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Il saggio si propone di investigare la funzione della scrittura nella produzione verbo-visiva di Tomaso Binga. Avvalendosi di una serie di esempi – tratti da performance, poesie lineari e altri progetti creativi –, l’articolo tenterà di chiarire e di giustificare la definizione di «scrittura vivente». La ricerca inizia con l’analisi del dibattito teorico relativo alla comunicazione e all’impatto dei nuovi Media che nacque nell’alveo del Gruppo 70. Successivamente, cercherò di dimostrare come il corpo rappresenti l’autentico scarto differenziale tra le posizioni ufficiali della poesia visiva e concreta e le sperimentazioni artistiche (e quasi ‘biologiche’) di Binga.

The purpose of this essay is to investigate the function of the scripture in Tomaso Binga’s verbo-visual art. Using several case studies – which include performance, linear poems or other creative projects –, the article aims to clarify what is meant by the notion of «scrittura vivente». The research starts with the analysis of the theoretical debate concerning communication and Mass Media that took place in the cultural environment of Gruppo 70. Then, I shall attempt to explain that the body itself represents the authentic gap between Visual or Concret Poetry and the artistic (and ‘biological’) experimentation of Binga.

 

Tomaso Binga è, letteralmente, un’artista-palinsesto; l’escursione di tecniche inventariabili nell’arco del suo percorso creativo rende la stessa categoria di interdisciplinarità un concetto scivoloso e metodologicamente scomodo. È un assioma ormai sedimentato nella bibliografia critica che, con l’ibridarsi progressivo degli oggetti artistici a partire grossomodo dalla fine degli anni Cinquanta, la poesia appaia sempre più «comme un embrayeur communicationnel, vecteur et invariant des relations multiples entre le geste graphique, l’articulation phonique (déclamation, marmonnement, chantonnement), la perception visuelle et l’ouïe intérieure».[1] Eppure, i lavori di Binga sembrano resistere alla etichetta generalista di multimedia o di mixed media; piuttosto, si potrebbe azzardare la definizione di ‘ipertesto vivente’, una rete connettiva in cui le competenze disciplinari non si sommano per via giustappositiva ma convivono biologicamente in un’unità garantita dal corpo stesso dell’artista – vera e propria cinghia di trasmissione tra le diverse motrici (della scrittura, della figurazione e del gesto). Il propulsore anatomico, insomma, conferisce coerenza ad azioni e installazioni provenienti da settori diversi della sperimentazione artistica, fino a porsi come autentico stile nonché ideologia d’intervento estetico e sociale.[2]

La parabola operativa di Binga coincide, insomma, con la storia di un corpo che si grammaticalizza, evitando di ridursi, tuttavia, ad una semplice conversione dal pensiero poetico all’atto performativo[3] – un ‘salto’ mediologico piuttosto ricorrente nel contesto generazionale degli anni Settanta. La reversibilità tra anatomia e lessico rappresenta una cifra stilistica originaria e denotativa della prassi di Binga, senza che sia possibile individuare una metamorfosi da un primum lineare a un esito finalisticamente performativo.

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Nella ricerca di Tomaso Binga la centralità del corpo, declinata sia nella dimensione performativa sia in quella fotografica, si coniuga sin dagli esordi con una operazione di desemantizzazione della scrittura che rimanda, essa stessa, ad una espressività primaria, incarnata proprio nel linguaggio del corpo. Gli esiti della sua operazione sull’espressività si traducono in una radicale messa in discussione della cultura, che va letta anche in chiave femminista.   

In Tomaso Binga's research the centrality of the body, declined both in the performative and in the photographic dimension, is conjugated from the beginning with an operation of desemantization of writing that refers, itself, to a primary expressiveness, embodied precisely in the language of the body. The results of her operation on expressiveness translate into a radical questioning of culture, which must also be read in a feminist key.

 

 

La centralità del corpo è certamente uno degli elementi cardine nella ricerca di Tomaso Binga, un aspetto attorno al quale si dipana il pensiero che sorregge molta parte della produzione dell’artista e che quindi resta fondante anche nelle espressioni più recenti del suo fare. La testimonianza più evidente della propensione di Binga ad intendere il corpo in guisa di strumento espressivo, è sicuramente il fatto che l’artista sia ricorsa, costantemente nell’arco della sua ormai lunga carriera artistica, alla performance[1] o comunque a operazioni che restano di marca accentuatamente performativa anche quando ricondotte all’interno di diverse dimensioni linguistiche, dal video alla fotografia, a forme composite di espressione visiva, capaci di ‘mantenere’[2] viva tutta la tensione dell’accadimento. Come nel caso di Vista Zero uno dei primi interventi performativi di Binga, proposto ad Acireale il 24 settembre 1972, in occasione della VI Rassegna d’Arte Contemporanea – Circuito Chiuso/Aperto, il cui ‘esito’ fotografico, una sequenza di fotogrammi dell’azione, ha assunto la forza dell’opera in sé autonoma.

