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  • «Noi leggiavamo…». Fortuna iconografica e rimediazioni visuali dell’episodio di Paolo e Francesca fra XIX e XXI secolo →

 

 

 

Amore; al tuo dolore; uguale tu!

E. Sanguineti, Laborintus

 

1. Dante e il teatro: un recap

A nessun lettore della Divina Commedia può sfuggire che, nella sua strabiliante costruzione dell’aldilà, l’immaginazione del genio poetico di Dante Alighieri possieda una tensione visuale particolarmente spiccata. La «forza visualizzante» (Giudici 1996, p. 48) del poema dantesco agisce da sempre sull’immaginario artistico, alimentando una profusione di trasposizioni visive della Commedia ormai di lunghissimo corso.

Se l’impostazione visivo-descrittiva dell’opera è storicamente acclarata, e già a partire dal XIV secolo ha spinto gli artisti figurativi a produrre una «foresta di immagini» (Barricelli 1993) di ispirazione dantesca, solo nell’Ottocento è emersa la sua specifica vocazione drammatica, o più esattamente drammatico-teatrale, e pertanto si è iniziato a realizzarne riduzioni drammaturgiche, letture teatralizzate, traduzioni sceniche. Dal fenomeno delle cosiddette ‘dantate’ esploso in epoca risorgimentale, cioè di veri e propri esercizi di stile compiuti sul poema da guitti e mattatori romantici, la multiforme fortuna scenica della Commedia non ha conosciuto battute d’arresto, determinando uno slittamento spettacolare della fruizione dell’opera, e generando – per via performativa – una sua peculiare ecdotica. Scrive Marzia Pieri: «dall’Ottocento a oggi la Commedia avvince gli spettatori dei teatri, delle arene e della televisione in un paese altrimenti tiepido e distratto verso la poesia e i poeti. […] Un tipo di popolarità che Dante condivide soltanto con Shakespeare» (Pieri 2014, p. 68).

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Non c’è salvezza se non nell’imitazione del silenzio.

Ma la nostra loquacità è prenatale.

Razza di parolai, di spermatozoi verbosi,

noi siamo chimicamente legati alla parola.

 

Cioran

 

La traduzione iconografica della Divina Commedia procede da sempre a fianco al suo secolare commento verbale: una tradizione, quella visuale, che ha consentito di risemantizzare nel tempo le qualità ecfrastiche delle terzine dantesche, consegnandole al denso universo delle immagini moderne, impegnate a tramandare il poema trecentesco fino ai giorni nostri. Le nuove visioni e ricostruzioni iconiche sono diventate uno stimolo e un pretesto.

Anche la spregiudicata libertà immaginifica professata dalle arti del Novecento non si è sottratta al fascino del poema dantesco e ha ritrovato, nei luoghi dell’ultraterreno, nei racconti delle anime sventurate e meritevoli, la metafora perfetta del viaggio dell’uomo, dando nuovo corpo e nuova voce al sentimento di finitezza e smarrimento che disorienta l’uomo moderno.

Gli artisti contemporanei, infatti, per riportare all’attenzione del nostro sguardo un riverbero della poesia dantesca non hanno solo ricercato le forme più audaci e le cromie più consone al loro sentire. Il magnetismo visuale, per niente sbiadito della Commedia, ha concesso loro di vestire i panni del viaggiatore/sognatore in cammino, alla ricerca di un sé frammentato da quella ormai nota modernità baudelairiana, transitoria, fuggitiva e contingente.

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1. Lettrici pericolose

Che cosa c’è di più pericoloso di una donna che legge? Per rispondere a questo interrogativo è sufficiente osservare delle rappresentazioni di una lettrice in arte e in letteratura: perlopiù danno luogo a temibili crisi mimetiche; il libro si trasforma nella porta d’accesso per mondi ‘altri’, nei quali le donne si lasciano risucchiare confondendo realtà e finzione, bene e male.

Il noto episodio dantesco dei due cognati di Rimini rientra a pieno titolo in una galleria visiva e letteraria di lettrici affette da pericolose patologie legate ai libri. Francesca, infatti, occupa il centro della scena come protagonista quasi assoluta di tutto il canto; anche nella scena della lettura, nella quale a Paolo viene momentaneamente trasferita la agency – saldamente detenuta per il resto dalla cognata – nel momento del fatidico bacio, il fulcro della narrazione resta inequivocabilmente la lettrice, fino al «punto che li vinse» (v. 132).

