Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è. (Calvino 1992, p. 589)
Per i lettori di Calvino non è insolito confrontarsi con dei testi che sono il risultato di una sfida. Infatti, se l’autore ligure ha spesso ammesso che la genesi delle sue opere è puramente visiva, ossia dipende da un’immagine da cui prende forma la scrittura (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1210), avrebbe dovuto confessare che sullo stesso piano stanno anche delle contraintes autoimposte. La creatività calviniana, sin dagli anni Quaranta, sembra doversi confrontare con ingaggi impossibili per riuscire a esprimere pienamente. La prospettiva o la voce scelti per un romanzo o un racconto divengono l’unica via per esprimersi sin dal suo esordio con il Sentiero dei nidi di ragno (‘Prefazione 1964’, Calvino 1991, p. 1191).
All’interno di una pratica creativa che diviene col tempo ben rodata, la sfida con sé stesso si realizza spesso intorno all’immagine di città e diviene poi nello scorrere dei decenni una sorta di abitudine (Serra 2006, pp. 320-23), che sfocerà nel capolavoro che Calvino scrive tra il 1970 e il novembre del 1972 (Calvino 1992, pp. 1359): il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX).