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Storico, poeta e letterato, allievo di Roberto Longhi, Francesco Arcangeli è stato un protagonista appassionato della cultura italiana nell’immediato dopoguerra. Ereditando dal suo maestro gli strumenti filologici e lo stile ecfrastico che in quegli anni rifondano non solo la lingua dell’arte ma integralmente gli studi storico-artistici, Arcangeli riesce, assieme ad altri intellettuali suoi contemporanei, a farsi degno interprete della rinascita di valori culturali in grado di ricostruire un Paese distrutto dalla guerra. Nello studio dell’arte il critico bolognese si avvale di una lettura antropologica e di una concezione del tempo non più lineare, in grado di congiungere l’antico al moderno. La sua teoria del ‘tramando’, infatti, si propone come un’indagine di un fatto artistico non più vincolato alla sola analisi del contesto geografico e non più limitato alle sole categorie artistiche.

Il saggio di Filippo Milani, Le forme della luce. Francesco Arcangeli e le scritture di “tramando” (Bonomia University Press, 2018), recupera il pensiero arcangeliano e lo ‘tramanda’ – è il caso di dirlo – dentro un intreccio fitto e denso di rapporti intellettuali e di amicizie che Arcangeli intrattiene con gli scrittori e poeti Giuseppe Raimondi, Attilio Bertolucci, Giovanni Testori e il pittore Ennio Morlotti, intenti anche loro a riappropriarsi, tra gli anni Quaranta e Sessanta, di nuovi strumenti per rifondare gli studi sull’arte sulla letteratura. Milani analizza, dunque, la forza visuale della scrittura, situata al centro del dibattito tra gli autori, partendo dai concetti di realismo e di naturalismo, temi su cui si basa il pensiero del critico bolognese.

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Abstract: ITA | ENG

In un’epoca in cui si impone in modo rilevante la questione dell’enigmatica eredità lasciata dalla performance teatrale, della possibilità o meno che le sue tracce, i suoi resti, possano farsi reale memoria e testimonianza, una pubblicazione come Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) del Teatro Valdoca rappresenta un caso del tutto peculiare. I due volumi che compongono l’opera, infatti, sembrano muoversi nella direzione di un tentativo non tanto di rendere conto a posteriori di ciò che uno spettacolo (Giuramenti, 2017) e la sua realizzazione hanno rappresentato, quanto di intercettare le potenze, i flussi di energia, i nuclei di tensione che ne sono stati spinta iniziale e dinamica propulsione costante. Attraverso la parola e l’immagine, messe in campo in un modo capace di far saltare la consueta forma-libro e di spingerla ad accogliere l’ebollizione non addomesticata di una materia così potente, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti non mira all’impossibile meta di riconvertire le ceneri nel fuoco da cui sono nate, ma ci catapulta, piuttosto, nel bruciare stesso che ha generato quel fuoco e che infiniti altri ne può ancora attivare.

In an era when thoughts about the enigmatic heritage of theatrical performance rule and when question about the possibility that its tracks can become an effective memory is being debated, a publication like Teatro Valdoca’s Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti (Quodlibet, 2019) represents a very particular case. Its two volumes don’t try, in fact, to account for a show (Giuramenti, 2017) and for what it has been, but they attempt to intercept the powers, the energy flows and the tension nuclei that have been the initial push and the constant propulsion of it. Fielding words and images in a way capable of blowing up the book-form because of the break-in of a so powerful and non-domesticated material, Album dei Giuramenti. Tavole dei Giuramenti doesn’t try to reconvert ashes into the fire from which they come, but catapults us in the burning that generated that fire and that can still produce infinite pyres.

Tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri

Gustav Mahler

 

1. Ciò che innesca il rogo e ciò che resta del fuoco

Il fuoco e le ceneri: si potrebbe condensare in queste due immagini essenziali così strettamente correlate e al tempo stesso così sideralmente distanti, inconciliabili, la questione che la performance teatrale pone rispetto al proprio lascito, alla propria possibilità di convertirsi o meno in traccia significativa, espressiva.