Tuttavia, sebbene la centralità della lettura e dei suoi effetti sia innegabile, i commentatori del canto V dell’Inferno, sin dai tempi di Boccaccio, spesso si sono lasciati distrarre da elementi accessori rispetto alla straordinaria essenzialità e forza narrativa con cui Dante mette in scena l’incontro con i due «peccator carnali» (v. 38). La vicenda di amore e morte ha suscitato infatti reazioni molto accese sia in coloro che, sull’onda dell’Esposizione sopra la Comedia di Boccaccio, hanno voluto assolvere Francesca da ogni colpa, sia in chi ha acerbamente castigato la fedifraga signora di Rimini (su questi due schieramenti opposti si veda almeno la ricostruzione di Renzi 2007, pp. 105-240).

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Provare a indagare la figura poliedrica del letterato artista Ardengo Soffici non è un’operazione priva di rischi. Ciò nonostante, nel volume edito da Le Lettere, il giovane studioso Ruben Donno li affronta senza timore, destreggiandosi all’interno di una letteratura critica vasta e interdisciplinare. L’intento dell’autore è quello di avanzare, attraverso una dettagliata ricostruzione cronologica della vita dell’artista, una lettura contigua della sua opera letteraria e figurativa. Sin dal primo capitolo difatti, essa viene esplorata in maniera duplice: da un lato, analizzando l’attenta scelta lessicale che lascia trasparire il genuino soggettivismo proprio della sperimentazione letteraria di Soffici, dall’altro, ponendola in dialogo con l’operazione eminentemente ecfrastica della critica longhiana. Il denominatore comune di questa particolare forma di scrittura è rappresentato per Donno dalla messa in luce di una volontà sottesa nel «dare forma plastica alle parole e far sì che esse, fuoriuscendo dalla pagina per effetto pop-up, possano modellarsi concretamente sulla scorta del dato figurativo» (p. 25). L’uso fluido di una terminologia specifica, priva dei tecnicismi propri della disciplina storico-artistica, coadiuvato dal forte gusto narrativo e metaforico – non esente da localismi e toni colloquiali – evidenzia così quel «parlar figurato» (G. De Robertis, ‘Ardengo Soffici’, in A. Soffici, Fior Fiore. Pagine scelte e ordinate da Giuseppe De Robertis, Firenze, Vallecchi, 1937, p. 15) che caratterizza la scrittura dell’autore del Poggio, oggetto di curiosità e interesse di un pubblico eterogeneo.

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Il volume di Marcello Ciccuto (Torino, Aragno, 2018) è una monografia sul fitto intreccio dell’opera poetica e prosastica di Montale con il mondo delle arti. La contaminazione di codici, così tipica della difficoltà (a volte dell’ambiguità) della scrittura montaliana, è al centro della dissertazione dell’autore che insegue la miriade di letture ed esperienze culturali del poeta alla base dell’elaborazione di un personalissimo modello critico applicabile, senza soluzione di continuità, a tutte le espressioni artistiche. Questo vasto approccio ermeneutico, che vede il poeta accostare in maniera significante l’impressionismo storico al verismo musicale, l’opera di Gatto a quella del primo de Chirico, la poesia di Pea alle sculture classiche, viene indagato mettendo in luce consapevolmente ciascun riferimento. L’intera analisi di Ciccuto dimostra come «i cenni di cultura figurativa in Montale siano invariabilmente pluri-direzionali e assommino più esperienze visive e mentali» (p. 281) ricostruendo così una vera e propria teoria estetica montaliana.

La sequenza dei dieci capitoli dell’indice suggerisce un percorso attraverso la coscienza artistica di Montale: nei primi capitoli (Una specchiata indifferenza; Impressionismo, arabeschi, astrazioni; Polifonie cromatiche) l’autore descrive l’allontanamento del poeta dalla «gioia luminosa» impressionista per dimostrare l’adesione ad una «metafisica arida e decolorata» realizzata in «linee profonde, scultoree, monocromatiche» (p. 37, poi in Effetto scultura e Realismo Metafisico). L’aridità, riconosciuta in Sbarbaro, Svevo, Emanueli, Gide, De Falla, è strettamente connessa alla riduzione di tono, espressione di una poetica schiva dalla «seduzione mimetica» e lontana dalle fredde soluzioni delle fotografie realistiche (tema del capitolo Contro il fotografico) per andare, ricalcando i titoli di altri capitoli, Verso una nuova visione classica seguendo il Magistero di Paul Cézanne

