella di tanti famosi ‘avanguardisti’...

 

 

Bisognerebbe forse parlare di lei e della sua attività senza legarla alla costante presenza di Pasolini nella sua vita, anche se per lei fondamentale, una storia di vita e non solo di arte. Sono stati una ‘strana coppia’ di amici, quella di lei con Pasolini, in una vicinanza e solidarietà più stretta di quella di tante matrimoniali, ‘regolari’... In qualche modo Laura, che pure ha avuto più amori nel mondo che più ha frequentato, quello del cinema, di Pasolini è stata la compagna fedele per tanti anni, condividendone vita quotidiana, interessi, amicizie, gusti e opinioni, e spesso esperienze artistiche.

 

 

Ho avuto la fortuna di esserne stato anche io amico, quando infine la reciproca diffidenza svanì, dal giorno in cui all'uscita dalla visione di un film di Straub al Quattro Fontane, mi si accostò per dirmi che le persone più rispettose della memoria e del valore di Pier Paolo eravamo infine ‘i piacentini’: Giorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Alfonso Berardinelli e me. Ci si era visti più volte, sia a Milano (a volte in casa di due indiscussi amici di Pier Paolo, e buoni amici dei ‘piacentini’ e miei in particolare, Paolo e Giovina Volponi; Paolo amico di gioventù e il più vicino a Pier Paolo tra tutti, dopo Laura...) che a Roma, più assiduamente al tempo in cui Laura fu molto vicina a Marco Bellocchio. E con Marco e Laura ho diviso l'avventura di Sbatti il mostro in prima pagina... Quando lavoravo alla Garzanti, a Milano, ebbi anche modo di seguire la lavorazione di due suoi libri, belli e faticosi....

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*Per gentile concessione di Duetredue Edizioni si pubblica un estratto del volume di Stefania Rimini Con occhi torbidi e innocenti. Laura Betti nel cinema di Pasolini (2021). Questo capitolo presenta un'analisi approfondita degli esordi di Laura Betti e del suo apapssionato modo di vivere. Per l’occasione il testo è stato corredato da alcuni scatti provenienti dall’Archivio Mario Dondero.

Courtesy of Duetredue Edizioni, it is pubblished an excerpt from Con Occhi torbidi e innocenti. Laura Betti in Pasolini's cinema (2021) written by Stefania Rimini. This chapter is an indepth analysis of the beginnig of Laura Betti and her passionate way of life. The text is now illustrated by some pictures from the Mario Dondero Archive.

 

 

1.1. Ero tutta costruita

L’invenzione di sé impegna Betti per tutta la vita, fin dall’arrivo nella capitale, a soli vent’anni, con alle spalle un tormentato rapporto con le proprie radici e con la città di Bologna. È lei a edificare e a sfruttare i diritti della sua immagine pubblica, con una perentorietà inaspettata, che rivela la predisposizione verso gli ingranaggi della macchina dello spettacolo.

 

 

 

Restando immune da ogni forma di manipolazione, Betti sceglie liberamente a quale modello corrispondere, grazie a un innato anticonformismo e a una spregiudicatezza che non restano inosservati. Il suo primo personaggio presenta caratteristiche immediatamente riconoscibili, ancorché misteriose, e sembra garantirle un effetto di lunga durata, come annota opportunamente Roberto Chiesi.

L’aneddoto relativo all’epiteto di «giaguara» è la chiave di volta dello statuto divistico di Betti, perché da una parte rinvia alla sua indomabile tensione performativa, a quella «ferocia felina»[3] che avrebbe caratterizzato molti ruoli, dall’altra invece evoca il clamore delle cronache mondane, la protervia con cui lei amava ‘darsi in pasto’ ai paparazzi. Due diverse testimonianze illuminano questa doppia tensione, e ci consentono di cogliere la necessaria complementarietà fra dimensione artistica e riverberi mediatici.