Quando Jacques Derrida scrive che «la rappresentazione teatrale è finita, non lascia dietro di sé, dietro alla sua attualità, alcuna traccia, nessun oggetto da portare via» e che «non è né un libro né un’opera ma un’energia e in questo senso è la sola arte della vita»,[1] descrive un’arte, quella scenica, che come nessun’altra è accostabile all’idea del fuoco, che come il fuoco brucia e si consuma nell’atto vivo e presente, senza possibilità di replica, di reale memoria. D’altronde è della visione artaudiana di teatro che sta scrivendo, di quell’Antonin Artaud che, in un passaggio ormai divenuto celebre, scrive dell’arte scenica come di un’arte capace di farci sentire «come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme»,[2] permettendo a Derrida di descriverla come «l’arte della differenza e del dispendio senza economia, senza riserva, senza riscatto, senza storia».[3] Di un tale fuoco, insomma, sembrerebbe impossibile che si diano dei resti capaci di fornirne testimonianza efficace e potente quanto le fiamme che l’hanno costituito.

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Abstract: ITA | ENG

L’intento del saggio è di fornire una nuova lettura del celebre libro di Emilio Cecchi Messico, osservando in particolare le differenze tra le varie edizioni (1932, 1948, 1958 etc.). Si è ragionato sull’evoluzione dell’assetto del volume, data dall’introduzione di nuovi articoli, dalle ristrutturazioni dell’indice, e dall'espunzione delle 33 foto che corredavano la princeps. Il lavoro di ricerca si è avvalso della consultazione di tutte le foto conservate al Fondo Cecchi presso l’Archivio Contemporaneo Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze, foto scattate dallo scrittore durante il suo viaggio americano, e solo in minima parte pubblicate. Qui se ne presentano infatti nove, sette delle quali inedite e di grande interesse. L’articolo opera così una riflessione sullo sguardo e sul metodo di Cecchi-fotografo, e sulla sua scelta prima di arricchire il reportage con delle immagini, poi di rimuoverle. Ne deriva un percorso di lettura che affianca, a quelli più noti e già offerti dallo stesso Cecchi - il fil rouge del tema delle maschere, il significato della presenza del cinema muto - un ragionamento sul medium fotografico, di cui a tutt’oggi la vicenda critica cecchiana pareva essere mancante.

This essay provides a fresh interpretation of Emilio Cecchi’s famous book Messico, by focussing on the differences between the various editions (1932, 1948, 1958, etc.). I discuss how the book’s structure evolved from the inclusion of new articles, the restructuring of the index, and the deletion of the 33 photos that accompanied the first edition. My research embraces all the photos in the Cecchi Collection at the Bonsanti Contemporary Archive of the Gabinetto Vieusseux in Florence, photos taken by the writer during his trip to the United States, and published only in small part. Nine are presented here, seven of which of great interest and published for the first time. This article reflects on the eye and method of Cecchi-as-photographer, and on his choice to first enrich his reportage with images, and subsequently to remove them. The result is a process of interpretation that takes its place, along with Cecchi’s more famous and previous ones – within the common theme of masks and the significance of silent cinema – a reflection on the photographic medium that till now has been missing from the range of Cecchi’s criticism

Questo paese è pieno di echi. Sembra quasi che siano rinchiusi nei vuoti delle pareti o sotto le pietre. Quando cammini ti pare come se calpestassero le tue orme. Senti scricchiolii. Risate. Risate ormai vecchissime, come stanche di ridere. E voci ormai logore dall’uso. Ecco ciò che senti. Penso che arriverà un giorno in cui tutti questi rumori si spegneranno”.