La riflessione sul corpo, e il suo uso secondo varie declinazioni come segno espressivo, certamente ha a che fare con il coinvolgimento di Binga con le tematiche che il femminismo della differenza andava proponendo proprio in quei primi anni Settanta, delle quali è interprete sottile e raffinata: senza toni rivendicativi o aggressivi, l’artista si pone in modo comunque chiaro e diretto rispetto alle questioni legate alla condizione femminile, in senso sociale e personale. Iconica, in questo senso, è Bianca Menna e Tomaso Binga oggi spose, installazione e performance tenutesi alla Galleria Campo D. a Roma, il 15 giugno 1977, per le quali è interessante leggere quanto scrive l’anno successivo Alberta De Flora:

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Il tono sarcastico di Bianca Pucciarelli Menna si rivela pregnante e femminista già a partire dagli anni Sessanta quando decide, in maniera critica e creativa, di prendersi gioco del sistema dell’arte e sceglie di ribattezzarsi al maschile usando il nome di Tomaso Binga. L’artista salernitana, classe 1931, confessa che nella scelta del nome ha rubato una emme a Tommaso Marinetti, un gesto radicale di radice futurista che denuncia anni di discriminazione sessuale e di privilegi accordati al genere maschile.

Dentro questa ambiguità di genere, giocosa ma seria, l’ironia di Binga mostra fin dai suoi esordi un doppio registro linguistico, un lessico che chiama in causa la parola scritta che diventa immagine, e l’immagine che ha la forza dialogica della parola. A ricordare questo tratto distintivo sono già i suoi primi lavori sulla scrittura verbo-visiva e sulla poesia visiva, in forma anche di performance; pratiche dell’arte come scrittura, che frequenta a partire dagli anni Settanta e che accompagneranno tutto il suo percorso artistico.

Dentro le norme che decodificano scrittura e immagine l’artista ha sempre incluso la sua stessa corporalità, una dimensione presente come ‘lingua-corpo’, che le ha consentito di riscrivere la sua vita attraverso uno sguardo femminile protagonista e critico.

Uno dei recenti innesti tra immagine, scrittura e corpo, a sostegno di una sorellanza sempre più necessaria, sempre più ritrovata, è stata la collaborazione con Maria Grazia Chiuri, fashion designer della maison Dior, che ha scelto per la sfilata prêt-à-porter della stagione autunno-inverno 2019-2020 di affiancare alle modelle le ‘donne lettere’ di Tomaso Binga, prelevate direttamente dalla serie Scritture Viventi del 1976 e dall’Alfabetiere Murale del 1977. Esibite all’interno degli spazi della sfilata, le sagome del corpo femminile nudo che mimano le lettere dell’alfabeto, s’incarnano per dar corpo alle parole, nell’intento di rigenerare ancora quel diritto, sempre meno sopito, dell’apparire e dell’essere donna, che la moda concede come gesto di rivolta e liberazione.

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1. Introduzione

Simone Bianchi (Lucca, 1972) è oggi tra i più importanti illustratori a livello internazionale, raffinato e potente interprete dei celebri supereroi dell’universo Marvel e Dc Comics (ma non solo). Nel 2000 insegna alla Scuola Internazionale di Comics di Firenze e redige il suo primo portfolio ufficiale, Echi. Nel 2001 lavora con la Direct2Brain di Latina, società specializzata in design 3D, occupandosi di sceneggiatura, storyboards e studio di personaggi. È l’inizio di una carriera ricca di successi, che vede l’artista impegnato in numerosi progetti. Nel 2002 esce The Art of Simone Bianchi e nel 2004 è la volta di Ego Sum, storia fantascientifica interamente scritta e disegnata da Bianchi, per la quale vincerà, l’anno successivo, lo Yellow Kid Award. Nel 2005 dipinge il poster ufficiale per Lucca Comics e presenta Onirika, terzo artbook. Risalgono a questo periodo le collaborazioni con le più importanti case editrici americane di fumetti: dapprima con la DC Comics e a partire dal febbraio 2006 con la Marvel, con cui firma un contratto di esclusiva. Tra 2006 e 2014 disegna, indicando una selezione di lavori, sei albi di Wolverine (compreso l’importante numero 50), sei numeri di Astonishing X-Men (ridefinendo i costumi ufficiali degli X-Men, che saranno usati dalla Marvel per i sei anni successivi), sei albi Thor For Asgard, tre albi New Avengers, crea i personaggi Romolus e Remus, ed esegue alcune copertine di Star Wars.

