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Il volume La vita dei dettagli di Antonella Anedda si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora. Il presente studio affronta due concetti chiave al centro del libro: la nozione di dettaglio, cui Anedda conferisce un valore autonomo e personale, e quella di spettro/fantasma, attorno a cui la poetessa costruisce la propria riflessione sul rapporto tra ciò che è impersistente (il tempo, la vita stessa) e ciò che persiste, ciò che perdura oltre la morte (l’immagine).

Anedda’s La vita dei dettagli may be considered at the same time a declaration of poetics, a cahier of visual notes, a small treatise on reception and perception, a series of literary études (in the musical and pictorial sense of the word) and much more. This essay focuses on two key concepts at the heart of the book: the notion of detail (interpreted in a very personal way) and the interconnected ideas of spectrum and ghost, referring to the relationship between human life and what persists after death (the image).

 

E adorare i quadri che gli esseri umani hanno dipinto

i mondi senza vento che respirano quieti nei musei

Antonella Anedda, Adorare (le immagini)[1]

 

Il tempo non ha importanza: gli anni sono premuti sulla carta,

sulla tela, tela e carta che trattengono le cose

Antonella Anedda, Dall’arca[2]

 

 

La coazione a vedere e il bisogno di comprendersi mediante l’esercizio della scrittura sono i due perni attorno a cui ruota tutta l’opera di Antonella Anedda, la cui parola si fonda sull’interiorizzazione e rielaborazione dell’esperienza diretta e sul libero gioco dell’immaginazione. La passione della poetessa romana (ma di origine sarda) per la pittura è, da questo punto di vista, assolutamente paradigmatica, dal momento che non si traduce mai, sulla pagina, in mera ekphrasis; al contrario, l’opera d’arte funziona nei suoi testi come dispositivo di accrescimento della dicibilità dell’esperienza del reale, come una sorta di objet à réaction poétique, per parafrasare una nota formula di Le Corbusier. Il volume La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, che si presenta a un tempo come una dichiarazione di poetica, un cahier di appunti visivi, un piccolo trattato sulla ricezione e sulla percezione, una serie di études (nel senso musicale e pittorico del termine) letterari e molto altro ancora, è da questo punto di vista un’opera esemplare.

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Nata a Roma nel 1955, Antonella Anedda (Angioy) si è laureata in storia dell’arte presso l’Università La Sapienza sotto la guida di Augusto Gentili. Insieme alla passione per le discipline storico artistiche, che ha sempre segnato la sua vita, ha iniziato presto a occuparsi anche di traduttologia e ha insegnato mediazione linguistica presso la cattedra di Anglistica a Roma e poi, fino al 2006, presso l’Università di Siena. In seguito ha collaborato con l’Università della Svizzera Italiana come docente di lingua, letteratura e civiltà italiana, dove svolge ancora oggi la sua attività didattica.

Il suo esordio poetico risale al 1992 con Residenze invernali (Crocetti), al quale segue nel 1999 Notti di pace occidentale (Donzelli). Entrambe le raccolte sono state insignite di numerosi premi e hanno ricevuto un immediato successo, confermato successivamente dagli altri due libri di poesia: Il catalogo della gioia (Donzelli 2003) e Dal balcone del corpo (Mondadori 2007).

All’attività poetica Anedda ha affiancato anche quella di saggista e traduttrice. Nel 1994 è uscito per sua cura l’antologia di poesie e prose di uno tra i massimi rappresentanti della poesia francese contemporanea, Philippe Jaccottet: Appunti per una semina (Fondazione Piazzolla). E ancora di Jaccottet ha tradotto le prose de La parola Russia (Donzelli 2004), con in appendice tre poesie di Osip Mandel'ŝtam, che Anedda ha trasposto in italiano dal francese di Jaccottet. Tra le sue numerose traduzioni si segnalano ancora il volume Don’t Waste my Beauty (Caramanica Editore 2006), antologia della poetessa americana Barbara Carle; le liriche di Anna Achmatova, Il prodigio delle cose (Corriere della Sera 2012); e con Elisa Biagini e Emanuela Tandello ha curato e tradotto anche il volume della scrittrice canadese Ann Carson: Antropologia dell’acqua (Donzelli 2010).

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Il teatro è un luogo di rivitalizzazione degli archetipi e occupa ancora un posto centrale nell’elaborazione dell’immaginario individuale e collettivo. Lo si vede chiaramente nel lavoro della Socìetas Raffaello Sanzio e di Romeo Castellucci, quando tematizza il rapporto fra immagine e rappresentazione chiamando in causa lo spettatore.

In Go Down, Moses – andato in scena al Teatro Argentina di Roma dal 9 al 18 gennaio – la qualità simbolica dell’immagine, che non è mai soltanto un artefatto visuale, sembra andare proprio là dove il paradosso iconoclastico dell’Occidente – ovvero la continua dialettica fra rifiuto delle immagini e resistenze dell’immaginario – si è reso maggiormente osservabile, cioè alle origini della religione e della cultura giudaico-cristiana. Basti pensare che, prendendo il titolo da uno spiritual americano in cui l’esodo del popolo di Israele trasmigra nell’epopea degli schiavi afro-americani e dall’omonimo romanzo di William Faulkner, lo spettacolo utilizza la potenza narrativa della religione, e più precisamente della Bibbia e del libro dell’Esodo, per sincronizzare il mito con la sostanza del nostro tempo. Il che significa rintracciare le parole chiave del mito – abbandono e salvezza, schiavitù ed erranza, deserto e solitudine, ma soprattutto immagine senza rappresentazione (il roveto ardente, immagine di Dio che afferma «sono colui che sono») e rappresentazione senza immagine (il vitello d’oro, il simulacro, la falsa immagine) – per ritrovarle dissolte, insieme alla figura del patriarca e la sua vicenda, nel dispositivo drammaturgico e nelle scene.

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87 parole distribuite in dieci enunciati che esprimono in un moto oscillatorio l’errare senza meta da interno a esterno, da sé a non sé, da luce a ombra per arrivare a una «dimora indicibile» che dice tutto e niente. Questo il ‘libretto’ di Neither che Samuel Beckett scrisse nel 1976 su richiesta del compositore Morton Feldman per una nuova ‘anti-opera’ senza trama, scenografia, protagonisti, ma neppure parole.

Il testo di Beckett, infatti, affidato agli acuti vocalizzi di una voce sopranile, non è intellegibile: la parola viene negata al canto, divenuto qui mera sostanza sonora inserita in un tessuto orchestrale che si declina in varianti paratattiche che si ripetono senza possibilità di sviluppo. Una musica sempre al limite di dire o tacere, ma che in definitiva né dice né tace. Né l’uno né l’altro.

Neither va in scena per la prima volta a Roma nel 1977 e sebbene si tratti di una composizione atipica e di difficile fruizione è stata oggetto di una recente riproposta nell’ambito di festival dedicati alla musica contemporanea; prima al Festival d’Automne di Parigi nel 2007, ora alla Ruhrtriennale.

Romeo Castellucci firma una nuova produzione scenica destinata all’affascinante Jahrunderthalle, la monumentale ex acciaieria di Bochum che con le sue arcate di vetro e metallo ha l’impatto di una cattedrale postindustriale. Castellucci sfrutta le potenzialità dell’ambiente illuminandolo dall’alto con fasci di luce lattigginosa che esaltano la verticalità dello spazio e delle serie musicali creando l’atmosfera di un nonluogo.

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

 

II.

La raccolta Il rovescio del dolore di Luigi Socci presenta in copertina un riferimento iconografico spassoso quanto irriverente: la caffettiera per masochisti ideata dal grafico e illustratore marsigliese Jacques Carelman, pubblicata in quel Catalogue d'objets introuvables che è uno dei volumi più rappresentativi del Surrealismo postbellico. Perché questa scelta?

È probabile che Socci, con l'amara e risentita ironia che caratterizza il suo lavoro, abbia inteso servirsi di un'immagine che sintetizza in modo esemplare una forma tra le più comuni di ‘dolore alla rovescia’: quella del masochismo, in questo caso simboleggiato da una caffettiera ustionante.[2] Cos'è in fondo il masochismo, se non una delle manifestazioni archetipiche della nostra società odierna, allucinata e ansiosa di infliggere (e infliggersi) dolore e punizione? Di più, che cos'è il teatrale e sensuale misticismo barocco, irresistibilmente affascinante per molti poeti contemporanei – penso, in particolare, all'opera di autori come Vito Bonito e Rosaria Lo Russo – se non un fenomeno di plateale godimento masochistico, che molto ha a che spartire con la narcisistica egolatria dei tempi presenti? Letto in quest'ottica, quello di Socci – tratto da una sezione de Il rovescio del dolore intitolata Berniniane – è un testo che crea, grazie al referente figurativo, un fulminante corto-circuito tra due poetiche dell'estasi per molti versi sintoniche: quella espressa da Bernini attraverso la raffigurazione della Santa barocca per eccellenza e quella messa a nudo dal poeta-performer anconetano giocando, se non sulle spinte autodistruttive, sulle neo-barocche tendenze masochistiche della contemporaneità.

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Nell’Hamlet che Andrea Baracco ha presentato in prima nazionale al Teatro Argentina di Roma (26-28 settembre), nell’ambito del Romaeuropa festival 2014, la componente letteraria è profondamente vincolata alla dimensione visiva e visionaria. Grazie alla scenografia multimediale di Luca Brinchi e Roberta Zanardo dei Santasangre, la parola shakespeariana è portata a misurarsi con gli spazi vuoti, la video arte e l’alternarsi di luci e colori, in una continua intersezione e sovrapposizione di linguaggi. A ciò contribuisce anche la drammaturgia di Francesca Macrì (Biancofango), che scompone un testo ben noto al pubblico per ricostruirlo senza nessuna ambizione di riscrittura o di adeguamento alla realtà contemporanea. Al contrario, nel suo intervento si legge il desiderio di alleggerire, di ridurre il testo di Shakespeare a uno scheletro – riempito di immagini – sul quale disegnare la propria interpretazione.