Jacqueline Risset, nel suo commosso Ricordo di Laura Betti, non si limita a recuperare l’eziologia del soprannome ma giunge a descrivere l’intensità della presenza dell’attrice, la sua frenesia insaziabile, e con esse la centralità del rapporto con Pasolini, in grado di incidere perfino sul suo sbilanciamento corporeo, nell’ osmosi dialettica fra vicinanza/leggerezza e distacco/gravità. Al di là dell’aneddoto, ingrediente essenziale nella biografia di Betti, qui conta il riconoscimento di un tratto fisico destinato a incidere il carattere, nonché a suggerire trame e traiettorie delle «personagge»[5] da lei interpretate. Più che per la «mangusta» Vanoni,[6] il soprannome la giaguara incarna infatti una tensione performativa che si ritrova nella maggior parte delle sue apparizioni, tanto in scena quanto sullo schermo. È quel che accade, per esempio, in Italie magique di Pier Paolo Pasolini, uno dei testi raccolti in Potentissima signora per la regia di Mario Missiroli.[7] In questo atto unico, che Betti non esita a definire «in anticipo sui tempi e sulle mode»,[8] la sua presenza si articola secondo precise direzioni di senso, giocate sulla frizione fra mimica corporea e verbalità, fra la pura afasia della danza e l’ossessione per i calembours. Trasformata dall’immaginazione pasoliniana in una sorta di «Italia Liberty»,[9] Betti occupa la scena con forti accenti patetici e un sorprendente dinamismo gestuale, di cui purtroppo restano poche tracce ma che rappresenta senza dubbio uno dei vertici della sua avventura teatrale. La grazia en travesti di questo potente «spettacolo volante»[10] anticipa le movenze e gli sguardi delle figure cinematografiche che mostreranno di lì a poco– come vedremo nella seconda sezione di questo studio – l’inclinazione promiscua del corpo, della voce e del gesto, nonché tutta la sua «innocenza animalesca».[11]

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Mamma Roma appare il frutto del contrasto fecondo tra la corporeità, disordinata e ossimorica, di Magnani, in tutte le sue emanazioni – il distendersi delle posture nel gioco d’attrice, le variazioni della voce, dal canto all’urlo alla risata – e la tensione astrattiva di Pier Paolo Pasolini che mira a fissarla in una icona, figura simbolica che rappresenta un’essenza, un assoluto scolpito nel mito e non più vivo nella confusione del reale. Così il film esalta l’attrice nella sua doppia misura performativa: mostra la messa in forma del corpo, di taglio teatrale, nel piano sequenza e mette in luce il lavoro cinematografico dell’attrice nel primo piano.

Mamma Roma appears to be the outcome of the fruitful conflict between Anna Magnani’s corporeality, marked by disorder and excess, in all its forms – the gestures and the voice, screaming, singing, laughing – and the tension towards the abstraction typical of Pier Paolo Pasolini, that tends to freeze the actress as it sees her as an icon or a myth, as opposed to someone alive in the confusion of the real. Therefore, the film enhances Magnani in her double quality as a performer: in the sequence shots it shows the gestures of the entire body typical of her performances on stage, whereas the close-ups put to the foreground her work as a cinematographic actress.

 

1. Scritture

In un passo del 1960 dal titolo Donne di Roma, Pier Paolo Pasolini descrive così la figura di Anna Magnani:

A stagliarsi per primo è il volto dell’attrice, con i contrasti vividi di luce e ombra: gli occhi bistrati di nero si distendono sulla pelle candida come un fazzoletto. Magnani appare bendata, come fosse cieca, una veggente o una profeta: una sorta di idolo. Pasolini vede nell’attrice sì un corpo governato dalla fisiologia (le risate, i piccoli rutti, l’andare al bagno) ma soprattutto una figura ieratica («sta seduta sempre col busto eretto», «come su un palcoscenico»). Magnani è «la pura vita», segno e corpo di una romanità eterna e a-storica (le «generazioni di donne romane che sono state al mondo prima di lei»).

A ridosso delle riprese del film, la figura di Anna Magnani torna ad affacciarsi nella scrittura pasoliniana:

 

 

Il brano di Donne di Roma gioca sulla materialità concreta e perfino scatologica per poi aprirsi alla dimensione simbolica (Roma sub specie Magnani). La parola poetica adotta lo stesso passo e lavora per astrazione: riassume per sineddoche il corpo dell’attrice nelle «ciocche» e nelle «occhiaie», e la musicalità quasi scricchiolante dei termini sembra trasformarne il volto, dissolvendolo in un elemento ritmico, battente e ripetuto. Dal canto suo, la dimensione sonora è ossimorica: domina nell’«urlo» che «risuona nelle disperate panoramiche» per acquietarsi subito dopo nelle «occhiaie mute» e culminare nel silenzio sonoro (un canto tanto forte da rendere sordi, dunque impossibile da udire) che chiude l’ekphrasis della celebre sequenza di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945). Ancora un passaggio dal concreto all’astratto: la voce di Magnani/Pina perde matericità, quasi si stacca dal corpo per assumere una consistenza eterea e distendersi negli spazi senza storia della tragedia, divenendo «canto degli aedi», suono eterno e tuttavia, per paradosso, silenzioso proprio perché assordante.

