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Il tema della metamorfosi dei corpi nelle rifrazioni della videoarte è al centro di questo dossier che offre, grazie a sguardi eclettici, una mappa di significative occorrenze, declinate con grande rigore e puntualità di metodo. Il gruppo di ricerca che si muove intorno al magistero di Sandra Lischi aggiunge al nostro numero monografico dei bagliori e delle onde elettroniche indispensabili per cogliere fino in fondo le vibrazioni di un linguaggio ibrido e mutante per statuto.

 

 

All’inizio ci sono i monitor con le immagini distorte, nella mostra di Nam June Paik alla galleria Parnass di Wuppertal del 1963; insomma, si sa che Paik col suo Ê»gestoʼ ha scoperto la televisione astratta o come diceva nel titolo della sua mostra, la televisione elettronica, cioè diversa da quella che imitava il cinema, la radio, il teatro. Questione di segnali, di campi di energia: la metamorfosi è l’elemento costitutivo dell’immagine elettronica. Ma ci sono anche i volti distorti da Paik, con le deformazioni del presidente Nixon in TV durante le trasmissioni sulla guerra in Vietnam: da subito, dai primi anni del video, il volto, il corpo, diventano la materia prima per una sperimentazione con le immagini elettroniche, sia che provengano dalla televisione quotidiana sia che derivino dalla ricerca sul corpo stesso dell’autore.

All’inizio, però, ci sono anche le utopie delle avanguardie cinematografiche: il film-corpo, la città-corpo di Dziga Vertov che, come in un catalogo inesauribile di meraviglie, di senso e di sensi, ci mostra le possibili metamorfosi consentite dal cinema; non chiamiamole trucchi, scriveva, ma procedimenti, giacché non si tratta di qualcosa di artificioso e di posticcio, né di un maquillage fatto per ingannare. Il cinema ha dentro di sé dei procedimenti per modificare lo sguardo e il pensiero: usiamoli. La storia del cinema d’avanguardia, si sa, è anche storia delle scoperte di tanti diversi Ê»cine-occhiʼ, storia delle possibili, e talvolta attuate, metamorfosi di immagini ma anche di punti di vista (del filmmaker e dello spettatore) e di schermi (come quantità, come consistenza, come invenzione di superfici per la proiezione). È attraversata anche da utopie di attrezzi mobili e ubiqui, di protesi corporee, di macchine da presa piccole, leggere, volanti, capaci di guardare dentro il corpo, di scorgere l’infinitamente piccolo e l’infinitamente lontano, di vedere l’invisibile per far pensare l’impensabile. Indifferenza per il prodotto ben confezionato a favore del processo, il quale è divenire, è metamorfosi. L’idea di cinepresa, e di medium in genere, come protesi ed estensione del nostro corpo e del nostro sistema nervoso, da visionaria è diventata uno dei pilastri della riflessione di Marshall McLuhan negli anni Sessanta del Novecento, ripresa poi dalla videoarte. Pensiamo a Paik che nei primi tempi del video installa dei monitor sul corpo di Charlotte Moorman a mo’ di reggiseno tecnologico (TV Bra for a living sculpture, 1975); e pensiamo a Moorman che Ê»suonaʼ la schiena di Paik, il quale si tende una corda sul dorso come fosse un violoncello (il pezzo è da una composizione di John Cage).

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La presenza di alcuni pittori indipendenti nello studio fotografico di Nadar nel 1874 a Parigi inaugura una nuova storia dello sguardo. In quella stessa occasione monsieur Manet presenta al Salon ufficiale La ferrovia, cercando più un dialogo con la tradizione che uno scontro accademico. Quest’opera tanto chiacchierata apre il saggio-racconto di Victor Stoichita, Effetto Sherlock (il Saggiatore, 2017).

Quello che il critico rumeno presenta nelle duecentoquarantatré pagine del suo ultimo lavoro è in parte suggerito dal sottotitolo all’edizione italiana: Occhi che osservano, occhi che spiano, occhi che indagano.