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I film The Woodmans (Scott Willis, 2010) e il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000) ripercorrono in modi diversi e complementari la vicenda biografica della fotografa Francesca Woodman, scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, e da allora figura centrale nell’arte visiva contemporanea. I due lavori appaiono costruire una distanza, come una sfasatura tra colei che dice io nelle sue opere, e che però può essere colta solo nel suo essere assente, o meglio, nella metamorfosi del sé nella pratica artistica, e coloro che prendono parola per lei per raccontarla, definirla e forse rinchiuderla in una forma alla quale, però, gli scatti di Francesca sembrano voler sfuggire; ed è su questa discrasia, sorta di corrispondenza perduta tra il racconto del film e le figure delle fotografie, che questo mio intervento lavora.

The film The Woodmans (Scott Willis, 2010) and the experimental documentary of the American director Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), explore in different yet complementary ways the biographical journey of the photographer Francesca Woodman, disappeared by her own will in 1981, at twenty-two, and since then a major protagonist of contemporary visual art. The two films appear to build a distance of sorts, a shift between the woman that says ‘I’ in her works, that can be grabbed in her absenceonly – or, better, in the metamorphosis of the self offered by her artistic practice –, and those who speak for her to recount her story, define her and maybe imprison her in a form to which her pictures seem to be willing to escape from. It is precisely on this dyscrasia, a lost correspondence between the pictures and the images of the films, that my contribution deals with.

 

 

 

1. Pellicole. Fotografie e film

Scomparsa per suo volere nel 1981, a ventidue anni, Francesca Woodman si delinea ormai come figura centrale dell’arte visiva contemporanea, in un caso notevole di celebrità sorta e come esplosa poco tempo dopo – e forse a causa – di quella morte precoce e drammatica. In effetti, a partire dalla prima esposizione postuma nel 1986, negli anni a seguire sono state proposte numerose retrospettive delle sue opere, tra le quali una monografica di più di centoventi scatti al Guggenheim di New York nel 2012; e sono apparsi poi svariati saggi e monografie,[1] fino a fare di Woodman un nome molto noto e ricorrente anche negli ambienti meno specializzati, in una dinamica non lontana da quella che ha dato forma alla leggenda di Vivian Maier in anni ancora più recenti.[2]

Il documentario sperimentale della regista statunitense Elisabeth Subrin, The Fancy (2000), ripercorre la vicenda biografica di Woodman in una dimensione per molti aspetti inusuale, giacché gli scatti dell’artista non sono mostrati ma rievocati in descrizioni affidate a una voce over e performati da modelle che ne replicano le pose, così da costruire una sorta di ritratto in absentia dai toni suggestivi e talvolta inquietanti.[3]

Dal canto suo, il film di Scott Willis The Woodmans, presentato al Festival di Roma nel 2010 e dalla struttura più convenzionale, è dedicato al ricordo della fotografa in una sorta di album di memorie raccolte dai familiari e da chi le è stato vicino, come indica il titolo, in una polifonia di voci e immagini che accosta interviste, fotografie di famiglia, pagine di diario a filmati e immagini prodotti dalla stessa Francesca.[4]