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Il saggio analizza l’interpretazione di Alida Valli in Edipo re (1967), dove impersona il piccolo ma intenso ruolo di Merope, la madre adottiva del protagonista. Il breve lacerto di film è esplorato sia all’interno della carriera della diva, sia in relazione alle strategie messe a punto da Pier Paolo Pasolini nel lavoro con le attrici e gli attori professionisti.

This essay analyzes the performance offered by Alida Valli in Edipo re (1967), where she plays a small but intense role, that of Merope, foster mother of the main character. The short fragment of the film is explored in the frame of the career of the diva as well as in the light of the strategies defined by Pier Paolo Pasolini in his work with professional performers

Se nel sentire pasoliniano l’immagine materna penetra con profonde radici (cfr. Rizzarelli 2021), in Edipo re, per ragioni forse persino ovvie, essa si intensifica e si addensa, accampandosi subito, a partire dall’incipit, al centro del quadro. Tutto comincia, nel prologo novecentesco, con un mobile sguardo che, abbandonata la fissità della pietra miliare, ove si legge, sibillina, la scritta «Tebe», si avvicina con due tagli di montaggio a un elegante palazzetto e scruta l’interno di una ampia porta-finestra affacciata su un balconcino. Nel primo piano sonoro, dispersa l’eco di una banda paesana e i trilli di un campanello di bicicletta, si odono i canti delle cicale, lo spirare di un vento leggero, i brusii della campagna circostante; intanto, incorniciata nel muto riquadro del vetro, si svolge la scena del parto, con l’agile e misteriosa venuta al mondo del bambino. I fiori sul terrazzo, le ali azzurre delle persiane e il profilo brunito della ringhiera, che ingombra e insieme ingentilisce la veduta, conferiscono alle due brevi inquadrature di questa natività il ricercato lucore di un sigillo cloisonné e, insieme, la bonaria sacralità di un ex voto [fig. 1]. Poco dopo, la sequenza del prato, con l’estasi appagante dell’allattamento e lo scambio di sguardi fra la madre e il figliolino, dice senza bisogno di parole la forza tenera di un legame assoluto ma ambivalente.

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Laura Betti vive a fianco di Pasolini un’avventura artistica esaltante che la porta a esplorare un modo ‘paradossale’ di recitare davanti alla macchina da presa. Il suo stile rimane inconfondibile e si caratterizza per un mix spregiudicato di mimica ed espressività vocale. I ruoli interpretati nel cinema di Pasolini ci consegnano i tratti di una personaggia ingenua e ambigua allo stesso tempo, autentica e camaleontica.

Laura Betti lives alongside Pasolini an exciting artistic adventure that leads her to explore a 'paradoxical' way of acting in front of the camera. His style remains unmistakable and is characterized by a mix of facial expressions and vocal expressiveness. The roles played in Pasolini's cinema give us the traits of a naive and ambiguous character at the same time, authentic and chameleonic.

  Ho fatto circa cinquantacinque film e mi pare di aver capito, solo ora, che per quanto io abbia ben nascosto la parte di me che sono io, evitando eccessive confusioni con il mio doppio programmato mica male proprio da me, Pier Paolo riusciva a capirmi (spesso non me ne accorgevo e lo negavo beffardamente) meglio di chiunque altro (Betti 1991, p. 189).

 

Il rapporto simbiotico fra Betti e Pasolini raggiunge sul set livelli di intensità non comune, testimoniati dagli scatti dei fotografi di scena, da dichiarazioni, interviste, tutte impronte di un frammentario discorso amoroso che si ricompone poi nell’assolutezza dei fotogrammi. Lungi dall’essere solo ‘tracce vaporose’ (Nacache 2006, p. 19) di una mitografia leggendaria e inafferrabile, questi documenti rinviano alla concretezza di un rapporto di complicità capace di illuminare lo stile del regista, di sollecitarne l’ispirazione fino al punto di sospendere le riprese di Teorema in attesa che Betti si convinca a interpretare Emilia. Questo episodio è solo uno dei tanti aneddoti che è possibile ripescare grazie alla spinta affabulatoria di Betti, sempre pronta a suggerire nuovi spunti pur di ribadire in pubblico la forza del suo legame con Pasolini, ma ciò che più conta è la reciprocità dello scambio performativo e artistico, ovvero la possibilità per il regista di ‘giocare’ con le diverse maschere della sua ‘pupattola bionda’. La relazione artistica fra Betti e Pasolini appartiene allora a quelle che Nacache definisce «associazioni privilegiate» (Nacache 2003, p. 79), contraddistinte da un’intesa ‘amorosa’, una collaborazione appassionata. Quel che scaturisce da tali ‘associazioni’ è «la permanenza di uno sguardo su un volto» (ibidem) e con essa una galleria di piani e sequenze che contrappuntano la declinazione dell’atto cinematografico. Per capire quali siano gli effetti della prolungata esposizione dell’attrice allo sguardo del suo ‘autore’ basta ancora una volta affidarsi alle sue dichiarazioni, sempre puntuali nel riferire la natura del loro legame.