Lo spettacolo procede con il ritmo delle montagne russe, proiettate sullo schermo all'inizio, senza nessun elemento superfluo, ma con continue accelerazioni. Effetto cui concorrono i giochi di luci e la scenografia essenziale e geometrica, che riduce i personaggi a sagome prive di profondità, capaci però di ritrovare il proprio spessore appena prendono la parola.

Parole, quelle shakespeariane, che superano la vacuità del «words, words, words», per riaffiorare nella forza imprescindibile di quel testo scritto che lo spettatore riconosce distintamente in diverse occasioni. Il minimalismo adottato come codice generale dell’allestimento (anche per la musica, che però lo alterna alla tecno e al Concerto italiano di Bach) influenza la scelta di limitare a dieci il numero dei personaggi, interpretati da un gruppo di attori decisamente adeguati ai ruoli, perfino molteplici.

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La conversazione restituisce ai lettori/spettatori la forte sintonia artistica fra i tre, l’idea condivisa di creazione come textum in cui si amalgamano generi artistici differenti nonché il rifiuto di indulgere a facili effetti attraverso l'esposizione di immagini macabre. «Il teatro può fare di più» – dice Baliani – «molto di più».

 

Riprese: Maria Vignolo; Montaggio audio e video: Giulio Barbagallo; Grafica e animazioni: Gaetano Tribulato

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«Se ad un musicista togli lo strumento, ciò che rimane è un danzatore: il movimento delle braccia, gli spostamenti, i gesti…tutto concorre a generare l’azione visiva di un performer»

Salvatore Romania, a proposito di Pixel

 

Tre pulsazioni, tre musicisti, tre performer posti ai vertici di due triangoli, immersi l’uno nell’altro. Questo lo sguardo inziale su Pixel, che rivela immediatamente il proprio omaggio alla perfezione simbolica del numero tre, ribadito dalle prime protagoniste sulla scena durante il buio in sala: le luci del metronomo digitale che alternano una sfera verde a due rosse. One, two, three, One, two, three, e i puntatori illuminano il palco rendendo manifesti due triangoli che s’abbracciano: nel primo figurano i danzatori Salvatore Romania, Valeria Ferrante, Claudia Bertuccelli e nel secondo i musicisti Alessandro Borgia, Salvo Amore, Michele Conti. Stop! metronomo tacet. I timpani immergono ogni cosa in un’atmosfera tribale: a tratti tellurici sovrappongono linee morbide e agili coi tak della darbuka e gli slap sul djembe, mentre i danzatori disegnano, con le loro sagome, lunghi binari nell’aria, marciando su solchi invisibili all’interno del proprio triangolo. Divorano lo spazio a ogni falcata. È pura potenza mescolata a grazia ed eleganza; i ritmi musicali, modulando di metro in metro, determinano cadenze incerte e spezzate che non risolvono.

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Il tempo sono io che lo creo, - disse la linea, - io separo le stratificazioni dell’inconscio, unisco i lembi della memoria…

Italo Calvino

 

 

Pensieri della mano (Milano, Adelphi 2014) è una conversazione tra colleghi, è un piccolo viaggio alla scoperta di quello che c’è dietro e dentro l’universo immaginativo di Tullio Pericoli, «il pittore dei giornali» per sua stessa felice definizione, all’interno del quale il lettore è invitato a farsi strada con la guida di Domenico Rosa, redattore del «Sole 24 ore».

Sin dalla prima pagina emerge la volontà di parlare della pittura e del disegno innanzitutto come esperienze vissute fisicamente, di ricongiungere il momento ideativo ed esecutivo, che confluiscono nel gesto unico della mano che traccia la linea sul foglio, gesto duplice, in quanto consapevole e istintivo allo stesso tempo. Secondo Pericoli, infatti, «nella mano c’è una sapienza, e insieme, a volte, il peso della sapienza»: è per questo che essa va anche lasciata libera di seguire i propri percorsi, spesso imprevedibili e inattesi, di fare le proprie scelte, come quella della carta da utilizzare, spesso determinata da un semplice contatto fisico.

La tentazione di Rosa in un primo momento è, forse, quella di lasciarsi andare al dettaglio tecnico, di approfondire il discorso sui supporti, sugli strumenti, sul modo di tracciare una linea, la cui invenzione – così crede Pericoli – non è stata meno importante e rivoluzionaria rispetto a quella della ruota o del fuoco. Tali preliminari servono ai fini di un moderno ‘elogio della mano’ che intende ricordarci l’importanza del più prezioso tra gli strumenti d’artista, il cui ruolo nell’arte contemporanea sembra essere progressivamente dimenticato e misconosciuto, a causa di un’epoca che ha allontanato lo spettatore dall’opera, o almeno dalla sua dimensione fattiva, al punto che quest’ultima «spesso non richiede più di essere vista, è sufficiente descriverla al telefono».

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