La copertina ospita un’enigmatica elaborazione grafica: una lente d’ingrandimento quasi sovrapposta a un’altra contiene il teleobiettivo del voyeur Jeff che dalla finestra sul cortile di Hitchcock (1954-55) è intento a spiare un ‘uomo alla finestra’, affacciato da una pittura di Caillebotte (1875). Questo incontro/scontro produce la sagoma di un terzo occhio che sembra spiarci, interrogare l’osservatore. L’invito dell’autore è chiaro: ci suggerisce di dare uno sguardo. Con stile impeccabile, con rigore logico e leggerezza immaginativa, Stoichita ci aiuta a indossare i panni dell’investigatore di immagini, accompagnandoci verso una storia dello sguardo da Manet a Hitchcock.

Nel quadro La ferrovia (1872-73) accade che non ci sia nessuna ferrovia. La cancellata nera elimina la possibilità della bambina (e la nostra) di scorgerne un solo frammento. L’opera sembra essere la cronaca di un oggetto fantasma che ci interroga sul possibile senso nascosto. Dialogando con la tradizione pittorica europea Stoichita trova nuove disquisizioni semantiche per indagare sull’accaduto. Profila sin da subito un leitmotiv che accompagna l’intero saggio: «lo sguardo ostacolato». Partendo dalla ferrovia di Manet, lo ritrova già nella pittura medievale, disegnando così, è il caso di dirlo, una strada ferrata che attraversa la tradizione del Seicento per giungere al cinema degli anni Sessanta. In questa lettura di viaggio, finestrini d’immagini della storia dell’arte e del cinema scorrono come paesaggi, sempre vari e contrastanti, accomunati dallo stesso tragitto semantico. Muovendosi dalle «figure-filtro» che nelle pitture impressioniste imitano la direzione dei nostri occhi, ostacolandola, Stoichita analizza un «sistema di filtri» (tende, umidità, alberi, e persone) che costringono a un continuo e frustrante «esercizio intellettuale della rivelazione». Il visibile non è più rassicurante: ostacolato perché opaco, singolare perché soggettivo, perde il punto di vista centrale e guarda da un’altra ‘prospettiva’.

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Il lettore di Fototesti. Letteratura e cultura visuale (Quodlibet, 2016) si confronta con questioni sulle quali i visual studies riflettono da anni, a partire perlomeno dal pioneristico Iconotextes di Alain Montandon (1990), cui il volume è non a caso dedicato: in che modo il Novecento ha rappresentato se stesso nella combinazione intermediale del fototesto? Più in generale, quale concezione ha la società occidentale della rappresentazione? Ma, soprattutto, che funzione reciproca assumono la componente fotografica e la componente verbale una volta che si siano fissate nella materialità del prodotto fototestuale? A tali domande, come affermano i curatori Michele Cometa e Roberta Coglitore, il volume tenta di rispondere nutrendo anche l’«ambizione di cogliere alcuni aspetti delle retoriche, verbali e visuali, che il fototesto inaugura» (p. 8).

Alla premessa seguono nove saggi, corredati da un ricco apparato iconografico, imprescindibile del resto in un’ampia ricognizione volta a indagare le tipologie di forme e retoriche in cui si possono incarnare i fototesti. I primi tre svolgono un ruolo di guida rispetto ai successivi. Nel primo capitolo Valeria Cammarata mostra l’esemplarità dei trompe l’œil di Georges Perec e Cuchi White sia in quanto portatori di attitudini sperimentali d’intermedialità che mettono in discussione canoni letterari e artistici pregressi, sia in quanto condensatori di tematiche che si riveleranno fondanti per una definizione del fototesto: ricostruzione memoriale, riflessione su soggetto e autobiografia, relazione immagine/verbo e rappresentazione/illusorietà. Se Roberta Coglitore si concentra sulla necessità di un «nuovo patto foto-autobiografico» affrontando la narrazione fototestuale del sé, Forme retoriche del fototesto di Michele Cometa viene a costituire il fulcro teorico del volume, nonché il punto di arrivo di numerosi studi condotti dall’autore sui dispositivi della visione, tra i quali quello sulla collaborazione col dedicatario Montandon, dal titolo Vedere. Lo sguardo di E. T. A. Hoffmann (2009). In particolare, lo studioso si focalizza sulle tre retoriche principali dei fototesti. Dato che la fruizione possiede una complessità maggiore della semplice lettura, anzitutto bisognerà individuare quelle che sono definibili come retoriche dello sguardo; in secondo luogo, per la centralità del supporto mediale, sarà opportuno distinguere alcune retoriche del layout, per poi, in ultima istanza, concentrarsi su quelle dei parerga, proprio in virtù della compresenza tra «integrazioni testuali dell’immagine e integrazioni visuali al testo» (p. 78). Col procedere dell’indagine, Cometa offre un quadro dettagliato delle forme in cui è possibile rinvenire i fototesti e analizza le modalità mediatiche nel loro relazionarsi.