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Abstract: ITA | ENG

Une minute pour une image è un esperimento visivo che conferma il carattere ibrido della cinescrittura di Agnès Varda e ribadisce l'importanza della fotografia nella sua formazione d'artista. Raccogliendo 14 immagini, di stili e poetiche differenti, Varda compone un personalissimo 'atlante delle emozioni' capace di suggerire lemmi e figure dai quali sarebbero scaturiti nel tempo specifici modi di racconto. Il saggio, attraverso l'adozione di uno specifico modello cartografico, intende analizzare le principali matrici di senso di questo progetto telecinematografico.

Une minute pour une image is visual experiment that confirms the hybrid nature of Agnès Varda's ciné-écriture and the importance of photography in her artistic training. Collecting 14 images, of different styles and poetics, Varda composes a very perosnal 'atlas of emotions' capable of suggesting words and figures from which specific way of narration will emerge over time. The essay, through a specific cartographic model, intends to analyze the main matrices of this tele-cinematographic project.

 

Ho pensato che per restare fedele allo “spirito” della messa in scena, bisognava tradirne la forma.

Agnès Varda

 

La carriera ‘monumentale’ di Agnès Varda sfugge alla freddezza del referto e continua a rilanciare, oltre la linea della sua esistenza, la necessità di interrogare i principi e le forme della relazione fra materia e medium, fra oggetti dello sguardo e soggetti della visione. Le opere di questa formidabile «essayiste en cinéma»[1] rivelano, grazie alla loro ontologica tensione intermediale, la dialettica tra milieu e moment delle immagini e rinnovano il contatto tra linguaggi e pratiche del vedere. Fotografia e pittura, nel contesto della sua produzione audiovisiva, non sono solo modelli di racconto ma diventano tracce viventi, ancorché fantasmatiche, di processi di archiviazione e rimediazione del reale e – soprattutto – schegge di immaginari possibili. La sua cinescrittura lavora nel solco di tre direttrici – ispirazione, creazione, condivisione –[2] e intorno a esse codifica una nuova sintassi fondata su un «istinto filmico»[3] e organizzata poi secondo una struttura consapevolmente libera ma sempre rigorosa.

Nel rapportarsi alle cose del mondo attraverso il dispositivo della camera Varda sceglie di scartare l’ovvio, di superare le convenzioni per costruire uno ‘stile’ che, pur non rinunciando alle insegne della finzione (al punto da inventare l’etichetta di ‘documenteur’),[4] miri a restituire i paradossi della verità (delle persone, dei paesaggi, della storia). Al centro del suo orizzonte narrativo si colloca «l’insieme di un nuovo rapporto suono-immagine, che permette lo smascheramento di immagini e suoni che sono sempre stati soffocati o rimasti allo stato latente…»:[5] è in questo azzardo che risiede la forza di una drammaturgia che scava oltre la superficie, intreccia diversi strati di memorie, spezza le linee del tempo e rinnova i codici della rappresentazione. Sebbene Varda dichiari di giungere alla sceneggiatura al termine di un lungo percorso di esplorazione di spazi e caratteri, e di affidarsi al montaggio come momento supremo di ricucitura della trama del film, è indubbio che i suoi testi offrano convincenti prove di una intrinseca qualità di scrittura, frutto di un sapiente equilibrio fra i diversi elementi dell’audiovisione.

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  • [Smarginature] Sperimentali. Cinema videoarte e nuovi media →

 