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Avec les photographies de Denis Cointe et la traduction allemande de Claudia Kalscheuer, Y penser sans cesse de Marie NDiaye est une forme autobiographique intermédiale et plurilingue qui interroge profondément l’espace dans l’écriture de soi. Dans leurs interactions, texte et photographies proposent une errance spatiale à travers Berlin dans laquelle s’articulent mémoire intime et histoire collective. Le texte fait entendre la voix d’une mère et de son jeune fils qui viennent de s’installer à Berlin dans un appartement où vivaient des enfants juifs déportés en 1943. Qui suis-je ? Où sommes-nous ? Quelle est notre « Haus » (maison) ? Telles sont les questions que pose l’enfant à sa mère, qui est peu à peu hanté par la voix des enfants tragiquement disparus. Ces phénomènes de hantise sont redoublés par le dispositif texte-photographie qui fait revenir des visages sans noms et sans paroles traversant l’espace berlinois photographié et écrit. La langue française est elle aussi peu à peu hantée et entée par la langue allemande. Le texte a été publié de manière bilingue et Marie NDiaye intègre de l’allemand au français au fur et à mesure que le récit progresse, soulignant ainsi la mobilité foncière de l’écriture de soi qui se définit comme un déplacement entre les langues et entre les médias. Il s’agit de montrer qu’Y penser sans cesse repose sur des phénomènes de hantises historiques, figurales et linguistiques qui mettent en évidence qu’au lieu de soi, se trouvent des autres.

Marie Ndiaye’s text Y penser sans cesse, published with photographs by the artist Denis Cointe and accompanied by Claudia Kalscheuer’s German translation, is an intermedial and multilingual autobiographical form that questions the space within the writing of the self. In their interrelation, writing and photographs draw a sort of wandering in the city of Berlin and an unprecedented articulation between personal memory and collective history. The text, in fact, gives voice to the dialogue between a mother and her son who have recently been living in a flat once inhabited by a deported Jewish family. «Who are we? Where are we? What is our “Haus”?» the son repeatedly asks his mother, obsessed whit the voices of the Jewish child who had inhabited that space. Through the redundant images of anonymous and mute faces crossing the German capital by train, the photographs included in the text help intensify the repetitive nature of the writing and the obsessive presence that inhabits the young Frenchman. At the same time, the German language is progressively grafted into the French language, in a linguistic hybridisation that underlines the mobility of self-writing, a real shift between languages and media. The aim of this contribution is to highlight the phenomena of historical, metaphorical and linguistic hantise on which this work is built and through which the presence of the others replaces that of the self.

 

 

L’œuvre contemporaine qui nous intéresse ici est au départ un exemple de « littérature exposée » telle qu’Olivia Rosenthal et Lionel Ruffel l’ont théorisée : une littérature en scène, qui prend la forme de la performance et qui s’insère dans un dispositif de publication multimodal.[1] En 2010, le photographe et vidéaste Denis Cointe demande à Marie NDiaye d’écrire un texte destiné à être lu à voix haute et accompagné de musique et de photographies projetées sur le fond d’une scène. Il pensait enregistrer la voix de l’auteure ; finalement, elle sera présente sur scène. La performance s’intitule Die Dichte, expression allemande qu’on a pu traduire par ‘ la densité ’, ‘ l’épaisseur ’, ‘ la profondeur ’ et ‘ l’intensité ’, et qui nomme peut-être les différentes couches qui constituent ce projet intermédial et les interactions entre le visuel, le musical et le textuel. La performance est présentée ainsi : « un texte et une voix qui se déploient dans un espace visuel et sonore. Le lieu de cette rencontre : Berlin et les souvenirs ».[2] L’œuvre est composée à plusieurs : Marie NDiaye pour l’écriture et la lecture du texte, Denis Cointe pour les photographies et les musiciens Sébastien Capazza (pour la guitare et la basse) et Frédérick Cazau (pour les claviers et les ordinateurs). La performance est présentée à Bordeaux en 2011 puis en France et en Allemagne (avec des sous-titres allemands) en 2012. Mais ce n’est pas la seule forme de publication – d’exposition – que prend Die Dichte. A côté du spectacle, Denis Cointe réalise en 2012 un court-métrage avec le texte de Marie NDiaye[3] et la musique de Sébastien Capazza et Frédérik Cazau qui déploie plus d’images fixes et mobiles que la performance n’en déployait sur scène. En 2012 encore, le texte conçu pour être lu à voix haute se traduit aussi en une pièce radiophonique bilingue diffusée en Allemagne.[4] Puis l’œuvre continue encore sa vie sous une autre forme, numérique, sur le site de la compagnie Translation fondée par Denis Cointe qui demande à Sébastien Gazeau de concevoir une « feuille numérique » en rapport avec Die Dichte sur laquelle on trouve les photographies de Cointe, un enregistrement de la voix de NDiaye et des citations d’historiens de l’art et de philosophes ; pour Denis Cointe, cette feuille « sans destination précise, […] converse et chemine avec les autres » formes de l’œuvre.[5]