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In un anno segnato da varie iniziative culturali destinate al ricordo di Marilyn in occasione del sessantennale della sua morte, ri-leggere il testo di Anne Carson Norma Jeane Baker of Troy (pubblicato in traduzione italiana da Crocetti nel 2021) costituisce un’occasione per tornare a riflettere sulle molteplici rifrazioni transmediali del mito della stella più luminosa di Hollywood. Il presente contributo, soffermandosi sulle potenzialità semantiche che si sprigionano dall’accostamento di Norma Jeane alla protagonista della tragedia di Euripide, su cui si fonda la pièce di Carson, mette in evidenza la persistenza del motivo del doppio e delle sue implicazioni fantasmatiche presenti nella ricezione dell’icona della star, nella letteratura come nella fotografia.  

In a year marked by various cultural events dedicated to the memory of Marilyn on the occasion of the sixtieth anniversary of her death, re-reading the text by Anne Carson, Norma Jeane Baker of Troy (published in Italian translation by Crocetti in 2021), is an opportunity to return to reflect on the multiple transmedia refractions of the myth of the brightest star in Hollywood. This contribution, dwelling on the semantic potential that is released by Norma Jeane’s approach to the protagonist of Euripide’s tragedy, on which Carson’s play is based, highlights the persistence of the motif of the double and its phantasmic implications present in the reception of the star, in literature as in photography.

 

Il titolo della edizione italiana della pièce di Anne Carson, Era una nuvola (Norma Jeane Baker of Troy. A version of Euripide’s Helen, New York, New Directions, 2019), scelto dalla stessa autrice come ricorda il curatore Patrizio Ceccagnoli nel saggio introduttivo,[1] costituisce già una evocativa chiave di lettura dell’operazione di riscrittura dell’Elena di Euripide e di sovrapposizione del mito antico con quello più moderno di Marilyn. Il testo di Carson, scritto su commissione per inaugurare lo spazio newyorkese dello Shed, affidato poi alla regia di Katie Mitchell e interpretato dall’attore Ben Whishaw e dalla cantante lirica Renée Fleming, si pone infatti sulla scia di una costante pratica di disambientazione contemporanea della classicità che la poeta, drammaturga, saggista, traduttrice e docente di greco antico di origine canadese porta avanti da tempo.

 

La ‘versione dell’Elena’ che Carson propone è concepita come un monologo (un «melologo» nell’accezione dell’autrice, nel senso di una combinazione di melòs e lògos, di canto e discorso) in cui la protagonista, Norma Jeane Baker, rivive le vicende dell’eroina euripidea in un pastiche fondato sulla moltiplicazione dei sensi attribuiti allo sdoppiamento e alla natura fantasmatica dell’immagine di Elena. Come è noto, la ‘versione’ di Euripide demistifica l’epos della narrazione della guerra di Troia, svelando al naufrago Menelao e a tutto il pubblico di ieri e di oggi che la donna che ha rincorso per mare e per terra, conducendo tanti validi eroi a impegnarsi in un conflitto lungo ed estenuante, non è niente più che un simulacro creato dalla dea Era «con un pezzo di cielo»,[2] un’immagine eterea raddoppiata della donna amata, mentre la vera Elena è stata condotta da Ermes in Egitto e tenuta prigioniera nella regia di Proteo. Carson riprende e amplifica il topos del miraggio e della copia, così come il gioco degli equivoci e dei mascheramenti su cui si fonda la drammaturgia della tragedia, e lo eleva a sistema, ne fa cioè il dispositivo cardine della sua riscrittura che agisce nella costruzione dei caratteri, del plot, del luogo in cui si svolge la vicenda, come della stessa struttura.