Nel settembre del 1972 Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli, partecipa alla sesta edizione della Rassegna Internazionale d’Arte Contemporanea Acireale Turistico Termale nella mostra Circuito chiuso-aperto / Video Tape Recording [figg. 1-2], coordinata da Italo Mussa con l’aiuto di Francesco Carlo Crispolti, direttore artistico della sezione. Nell’ambito della rassegna Binga realizza la video performance Vista Zero, trasmessa e registrata la sera del 24, mediante l’uso della tecnologia Video Tape Recording. Benché si tratti di un’esperienza isolata nel percorso dell’artista, Vista Zero segna un passaggio cruciale nel suo lavoro: ideata in relazione alla struttura sperimentale della rassegna, l’opera fa da ponte tra le prime sculture in polistirolo esposte nel dicembre del 1971 nella mostra personale L’oggetto reattivo allo Studio di arti visive ‘Oggetto’ di Caserta, diretto da Enzo Cannaviello, e le successive performance Nomenclatura e l’Ordine alfabetico realizzate nel novembre del 1972 presso lo Studio Pierelli di Roma. L’intreccio tra pratica performativa e uso creativo del sistema di ripresa e registrazione a circuito chiuso è dunque al cuore dell’opera di Binga. Chiamata a confrontarsi con le nuove possibilità estetiche offerte dal video, grazie all’invito di Mussa Binga è tra le primissime artiste in Italia a servirsi di questo medium. Vista Zero è infatti uno dei rari esempi di opere video realizzate da un’artista nei primi anni di diffusione del mezzo nel nostro Paese, insieme all’azione registrata Antibiotico / Registrazione con oggetto di cera e sintesi elettrica (1970) di Marisa Merz (unica presenza femminile alla rassegna bolognese Gennaio 70. III Biennale internazionale della giovane pittura. Comportamenti Progetti Mediazioni), al videotape Appendice per una supplica di Ketty La Rocca, esposto per la prima volta nel giugno del 1972 alla XXXVI Biennale d’arte di Venezia, e a Curvo Ricurvo (1972) di Maria Teresa Corvino, presentato alla rassegna di Acireale. Malgrado ciò l’opera di Binga è stata trascurata dagli studi storico-artistici dedicati agli esordi della videoarte in Italia, dove la prospettiva di genere fatica a farsi strada. A partire dagli anni Novanta la critica ha svolto una puntuale indagine sulle fonti, le opere, il lessico, le tecniche, i centri di produzione e circolazione del video, senza però interrogarsi sulla quasi totale assenza di artiste nelle prime rassegne video: dalla già menzionata Gennaio 70, alla sezione Telemuseo coordinata nel maggio del 1970 da Tommaso Trini nella manifestazione Eurodomus 3, sino alla prima videoserata promossa dalla VideObelisco AVR (Art Video Recording), curata da Francesco Carlo Crispolti il 14 maggio del 1971, dove non figurano artiste. L’analisi di Vista Zero consente quindi non soltanto di approfondire un capitolo significativo e poco conosciuto del lavoro di Binga, che segna l’inizio della sua attività performativa, ma anche di allargare il quadro della storia delle origini della videoarte in Italia, dove la sua esperienza è sin qui rimasta in ombra.

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Il volume La scrittura dello sguardo. Gianni Celati e le arti visive (Presses Universitaires de Strasbourg, 2020), curato da Matteo Martelli e Marina Spunta, raccoglie gli atti dell’omonimo convegno internazionale, tenutosi a Strasburgo nel dicembre 2018 e organizzato in collaborazione con Nunzia Palmieri. Obiettivo dei quindici contributi raccolti è ricostruire un dato non ancora sufficientemente indagato nell’opera celatiana, la centralità dello sguardo e delle arti visive. Autore tra i più letterari della nostra tradizione, Celati è stato tra i primi (insieme a Calvino) a interrogarsi sui confini e i limiti della parola, arrivando a sostenere – in ‘Il racconto di superficie’, apparso sul Verri nel 1973 – che per avvicinarsi alla fabulazione, ovvero «l’illimitato divenire e tutte le metamorfosi a cui soggiaciamo», la scrittura avrebbe dovuto «uscire da se stessa, se riesce a farcela. Il problema dello scrivere oggi è tutto qui». Queste parole rivelano in controluce come la poetica celatiana, stante la messa in discussione della staticità del testo, sia costruita su basi non soltanto letterarie. I suoi temi – il rapporto tra corpo e spazio, il ruolo del paesaggio, la riflessione sul senso del quotidiano – derivano tutti da un dialogo con le arti della visione, che divengono «materia di riflessione e di formazione del pensiero, un oggetto di ricerca critica e artistica, un incontro e uno scambio per pratiche interdisciplinari e scritture ibride» (p. 12). Di questo «pensiero figurale» (p. 10), Gestaltung d’una spinta conoscitiva presente sia negli scritti teorici sia nella pratica creativa, La scrittura dello sguardo individua forme e funzioni attraverso tre sezioni che hanno il merito di favorire i rimandi interni, mantenendo al contempo una coerente focalizzazione sul cimento con diversi media: pittura, fotografia, cinema.