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En 1980, la même année que la parution de La chambre claire de Roland Barthes, Alix Cléo Roubaud et Jean Eustache conçoivent un film court sur la photographie et le cinéma: Les Photos d’Alix. Si le réalisateur est bien Eustache, il est important de redonner sa juste place à Alix Cléo Roubaud. En plus de jouer son propre rôle et de montrer ses photographies, elle a vu dans la forme filmique un nouveau moyen d’aborder une problématique qui parcourt toute son œuvre: que peut raconter la photographie? Quelles sont ses limites? Le cinéma offre un point de vue et un point d’écoute; dans le film, Roubaud va travailler cette articulation pour (dé)construire ses propres commentaires: peu à peu, un écart se crée entre la bande son et l’image. Dès lors, les éléments évoqués par Roubaud pour chaque photo ne correspondent pas à ce que l’on voit, ce qu’elle pointe n’est pas visible. Cet écart entre l’image et le mot ne rappelle-t-il pas le «champ aveugle» qu’évoque Barthes à propos du punctum? Dans son dernier livre, Barthes s’éloigne d’un discours sémiologique pour aller vers une écriture plus personnelle, plus intime; de la même façon, le cinéma va offrir à Alix Cléo Roubaud un nouveau regard sur ses propres images. Elle peut ainsi «se livrer» comme le fait Barthes et (ré)interroger aussi bien ses pratiques artistiques – l’écriture et la photographie –, que son histoire personnelle et son existence.

In 1980, the same year as the publication of La chambre claire by Roland Barthes, Alix Cléo Roubaud and Jean Eustache conceived a short film on photography and cinema: Les Photos d’Alix. If the director is indeed Eustache, it is important to give Alix Cléo Roubaud back his rightful place. In addition to playing her own role and showing her photographs, she saw in the film form a new way to approach a problem that runs through her entire work: what can photography tell? What are its limits? Cinema offers a point of view and a point of listening; in the film, Roubaud will work on this articulation to (de)construct her own comments: little by little, a gap is created between the soundtrack and the image. From then on, the elements evoked by Roubaud for each photo do not correspond to what we see, what it points to is not visible. Doesn’t this gap between the image and the word remind us of the ‘blind field’ that Barthes evokes in connection with the punctum? In his latest book, Barthes moves away from a semiological discourse towards a more personal, more intimate writing; in the same way, the cinema will offer Alix Cléo Roubaud a new look at his own images. She can thus ‘give herself up’ as Barthes does and (re)question her artistic practices – writing and photography – as well as her history and existence.

 

 

Le livre de Roland Barthes, La chambre claire, dans lequel il développe la notion de punctum, a marqué l’histoire de la photographie. Aussi bien au niveau théorique – il est contemporain de la création des Cahiers de la photographie et d’une reconnaissance institutionnelle (du moins en France) –, et au niveau de la pratique – avec notamment un faire photographique plus intimiste (par exemple, celui de Denis Roche) ou encore « photobiographique »,[1] pour reprendre la notion de Gilles Mora et Claude Nori. Si l’impact de ce concept est indéniable dans le monde de la photographie, qu’en est-il du cinéma ? Ce texte espère ouvrir le punctum au cinéma – in motion – dans l’optique de renouveler et redéfinir, à partir du concept barthésien, les relations entre photographie, écritures du moi et mise en mouvement des images photographiques. La même année que la parution du livre de Barthes, Jean Eustache, en étroite collaboration avec la photographe Alix Cléo Roubaud, réalise le film Les Photos d’Alix. Au-delà de cette association un peu simpliste entre ces deux œuvres parues la même année, il y a, dans les deux cas, une vraie réflexion sur la spécificité et la nature de la photographie et du cinéma. Cet article propose de faire dialoguer le texte et le film, de circuler entre photographie et cinéma, tout cela à la lumière de la notion de punctum, afin de dévoiler l’intimité sous-jacente à ces réflexions théoriques.