[…]

Sì” ricominciò Damiana Cisneros. “Questo paese è pieno di echi. Io ormai non mi spavento più. Sento l’abbaiare dei cani e lascio che abbaino. Li lascio fare, perché so che qui non c’è nessun cane. E in certi giorni ventosi si vedono le foglie trascinate dal vento, foglie di alberi, mentre qui, come tu vedi, non ci sono alberi. Ci saranno stati un tempo, perché altrimenti da dove salterebbero fuori queste foglie?

Peggio ancora, è quando senti parlare la gente, come se le voci uscissero da qualche fenditura, ma così chiare che le riconosci”.

 

Juan Rulfo, Pedro Páramo, 1955

 

 

 

 

0. Premessa

Messico[1] di Emilio Cecchi è una danse macabre affollata di spettri. Oltre vent’anni prima del capolavoro di Juan Rulfo che avrebbe inaugurato l’epoca, e forse anche la moda, del realismo magico sudamericano, raccontando di un paese tutto popolato da morti, il libro più riuscito di Cecchi, quello che meglio resiste al passare del tempo,[2] sovrappone al Nuovo Continente, che l’amicizia con Berenson e il ruolo di visiting professor a Berkeley gli hanno permesso di attraversare, una peculiare griglia interpretativa, o meglio un fitto reticolo di campi metaforici. Un filtro in virtù del quale un’estrema varietà geografica e culturale – dalla ricca e assolata California agli aridi e selvaggi stati del West, fino al Messico – viene convogliata e sussunta entro una sola, seppur multiforme, catena di maschere funerarie, di località cimiteriali e di apparizioni soprannaturali. Molto prima di Rulfo, si diceva, ma quasi in perfetta contemporaneità con le riprese dell’incompiuto Que viva Mexico! di Ä–jzenštejn (1931-32), che si apre con immagini di mostri e teschi precolombiani.[3]

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Con questa doppia recensione su The Cleaner, la prima antologica italiana dedicata a Marina Abramovic – ospitata dal 21 settembre 2018 al 20 gennaio 2019 negli spazi di Palazzo Strozzi, a Firenze – vorremmo offrire un contributo che abbracci non solo la mostra in quanto tale, ma offra, altresì, una riflessione teorica e tecnica insieme, tesa a restituire una mappa ad ampio spettro della poetica dell’artista montenegrina e della relazione con i dispositivi visivi e audiovisivi in essa contemplati. In questo senso, il contributo di Chiara Tognolotti mette a tema la relazione tra performance e memoria attraverso uno snodo centrale della teoria del cinema, ovvero il pensiero sulla fotogenia. Il contributo di Andreina Di Brino rimette in gioco le stesse tematiche da una postura analitica, sondando, in particolare, il potenziale espressivo dell’azione performativa nel passaggio da «un’arte del corpo» a «un’arte del medium», dal ‘qui e ora’ a un tempo espanso.

 

Due volti, un uomo e una donna – Ulay e Marina – si affrontano, vicini. Seduti sulle ginocchia, vestiti di abiti di cotone leggero, sono inquadrati in piano medio. Lo spazio intorno a loro è vuoto, neutro. Le bocche si aprono ed emettono un suono lieve che diviene sempre più intenso con il passare dei secondi; la telecamera si avvicina lenta ai volti fino a riprenderli in primo piano. Lo sforzo dell’emissione vocale si disegna sulla pelle dei due: i nervi delle gole si disegnano netti, gli occhi si sgranano, il sudore e le lacrime rigano le epidermidi. Quando la performance si avvia alla fine, dopo quindici minuti, Marina e Ulay urlano uno nella bocca dell’altra e la telecamera è vicinissima, così da riempire lo schermo dei loro volti.