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  • Arabeschi n. 15→
  • Barbablù. Il mito al crocevia delle arti e delle letterature →

 

Il rapporto che la cultura letteraria e artistica occidentale intrattiene con Barbablù sta sotto il segno dell’ambivalenza: da una parte ne è attratta, dall’altra corre spesso ai ripari di questa attrazione, quasi a ricalcare nel complesso la dinamica narrativa su cui si innesta la vicenda dell’uxoricida fiabesco e della sua ultima moglie. Dimensione intrinseca alla storia, l’ambivalenza ne accompagna, d’altronde, la fortuna fin dal momento in cui Charles Perrault la codifica narrativamente e, con la pubblicazione delle Histoires du temps passé, avec des moralitez (1697), dà avvio al processo della sua sedimentazione nella memoria culturale europea.

Anche grazie al lavoro di artisti che illustrano numerose riedizioni del testo in Francia e in altri paesi, i personaggi e i momenti salienti del racconto si imprimono progressivamente nell’immaginario collettivo occidentale, che non smette di rielaborarli, conferendo loro, col passare del tempo, un’aura vieppiù esotica o estetizzante, significativamente assente nel testo e nelle sue primissime illustrazioni.

Vero è, comunque, che tra avvicinamento e distanziamento si muove già Perrault, in un gioco sottilmente ironico che non permette a nessuno dei due poli di prevalere. Conviene seguire a somme linee la sua operazione.

Innanzitutto, in sintesi, il racconto: un uomo estremamente ricco chiede a una gentildonna sua vicina di dargli in moglie una delle sue due figlie, ma entrambe le ragazze sono riluttanti a causa della barba blu del pretendente (motivo per cui tutte le donne lo trovano spaventoso e rifuggono alla sua vista) e per il fatto che nessuno sa che fine abbiano fatto le sue mogli precedenti; invitate dall’uomo a passare alcuni giorni nella sua casa di campagna, passano insieme a lui, alla madre, a quattro amiche e ad alcuni giovani, otto giorni di piaceri, tanto che, alla fine, la figlia minore si convince che la sua barba non sia così blu e che egli sia un gentiluomo; accetta quindi di sposarlo e va a vivere nella sua dimora cittadina; dopo un mese, il marito le comunica di doversi assentare per un certo periodo e le consegna la chiave di tutti i suoi appartamenti, come anche delle stanze, dei forzieri e delle casse contenenti oro, argento e pietre preziose, affinché ne possa godere invitando anche amiche; con fare estremamente minaccioso, le vieta però di entrare in un unico stanzino collocato al pianterreno, di cui le consegna comunque la chiave; la donna non fa passare tempo in mezzo e alla partenza dell’uomo, mentre le amiche godono alla vista di tutte le ricchezze nelle altre stanze ai piani superiori, lei si precipita giù per le scale e, tremante all’idea delle possibili conseguenze della sua disobbedienza, apre la porta dello stanzino; appesi alle pereti e riflessi nel sangue scopre i corpi sgozzati delle precedenti mogli; in preda al terrore, fa cadere la chiave nel sangue e i tentativi successivi di ripulirla sono inutili: il sangue ricompare costantemente; al suo rientro, il marito le chiede di riconsegnargli tutte le chiavi e, vedendo la macchia su quella dello stanzino, comprende che la moglie ha infranto il divieto decretando così la propria morte; si accinge quindi ad ammazzarla, ma le concede sette minuti di tempo per la preghiera con cui la donna chiede di poter prendere commiato dalla vita; in realtà, sfrutta quei minuti per implorare la sorella Anne di salire sulla torre per vedere se i fratelli (mai citati prima) stiano arrivando per fare loro la visita promessa e per pregarli di affrettarsi; i fratelli (un dragone e un moschettiere), in effetti, arrivano, e, trafiggendolo con la spada, uccidono Barbablù che, con il coltello in mano, sta ormai per tagliare la gola alla moglie; ereditate tutte le ricchezze del marito, la donna le usa per maritare la sorella e per acquistare ai fratelli il grado di capitano; infine, si risposa con un gentiluomo che le farà dimenticare i brutti momenti passati con il primo marito.

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