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Cet article étudie l’écriture multimodale du moi à l’œuvre dans Les Paysages atomiques, film vidéo entièrement composé de photographies réalisées en 2017 par l’artiste française Fiorenza Floraline Menini. Il tire son titre d’une série de photos éponyme réalisée par l’artiste entre 1992 et 2008 afin de documenter les nuages aux formes atomiques apparaissant sur sa route comme autant de révélateurs de son paysage intérieur. Pour le film, ces photos sont photographiées aux côtés des carnets que Menini écrivait à l’époque où elle réalisa sa série, et ces images fixes – la série des Paysages atomiques et les photographies de photos et de carnets – mises en mouvement par un logiciel de montage vidéo. La voix-off de l’artiste accompagne le déroulement des images par la lecture d’un long texte aux accents poétiques mêlant extraits de carnets contemporains des photos atomiques, commentaires des photos, et réflexions sur la photographie. En se projetant sur les différents niveaux du récit multimodal (photos, textes, audio, vidéo), le moi éclaté trouve une forme lui permettant de se saisir et de se raconter qui donne également à son propos une valeur d’altérité. On analyse le pouvoir révélateur du récit multimodal, le caractère initiatique du voyage pluridimensionnel, et la dimension allobiographique du dispositif filmique.

This article studies the multimodal writing of the self at work in Les Paysages atomiques, a video film entirely composed of photographs made in 2017 by the French artist Fiorenza Floraline Menini.  It takes its title from a series of eponymous photographs taken by the artist between 1992 and 2008 to document the clouds of atomic forms that appear on her route as revelatory of her inner landscape. For the film, these photos are photographed alongside the notebooks Menini was writing at the time she made her series, and these still images - the series of Paysages atomiques and the photographs of photos and notebooks – are set in motion by a video editing software. The artist’s voice-over accompanies the unfolding of the images through the reading of a long text with poetic accents, mixing extracts from contemporary notebooks of the atomic landscapes, comments on the photos, and reflections on the photography. Projecting itself into the different levels of the multimodal narrative (photos, texts, audio, video), the fragmented self finds a form that allows it to grasp and tell itself, which also gives its subject a value of otherness. We analyse the revealing power of the multimodal narrative, the initiatory character of the multidimensional journey, and the allobiographic dimension of the filmic device.

 

 

Les Paysages atomiques est un film vidéo de 13min réalisé en 2017 par l’artiste française Fiorenza Floraline Menini.[1] Disponible en accès libre et en ligne, il a été montré dans plusieurs festivals de cinéma, écoles d’art et centres d’art contemporain.[2] Ce film vidéo qui s’inscrit dans la lignée des œuvres considérées par Mathilde Roman dans son livre de 2008 Art vidéo et mise en scène de soi[3] a la particularité d’être entièrement composé de photographies, pour la plupart en noir et blanc, prises, éditées et montées par Menini. La voix-off de l’artiste y accompagne le déroulement des images par la lecture d’un long texte aux accents poétiques fait de commentaires des photos, de réflexions sur le rôle de l’artiste et de la photographie, ainsi que d’extraits de carnets personnels écrits à l’époque où furent prises les photos à l’origine de la vidéo. Ces dernières sont issues d’une série, elle-même intitulée Les Paysages atomiques, que Menini réalisa entre 1992 et 2008[4] et qui est composées de clichés pris dans différents pays – France, Mexique, États-Unis – lors de road-trips durant lesquels des nuages en forme de champignon nucléaire apparurent systématiquement sur la route de l’artiste et qu’elle identifie dans ses carnets comme des révélateurs de son paysage intérieur.

Pour le film, les photos de paysages atomiques sont photographiées aux côtés des carnets que Menini écrivait quand elle les prit et dont elle lit des extraits écrits en plusieurs langues (français, espagnol et anglais). Sur ces photos de photos et de pages de carnets on voit également ses mains, qui les ont autrefois prises et écrites, et qui les manipulent de nouveau à l’occasion de leur mise en récit filmique. Le travail manuel de composition et de réalisation, d’ordinaire invisible, fait ici partie du film qui exhibe son processus de fabrication.[5] Ces photos du présent et du passé sont enfin mises en mouvement par un logiciel de montage vidéo, non par l’utilisation d’une caméra. Rien ne bouge dans ce film vidéo : ni les paysages qui explosent, ni les mains qui composent. Ce sont les fondus enchainés au ralenti, les lents effets de zoom avant et arrière, et le progressif balayage latéral des photos mimant le mouvement du regard qui les font se mouvoir sous nos yeux. En faisant se mouvoir explosions figées, images fixes, texte écrit, et geste suspendu, l’artiste reproduit ainsi le mouvement des phénomènes atmosphériques, du voyage, de l’écriture, et de la création en leur donnant un tempo qui n’est plus celui de la vie, mais de son récit.