 

 

Il motivo del registrare e riprodurre in video le performance rimane per me uno degli snodi critici più ricchi di suggestioni delle sale di Palazzo Strozzi. Marina Abramović pone a centro radiante dei suoi lavori una fisicità forte e necessaria: «non potevo realizzare un solo lavoro senza la presenza del pubblico, perché questo mi dava l’energia affinché io riuscissi, attraverso un’azione specifica, ad assimilarla e a rimandarla indietro, a creare un vero campo energetico», ha affermato spesso.[1] Eppure la distanza che la ripresa video sembra instaurare non smussa l’effetto di presenza, giacché la camera non agisce da semplice testimonianza bensì stringe una relazione intensa con i corpi e gli spazi della performance non solo perché il tempo della performance coincide con quello della registrazione ma giacché, a me pare, le posture e le movenze dell’artista mediate dallo schermo non appaiono lontane nel tempo e nello spazio ma, al contrario, quello stesso schermo diviene una superficie porosa percorsa da un flusso di emozioni che mescolano chi guarda alle immagini, come disegnando un luogo abitato da entrambi. Così quando ho visto, nella prima sala della mostra fiorentina, il video di AAA−AAA − girato una prima volta a Liegi nel febbraio 1978 per la televisione e filmato di nuovo ad Amsterdam pochi mesi dopo, in giugno – non ho potuto fare a meno di andare con la mente, mentre sentivo il potere intenso di quelle immagini, alle teorie sul cinema degli anni Venti, e in particolare agli scritti di Louis Delluc, Jean Epstein e Béla Balász, innervate dai motivi della visione aptica e della trama di emozioni che intesse la superficie dello schermo, oggetto polimorfo, tessuto/specchio/pellicola che avvolge i corpi degli attori/performer, le loro immagini e il pubblico in un unico spazio percettivo e affettivo.

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Spinto dal desiderio di confrontarsi con la parola di Giovanni Testori, con la sua potente teatralizzazione della grammatica, Roberto Latini ha portato in scena il famoso monologo testoriano In exitu (1988). Il contributo analizza e interpreta lo spettacolo dell’attore-dramaturg romano attraverso una riflessione sul senso ideologico del testo, sul suo messaggio sociale ancora vivo e urgente. L’itinerario di indagine tracciato è perciò declinato in due momenti: il recap essenziale della storia e dei temi della drammaturgia di Testori che consente di contestualizzare, nella seconda parte del testo, la lettura critica delle forme di recitazione e di scrittura scenica adottate da Latini nella sua performance. La tesi che salda i due movimenti dell’analisi rileva un deciso ‘inarcamento’ di sensibilità artistica che avvicina Latini a Testori; una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’ che assegna alla messinscena dell’attore un forte impatto emotivo, e soprattutto la rende paradigmatica del significato profondo dell’opera testoriana, del suo valore espressivo e morale. 

Driven by the desire to confronted with the words of Giovanni Testori, with his strong theatricalization of grammar, Roberto Latini hasstaged the testorian famous monologue In exitu (1988). This paper analyzes and interprets the show of the roman actor-dramaturg through a reflection on the ideologic meaning of the text, on its existing and urgent social message. Therefore the itinerary of research is structured in two moments: the essential recap of history and themes of Testori’s dramaturgy that allows to contextualize, in the second part, the critical reading of the forms of acting and scenic writing adopted by Latini in his performance. The thesis that welds the two movements of the analysis reveals a sharply ‘bending’ of artistic sensibility that brings Latini closer to Testori; a ‘correspondence of loving senses’ that gives to the actor’s performance a strong emotional impact, and makes it paradigmatic of the profound meaning of the testorian work, of its expressive and moral value.  

Lui la vede la sua anima,

un lenzuolo bianco che sbatte in balìa del vento,

fra cielo e Dio.