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Io sono la tua carne,

la carne eletta del tuo spirito.

Non potrai mai visitarmi nel giorno

prima che il puro lavacro del sogno

mi abbia incenerita

per restituirmi a te in pagine di poesia,

in sospiri di lunga attesa.

Alda Merini, La carne e il sospiro

 

 

Schermata dietro una vetrina in plexiglas, isolata ma (sovra)esposta allo sguardo del pubblico, la regina Erodiàs pare svegliarsi di soprassalto da un sonno senza tempo, scossa dalla propria voce fuori campo che erompe in un grido viscerale «Jokan!», per poi modularsi in gioco di parole, in vibrante catena di metaplasmi: «Lan, Lanjokaan, Jokaslaan, Slanjokaan…».

Il ritmo ipnotico delle variazioni onomastiche con cui la «tragica reina» appella l’oggetto del suo desiderio, il profeta Giovanni il Battista, apre lo spettacolo Erodiàs diretto da Renzo Martinelli e con protagonista Federica Fracassi, basato sul monologo di Giovanni Testori parte del suo ultimo capolavoro Tre lai. Cleopatràs, Erodiàs, Mater Strangosciàs (1994).

Già dalle primissime battute del dramma è impossibile non riconoscere il registro linguistico-espressivo forgiato dal grande autore lombardo, quell’idioletto capace di contorcere il Ê»corpoʼ delle parole attraverso stranianti acrobazie sintattiche, plasmando l’ardore dei personaggi col fervore espressionistico del suo moto continuo. La lingua testoriana è il primo elemento che emerge nello spettacolo di Martinelli, travolgendo da subito lo spettatore nella bufera affabulatoria della sua protagonista: la celebre concubina di Erode alla quale Testori attribuisce una qualità anfibologica e contraddittoria, immaginandola divisa tra una femminilità gravida di passione per il Battista, e un mascolino impulso alla violenza e alla vendetta, suscitato dal netto rifiuto del profeta alle sue continue profferte d’amore.

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Banksy, Jean-Michel Basquiat, Joseph Beuys, Urs Fischer, Luigi Ghirri, Damien Hirst, Jeff Koons, Keith Haring, Sarah Lucas, Yoko Ono, Robert Mapplethorpe, Michelangelo Pistoletto, Roy Lichtenstein, Mark Ryden, Mario Schifano, Julian Schnabel, Andy Warhol, ma anche Salvador Dalì, Yves Klein, Réné Magritte, Pablo Picasso: questi sono soltanto alcuni dei nomi che hanno firmato le cinquecento copertine che, come se si sfogliasse una mostra permanente di arte applicata alla popular music, si possono ammirare nel corposo volume trilingue Art Record Covers curato da Francesco Spampinato (con la supervisione editoriale di Julius Wiedermann) per i tipi di Taschen.

Il volume, che fornisce un primo orientamento a un settore dei visual studies ancora da esplorare sistematicamente, è mosso da un obiettivo che Spampinato chiaramente enuncia al termine dell’introduzione: «to present the record cover as a quintessential medium for an expanded approach to art, stemming from the artist’s increasing desire to transcend the boundaries between different cultural forms while at the same time commenting on and exposing the mechanisms that regulate mainstream media and entertainment» (p. 12).