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Nato dalla volontà di Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), del disegnatore Stefano Ricci e del contrabbassista Daniele Roccato di lavorare a un progetto comune, Madre ha debuttato nell’ottobre 2020 al festival Primavera dei Teatri di Castrovillari. Al centro del poemetto scenico scritto da Marco Martinelli, un dittico per due voci che non si incontrano, che consumano nel soliloquio l’impossibilità di un dialogo: una madre precipitata dentro a un pozzo profondo e un figlio che non riesce o non vuole salvarla. Un cadere, un precipitare che ha come messo in crisi l’idea stessa di creazione e di generazione che la madre incarna. La scena diviene allora il luogo nel quale poter ripensare dal suo grado zero la modalità stessa di approcciarsi al mondo e al reale attraverso la capacità di mettersi in ascolto e in vera relazione con esso. Un ribaltamento di paradigma, come direbbe Roberto Barbanti: da quello distaccato e monodimensionale del retinico e dell’immaginario, a quello relazionale e polifonico dell’acustinario. Madre sembra essere, allora, proprio il campo d’azione di una simile sfida, nella quale tutti siamo chiamati a sostituire quel figlio incapace di sentire e a metterci in ascolto del mondo e della sua invocazione d’aiuto, prima che sia troppo tardi.

Arose from the will of Ermanna Montanari (Teatro delle Albe), the illustrator Stefano Ricci and the double bass composer Daniele Roccato to work on a common project, Madre made its debut in October 2020 at the Primavera dei Teatri festival in Castrovillari. Core of Marco Martinelli’s scenic poem is a diptych for two voices that do not meet and consume in a soliloquy the impossibility of a dialogue: a mother fallen to the bottom of a deep well and a son who cannot or does not want to save her. A fall that has somehow put in crisis the very idea of creation and generation embodied by the mother. The scene becomes, this way, a place in which the very modality of approaching the world can be rethought from its ground zero, through the ability to listen to it and to be in true connection with it. As Roberto Barbanti would say, a real overturning of the paradigm: from the retinal one, that is detached and one-dimensional, to the acoustic one, which is relational and polyphonic. Madre therefore seems to be precisely the field of action of such a challenge, a field in which we are all called to replace that son unable to listen to the world’s cry for help, before it’s too late.

 1. «Scrivere è una pietra gettata in un pozzo profondo»: quel che viene prima

Nell’ottobre del 1995, a una manciata di settimane dalla sua morte, Heiner Müller riversa in parole le immagini di un proprio allucinato sogno notturno, dando vita al breve scritto che andrà sotto il titolo di Traumtexte. Nel sogno – e nel testo – Müller cammina faticosamente sullo stretto bordo di una gigantesca cisterna: da un lato la conca d’acqua in cui rischia di precipitare, dall’altro un’alta e impraticabile parete di cemento che lo separa dalla superficie e dal resto dell’umanità. Sulle spalle, dentro a una cesta di bambù, la sua bambina di due anni, motivo d’ulteriore intralcio e apprensione, così come la nebbia che nasconde alla vista ciò che si trova lassù, nel mondo lasciato in cima, oltre la parete. Una nebbia che, diradandosi e mostrandogli quella vita ormai negata e che seguita a scorrere senza di lui, aggraverà il suo smarrimento, la sua sensazione di definitivo abbandono e perdita. Di lì a poco, la caduta nell’acqua senza fondo dalla quale non riuscirà più a riemergere, un’angoscia che si acuirà al pensiero che la bambina possa venir fuori dalla cesta rimasta sul bordo della conca e tentare di raggiungerlo.

Ed è questo Traumtexte di Müller ad aver riunito il disegnatore Stefano Ricci, il contrabbassista Daniele Roccato e il Teatro delle Albe – nello specifico Marco Martinelli ed Ermanna Montanari – nel progetto comune di portarlo sulla scena. O, meglio, di renderlo scena possibile per luoghi non convenzionali, al di là da quelli specificamente teatrali. Scena per musei e spazi espositivi, soprattutto, in grado di conciliare la rigorosa ricerca vocale di Montanari, quella sulle possibilità sonore del contrabbasso di Roccato e la sperimentazione di Ricci sul disegno e le potenzialità dell’immagine in scena con l’esigenza di scomporsi e assottigliarsi al punto da poter raggiungere gli spettatori altrove – piuttosto che farsi raggiungere da essi solo in teatro. Proprio come un sogno che, nella sua urgenza, piombi addosso quando e dove meno lo si aspetta.

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