Markus Hediger

 

 

1. Alla radice del messaggio testoriano

«Essere non o essere» recitava Roberto Latini, con un espressivo capovolgimento del monologo di Amleto nello spettacolo Essere e Non _ le apparizioni degli spettri in Shakespeare (2001). Quasi vent’anni più tardi un imprevedibile fil rouge lega l’interrogativo sospeso fra il niente (l’essere non) e l’essere del giovane Latini all’«angoscia del niente»[1] del giovane Riboldi Gino creato da Giovanni Testori, personaggio che si sottopone ad ogni degradazione possibile, che non ha più nulla da perdere, che raggiunge il limite estremo dell’abiezione, arrivando a sentirsi esso stesso ‘niente’: «Riboldi-niènt, Gino-niènt, Gino-nòsingh, nòsingh-Gino, nòsingh-niènt […]».[2]

L’inclinazione verso un punto di vista esplicitamente esistenziale, affacciato sulla dimensione profonda dell’individuo, in cerca di una «possibile pantografia della condizione umana»,[3] salda l’itinerario di pensiero dell’intellettuale lombardo alla quête artistica dell’attore-regista e dramaturg romano, in una consonanza di sentimenti e ispirazioni che va ben oltre il tracciato biografico. La distanza geografica e storica che separa Testori e Latini si riassorbe e scompare in una ‘corrispondenza d’amorosi sensi’, incarnata nell’interpretazione dell’attore di uno dei personaggi più forti, dirompenti e difficili della mitopoiesi testoriana: Riboldi Gino, protagonista del monologo In exitu.

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Il Purgatorio del Teatro delle Albe (co-produzione Ravenna Festival/Teatro Alighieri e Fondazione Matera-Basilicata 2019) è il secondo ‘pannello’ che compone il ‘polittico’ del Cantiere Dante. Il mastodontico progetto, nato nel 2017 con l’Inferno e che si concluderà nel 2021 con l’intero trittico dantesco, è realizzato grazie alla ‘Chiamata Pubblica’ che ha permesso di coinvolgere, accanto ai componenti della compagnia, più di mille cittadini sia tra gli organizzatori che sulla scena. Questo Purgatorio, in particolare, realizzato come una ‘liturgia della poesia’, sembra configurarsi come la cantica del teatro e dell’arte stessa, nel suo essere ‘cantica del ricominciare’, della creazione dopo lo sprofondamento e il buio. Una risalita che, tra Matera e Ravenna, assume prospettive differenti: fisiche e reali nella prima tappa, dello sguardo e della percezione nella seconda. In entrambi i casi, comunque, una risalita per reinventare l’arte, la vita e la loro inscindibilità.

Teatro delle Albe’s Purgatorio (a co-production of Ravenna Festival/Teatro Alighieri and Fondazione Matera-Basilicata 2019) is the second ‘panel’ of the ‘polyptych’ of the Cantiere Dante. The enormous project, born in 2017 with Inferno and that will be concluded in 2021 with the entire Dante’s triptych, is realized thanks to the ‘Chiamata Pubblica’ which involved, in addition to the members of the company, more than a thousand citizens, both in the organization and on stage. In particular, this Purgatorio, realized as a ‘liturgy of poetry’, seems to represent the cantica of theatre and art itself, in its being the ‘cantica of starting over’, of the creation after sinking and dark. An ascent which assumes, between Matera and Ravenna, different perspectives: physical and real in the first case, ascent of gaze and perception in the second one. In both cases, however, an ascent to reinvent art, life and their inseparability.

1. La fossa, la creazione alchemica e la liturgia della poesia

Si potrebbe partire dalla Ermanna bambina di Miniature campianesi che deve misurarsi con la propria fatica nella creazione collettiva dei cori della scuola e che preferisce, ogni giorno, scavare «un buco nel giardino per ascoltare le voci dal fondo della terra».[1] Si può partire da lì per osservare come quel buco, in tanti anni, sembra non essersi mai chiuso. Come, anzi, tutti questi decenni di lavoro artistico siano stati quasi lo sfiancante sforzo di tenerla spalancata, quella fossa. Tanto che la Ermanna Montanari del 2019 afferma: «Cerco sempre il buco, chiamiamolo così, la fossa invisibile. Poi arrivano gli umani, i corpi e il loro mistero».[2] Fossa come soglia, insomma, come l’unica via d’accesso a un luogo, il più recondito possibile, nel quale poter scagliare il reale per oscurarlo, per acceccarlo. Non per farlo fuori definitivamente, ma per vedere cosa da esso quel buio sappia generare e tornare poi ad affrontare il mondo attraverso quella generazione per oscuramento, attraverso l’arte, il teatro.