Di tale ‘approccio espanso all’arte’ Spampinato si dedica a ricostruire le principali linee di direzione con una sintetica ma esaustiva visione d’insieme: dalle prime collaborazioni negli anni Quaranta di Alex Steinweiss con la Columbia Records alla realizzazione di Salvador Dalì nel 1955 della copertina di un album di una star televisiva americana, dai vari lavori degli anni Cinquanta e Sessanta di Picasso, Miro e Dubuffet alla psichedelia pop del 1967 di Andy Wharol e Peter Blake – rispettivamente per Banana dei Velvet Underground e Sgt. Pepper’s Lonely Heart Club dei Beatles –, dai ribellismi punk degli anni Settanta di artisti come Martin Kippenberger e Albert Oehlen alle provocazioni dell’hip-hop newyorkese degli anni Ottanta di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, dai Young British Artists degli anni Novanta sino alle più recenti sperimentazioni optical di Lisa Alvarado, Tauba Auerbach e gli artisti della corrente Post-Internet.

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Emma Dante ha ormai una intensa esperienza nel campo della regia d’opera e con Macbeth (2017) conferma la vocazione verso uno stile visivo di grande impatto e una recitazione fortemente corporea. Il saggio esplora tre livelli della composizione registica dell’opera – il livello fisico-gestuale, il livello rituale, la commistione fra tragico e comico – e concorre a restituire l’ampiezza di rimandi figurativi e simbolici.

Con il Macbeth co-prodotto dal Regio di Torino, dal Massimo di Palermo e dallo Sferisterio di Macerata (2017), e presentato al Festival di Edimburgo dove ha ottenuto l’Angel Herald Award, Emma Dante si confronta anche inevitabilmente con il genere della tragedia, e con una delle sue realizzazioni più radicali. La sua radicalità scaturisce dall’empatia negativa per il protagonista in preda a conflitti e ossessioni dilaceranti: è un viaggio mentale negli strati più oscuri e notturni della psiche. Non è un caso che questo spettacolo abbia punti di contatto con un’altra esperienza della regista palermitana in ambito tragico, la Medea, un testo altrettanto ricco di empatia negativa e di conflittualità psichica ed etnica.

Anche in questo caso, come nelle regie d’opera precedenti, Emma Dante integra il cast operistico con un gruppo di attori e danzatori, provenienti in parte dalla sua Compagnia, in parte dalla Scuola dei mestieri dello spettacolo del Teatro Biondo di Palermo. Crea così un altro testo parallelo, che si incrocia con quello primario, potenziandone e sviluppandone alcuni nuclei tematici che ora ripercorreremo. Ne scaturisce uno spettacolo corale, potente e dinamico, ricco di registri stilistici poliedrici.

Il primo nucleo è la presenza corporea: quella fisicità degli attori che il teatro di Emma Dante sfrutta fino ai limiti estremi. È infatti un Macbeth strettamente legato alla sfera del sangue, della generazione, del corpo grottesco, e quindi di quell’immaginario popolare ed atavico messo in luce da Michael Bachtin. Tutto ciò risalta soprattutto nelle due grandi scene dedicate alle streghe, rappresentate incinte e accompagnate da uomini con grossi falli con cui si uniscono sessualmente in modo frenetico.

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Abstract: ITA | ENG

Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli esperimenti di traduzione scenica di favole e miti con risultati compositivi davvero interessanti. Anche Emma Dante non è rimasta insensibile al fascino della fiaba e con Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve e La bella Rosaspina addormentata si accosta all’elemento fiabesco ironizzando e capovolgendo stereotipi di genere e luoghi comuni (le tre fiabe sono poi confluite in un interessante progetto di riscrittura testuale e visiva per i tipi Baldini&Castoldi, grazie alle tavole illustrate di Maria Cristina Costa). Il saggio punta l’attenzione su questi tre spettacoli che ripropongono gli stessi ingredienti delle sue messe in scena: recitazione, provocazione, corpo, fisicità, immaginazione, parola. 

Over the last few years, the experimentation of turning fables and myths into stage productions has grown in number with very interesting results. Even Emma Dante has not been insensitive to the charm of the fairy tale, and with Anastasia, Genoveffa e Cenerentola, Gli alti e bassi di Biancaneve and La bella Rosaspina addormentata, approaches the fairy tales ironically, flipping stereotypes of gender and changing locations (the three fairy taleshave then come to an interesting textual and visual rewrite project for the Baldini & Castoldi types, thanks to the illustrated tables of Maria Cristina Costa). This essay focuses on the three shows that are part of that constant search in which Dante inserts all her performing elements: acting, provocation, body, imagination, word. 