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Io so che in ogni grande scrittrice […] c’è una grande attrice e viceversa […]. Feci questa scoperta con Elsa Morante, un giorno di sua ira furiosa […] mi trovai sotto i suoi insulti a stupirmi affascinata dei tempi d’attrice che possedeva. Lei mi insultava e io pensavo: […] [potrebbe] essere una tragica perfetta; in certi suoi sguardi e gesti, infatti, mi ricordò la Magnani. […] Anche della silenziosa Natalia Ginzburg si potrebbe fare un’attrice comica.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia

 

1. Orientarsi con le stelle

Dietro, o meglio dentro, ogni grande scrittrice si indovina la figura, e soprattutto la voce, di una attrice (Sapienza 2013, pp. 129-130). È una intuizione lucidissima di Goliarda Sapienza, che ha vissuto in bilico fra i suoi talenti, a indicarci la rotta da seguire, segnando poeticamente la nostra mappa.

E dunque, a partire dalla immagine fantasticata di una Elsa Morante impareggiabilmente tragica e di una Natalia Ginzburg silenziosamente comica (ibidem), cominciamo a interrogarci sul nodo, strettissimo, che lega scrittura e recitazione, guardando alla folta schiera delle attrici che scrivono. Questa prima ricognizione appare promettente e foriera di rilanci e ricerche future, giacché le nostre attrici-autrici, convocate dalle studiose in una sorta di animata e risonante fotografia di gruppo, testimoniano la ricchezza, la molteplicità e lo spessore di una produzione testuale che sembra non fermarsi e porsi in continuità, o meglio in serrato confronto, con le parole, i gesti performativi, e con il loro muoversi sul set o sul palcoscenico. Che si tratti di romanzi (e pensiamo ancora, per prima, a Sapienza e alla sua Arte della gioia), o di poesie, come nel caso di Elsa de’ Giorgi, Mariangela Gualtieri e Isa Miranda; di arguti scritti giornalistici e di interventi di costume più immediatamente prossimi alla costruzione della immagine divistica, come testimoniano la rubrica di piccola posta curata da Giulietta Masina e le saporose ricette elaborate da Sophia Loren per le sue ammiratrici; o dell’ampio panorama delle autobiografie, da Doris Duranti a Asia Argento; ciò che emerge e risuona è la mutevole presenza di voci che cercano, aprono e in ogni caso mettono in scena la partitura di un dialogo. Con se stesse, con le lettrici-spettatrici, con il riflesso della loro facies pubblica, con le attrici e le donne che sono, che sono state o che desiderano diventare. È forse proprio questo carattere intimamente relazionale – in molti e differenti sensi – il filo rosso che tiene insieme esperienze e parole fra loro molto distanti, sia per la cronologia, sia per la varietà dei generi letterari attraversati.

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Nel panorama abbondante, diversificato e discontinuo delle scritture delle attrici teatrali – in attesa di un censimento vero e proprio – intendo mettere a fuoco i seguenti punti.

 

1. 1887, la prima autobiografia d’attrice in Italia Ricordi e studi artistici di Adelaide Ristori

Tutti e quattro i protagonisti della generazione del Grande attore – Adelaide Ristori, Ernesto Rossi, Tommaso Salvini, Antonio Petito – scrivono le loro memorie ma non per questo è meno forte il gesto di Ristori di riconoscersi soggetto degno di biografia, sia pure novant’anni dopo il pionieristico Mémoires de Mlle Clairon, actrice du Théâtre Français, écrits par elle-même. Le memorie sono uno strumento fondamentale di costruzione e diffusione della propria immagine pubblica, dunque fissano immagini artificiali e idealizzate che vanno decodificate. Ristori fornisce di sé un’immagine edificante di moglie e di madre ma nello stesso tempo mette in luce i suoi poteri come primadonna e capocomica e non ne nasconde i lati faticosi. E, soprattutto, oltre alle vicende biografiche, propone sei studi approfonditi dei maggiori personaggi interpretati [fig. 1]. Da questo punto di vista rappresenta un modello avanzato rispetto a produzioni successive anche recenti, pur significative: la stessa Valentina Cortese – indiscutibilmente una diva – è avara di approfondimenti sul suo lavoro specifico di attrice (Quanti sono i domani passati) e ancor meno dicono le memorie di Ilaria Occhini (La bellezza quotidiana).

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