Un percorso dantesco, insomma. Scagliare il mondo, la realtà, al centro della terra, come fu per Lucifero, perché quello schianto possa far sorgere, per smottamenti e frane, il monte, l’ascesa di un salvifico percorso da battere, con tutta l’enorme fatica che questo comporta, per giungere alla creazione. «L’arte, alla sua maniera», chiosa Marco Martinelli nel suo ultimo libro, dedicato proprio a Dante, «nasce dalla terra e indica il cielo»[3] e, per questo motivo, è proprio in Purgatorio che vengono collocati, nella quasi totalità, gli artisti presenti nella Commedia.

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Carullo-Minasi, that has received the ANCT Prize in 2017, with a motivation that defined it as «the last, little revolution of italian theatrical scenes», represents today one of the most original realities in italian artistic creation. This interview is the result of the encounter with the messinese company on the occasion of the debut of Marionette, che passione!, their show hosted in the summer season of Catania’s Teatro Stabile. It tries to investigate and to outline the main points of their research and authorial gaze.

 

 

D: Partirei proprio dal ‘qui e ora’. Ci stiamo incontrando all’interno della stagione estiva del Teatro Stabile di Catania che vede il debutto del vostro ultimo spettacolo Marionette, che passione! da Rosso di San Secondo. Voi che vivete e lavorate a Messina, che sguardo avete sulla vostra città? E, sempre da un punto di vista culturale, come appare ai vostri occhi Catania e il legame tra queste due sorelle – se sono davvero da considerarsi sorelle – nella costa orientale della Sicilia?

 

R: Anzitutto siamo molto contenti di questa domanda, perché rappresenta per noi il focus su cui le istituzioni dovrebbero cominciare a ragionare in maniera intelligente, facendo quella che sempre viene chiamata ‘rete’ ma che sembra così difficile in un contesto come quello siciliano. Riteniamo questa, veramente ‘qui e ora’, un’occasione che probabilmente dovrebbe caratterizzare le esperienze dei cosiddetti ‘giovani’ che non sono più giovani, che hanno un percorso alle spalle di dieci anni e che comunque vogliono potere sperimentare quello che qui è accaduto, cioè avere una macchina istituzionale messa a loro disposizione con fiducia e meraviglioso rischio. Perché la felicità, ma al contempo anche l’arte, è rischio e rischio equivale anche a responsabilità: noi, con tutta la squadra, ci sentiamo estremamente responsabili e di questa responsabilità ne facciamo un valore. Vogliamo, però, che questo rischio – che è stato assunto da Catania nella figura straordinaria di Laura Sicignano – sia un punto d’esempio per tutta la Sicilia. Perché noi ci sentiamo onorati di potere intraprendere una cosa che ti mette d’innanzi a tutta una serie di elementi con cui in genere non siamo soliti operare: abbiamo sempre giocato e lavorato con una povertà del teatro e qui continuiamo a ragionare sulla povertà del teatro – e sulla magnificenza di quella povertà –, sapendo però di potere contare su una struttura che evidenzia che cos’è il teatro. Il teatro è povero, deve rimanere povero, ma si deve avvalere della forza degli esseri umani, perché amplifica la loro potenza per poi raccontare la nullità del genere umano. Messina è in un momento di grande disvalore culturale, che rischia un impoverimento delle generazioni a venire. Se non si vede teatro, se non si cerca di creare, appunto, delle connessioni, le generazioni non si incontrano e non possono poi arrivare a dire quello che si costruisce nel tempo, piano piano, con l’esperienza. E si può cominciare a dire che questa è un’occasione di grande esperienza che fuoriesce dai canoni che eravamo abituati a sperimentare.

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La caratteristica peculiare del processo compositivo di Giovanni Testori è lo scambio fecondo fra parole e immagini. L’esperienza di scrittore-pittore dell’intellettuale lombardo lo colloca nella categoria del ‘doppio talento’ (Doppelbegabung), elaborata nel contesto degli studi di cultura visuale. Proprio attraverso il recupero di alcuni concetti fondativi della Visual Culture, il saggio mette a fuoco la strategia intermediale di Testori, la sua capacità di superare i confini tra i linguaggi, attraverso la pratica dell’ékphrasis, e la traslazione semiotica di codici visivi nella scrittura letteraria. La novità critica introdotta dallo studio riguarda l’ipotesi e la dimostrazione, tramite specifici case studies di ambito poetico e pittorico, della triplice declinazione del ‘doppio talento’ di Testori: in quanto scrittore-pittore; in quanto autore che ha utilizzato la tecnica dell’ékphrasis in modo interpretativo, emozionale, rivelatorio; e in quanto artista verbo-visivo, le cui ‘reciproche illuminazioni’ tra arti in parola e arti in figura sono il risultato di una precisa concrescenza genetica, su cui si costituisce, di fatto, l’intero imaginary testoriano. 

The peculiar characteristic of Giovanni Testori’s compositional process is the fruitful exchange between words and images. The experience as writer-painter of Testori, places him in the category of ‘double talent’ (Doppelbegabung), developed in the context of the visual studies. Through the application of some foundational concepts of Visual Culture, the essay focuses the Testori’s intermedial strategy, his ability to cross boundaries between languages, through the practice of ékphrasis, and the semiotic translation of visual codes in literary writing. The critical novelty introduced by the essay concerns the hypothesis and the demonstration, through specifics poetic and pictorial case studies, of the triple declination of Testori’s ‘double talent’: as a writer-painter; as an author who has used the ékphrasis in an interpretative, emotional and revelatory way; and inasmuch visual-verbal artist, whose ‘reciprocal illuminations’ between arts of word and arts of figure are the result of a precise genetic concurrence, on which is founded, in fact, the whole Testori’s imaginary.

 

Cos’è, nel fondo,

l’arte

e che, parola,

viva materia,

subito colore

Giovanni Testori

 

 

1. Testori oltre i confini

La descrizione del protagonista del romanzo-poema La cattedrale (1974), scoperto alter ego dell’autore indicato nel testo semplicemente come Ê»lo Scrittoreʼ, racchiude in poche, folgoranti battute l’essenza della «doppia vocazione»[2] di Giovanni Testori.

Come lo scrittore del suo romanzo, anche il grande intellettuale di Novate fu infatti una ʻcreatura bicefalaʼ che, con la spregiudicatezza che gli era usuale, fin dalla giovinezza degli esordi percorse senza sosta zone liminali, oltrepassando i confini porosi e permeabili tra arti sorelle, ma non per questo privi di precise linee di demarcazione.

La parabola artistica di Testori si snoda nell’arco di mezzo secolo: cinquant’anni di ininterrotta attività condotta nel segno di un indissolubile intreccio degli ambiti creativi, di una vigorosa necessità di Ê»sfondamentoʼ delle barriere semiotiche, stilistiche, espressive, che convenzionalmente separano forme artistiche differenti. Il dato più evidente riguardante l’autore lombardo è senza dubbio il suo ingegno poliedrico, la sua capacità di rivolgere il proprio ardore creativo sia verso il Ê»fuocoʼ della scrittura (esplorata dal racconto al romanzo, dalla poesia alla drammaturgia, dal giornalismo alla critica d’arte) sia verso quello della pittura (scoperta da giovanissimo, intorno ai quindici anni, e praticata per tutta la vita attraverso cicli sempre nuovi: di fiori, di tramonti, di pugilatori, di crocifissioni, etc.).[3]

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Lo spettacolo Kanata-Episode 1. La controverse ha debuttatoil 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil; in questa occasione, per la prima volta, Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage. Con KanataMnouchkine e Lepage intendono mostrare la condizione attuale degli Indiani del Canada: una comunità sterminata in cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve, costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese. A partire da una ricognizione storica del fenomeno, il saggio affronta la controversiainternazionale sorta attorno alla scelta dei registi di non portare in scena degli indiani autoctoni, affidando invece a degli attori la rappresentazione delle loro vicende. Tale decisione, infatti, è stata vista dalla comunità delle Prime Nazioni come una forma di ‘appropriazione culturale’; concetto che viene esplorato attraverso la ‘crisi della presenza’ trattata da Ernesto de Martino ne Il mondo magico, e la ‘realtà proxy’, la politica del sostituto, smascherata dall’artista giapponese Hito Steyerl.

The show Kanata - Episode 1. La controversedebuted on December 15 2018 at the Cartoucherie, the historic headquarters of the company Théâtre du Soleil;on this occasion, for the first time, Ariane Mnouchkine gave up directing to leave the leadership of her company to the award-winning french-canadian director Robert Lepage. With KanataMnouchkine and Lepage want to show the current condition of the Indians of Canada: a community exterminated in five hundred years of colonial history, today marginalized in the reserves, forced to depend on state subsidies and a coercive assimilation in Canadian society.Starting from a historical recognition of the phenomenon, the essay deals with the international controvers that arose from the choice of the directors not to bring indigenous Indians to the stage, instead entrusting the representation of their stories to the actors. In fact, this decision was seen by the First Nations community as a form of ‘cultural appropriation’; concept that is explored through the ‘crisis of presence’ treated by Ernesto de Martino in Il mondo magico, and the idea of ‘proxy reality’, of a substitute politician, which has been exposed by the japanese artist Hito Steyerl.

 

1. La controversia teatrale

Al Festival d’Automne di Parigi 2018 Kanata- Episode 1. La controverse è stato sicuramente lo spettacolo più ambito del ricco programma, ma anche il più controverso, tanto che questa parola è diventata parte integrante del titolo per volontà degli autori.

Kanata, che significa ‘villaggio’ nella lingua degli Indiani del Canada (dalla metà degli anni Ottanta chiamati ‘Prime Nazioni’) è andato in scena in una versione ridotta e ancora in forma di ‘prova generale’,[1] il 15 dicembre 2018 alla Cartoucherie, sede storica della compagnia del Théâtre du Soleil. Per la prima volta Ariane Mnouchkine ha rinunciato alla regia per lasciare la guida della sua compagnia al pluripremiato regista franco-canadese Robert Lepage.[2]

Considerata da un lato la composizione multiculturale del Théâtre du Soleil diretto da Ariane Mnouchkine,[3] il suo impegno verso le problematiche sociali degli immigrati e dei sans-papiers, e dall’altro l’attenzione di Robert Lepage verso le minoranze asiatiche in Nordamerica sin dall’epoca de La Trilogia dei dragoni (1989), non stupisce affatto lo sguardo teatrale rivolto dai registi alla ‘visible minority’ delle Prime Nazioni (634 registrate in tutto il Canada, pari al 4% della popolazione, localizzate soprattutto nella zona dell’English Columbia e dell’Ontario). Una comunità sterminata nei cinquecento anni di storia coloniale, oggi emarginata nelle riserve[4] o costretta a dipendere da sussidi di Stato e da una coercitiva assimilazione nella società canadese, attraverso il famigerato sistema delle ‘scuole residenziali’ del XIX secolo che separava i bambini dalle famiglie affidandoli a chiese cristiane. Ai nativi che frequentavano le scuole dei coloni era proibito parlare la loro lingua o mantenere la tradizione della tribù di appartenenza; qui molti giovani avrebbero subito violenze fisiche e sessuali (di questo parla un documentario-verità a firma di Louise Lawless). Solo nel 2008 il governo canadese si è ufficialmente scusato con le vittime di questi abusi e con le loro famiglie.[5]

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