1. C’era una volta…

«Le fiabe sono vere» scriveva Italo Calvino nell’introduzione alle Fiabe italiane, «sono, prese tutte insieme […], una spiegazione generale della vita…». Il teatro ha accolto fin dalle origini la suggestione di temi e storie ‘orali’ e nel corso della sua evoluzione ha messo a punto strategie retoriche sempre più convincenti nella resa di fiabe e racconti. Se il mythos tragico ha costituito la matrice autentica della fondazione di una prassi drammaturgica e scenografica, il Rinascimento ha contribuito alla codificazione di un nuovo genere che già nella sua titolazione richiama la forza e la pregnanza delle fabulae. La «favola pastorale» rappresentava infatti il tentativo di contemperare elementi propri della tradizione classica con un vitale slancio compositivo legato agli umori e alle sfrenatezze di corte; si trattava di delectare il pubblico attraverso exempla di ordine moraleggiante: il teatro era già inteso come arte fecondamente paideutica. Il barocco avrebbe aggiunto a tale quadro paradigmatico l’ossessione per quella ‘poetica della meraviglia’ che, oltre a stimolare una straordinaria profusione di ‘effetti speciali’, richiamava da vicino le atmosfere incantevoli di leggende e archetipi mitologici.

La progressiva costituzione di repertori fiabeschi rende gli intrecci tra favole e teatro ancor più stringenti al punto che è difficile separare nettamente i due ambiti: la magia della scena fa sì che ogni storia si trasformi in sogno (o in incubo), come del resto testimonia la grandezza delle invenzioni shakespeariane. Dobbiamo arrivare all’Ottocento per assistere ad una grande fioritura della fiaba. Il danese Andersen, i fratelli tedeschi Grimm, il russo Afansjeu ci hanno lasciato le più belle fiabe del secolo. In Italia, Collodi riscrive nei suoi Racconti delle fate le fiabe immortali del francese Perrault, dando ad esse una vivacità tutta toscana. Luigi Capuana, pur essendo il caposcuola del verismo, considera le fiabe come una porta da tenersi sempre aperta sull’irrazionale e sul fantastico. Infine, Giuseppe Pitrè, sempre interessato alle tradizioni regionali italiane, trascrive nelle sue Novelle antiche fiabe raccolte dalla viva voce della gente.

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Riprese audio-video: Francesco Pellegrino, Ana Duque; fotografia: Francesco Pellegrino; foto di scena: Salvo Grasso; montaggio: Ana Duque.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista.

 

D: Il numero di Arabeschi che ospita questo ‘videoincontro’ è incentrato principalmente sull’idea di trasformazioni fisiche, di metamorfosi del corpo. A questo proposito, schematizzando, si potrebbe forse distinguere tra un tipo di trasformazioni corporee che potremmo definire ‘di oppressione’, di tipo verticale, subìte dal corpo (un esempio su tutti è il Salò di Pasolini), e un altro tipo di trasformazioni corporee che potremmo invece definire ‘di liberazione’, dunque non subìte ma agite dal corpo stesso (pensiamo magari all’idea della peste in Artaud). Tale polarità potrebbe essere una delle chiavi del tuo teatro, cioè mi sembra che queste due forze di trasformazione fisica e di azione sui corpi e dei corpi sia costantemente presente sulle tue scene. In che modo pensi che questo avvenga nel tuo teatro, sia nel risultato dei tuoi spettacoli che, si potrebbe aggiungere, nel processo creativo, ossia nel rapporto tra azione coercitiva della regia che permette l’azione liberatoria del corpo dell’attore?

R: Ci sono sicuramente due processi che sono legati anche al tempo in cui si protrae l’intenzione di far vivere gli spettacoli. Due tempi: il tempo della creazione e il tempo della vita dello spettacolo. Io faccio un teatro di repertorio, quindi quando nascono i miei spettacoli mi auguro che vivano per almeno dieci anni e così in alcuni casi è stato. Questo cosa significa? Che nel corso di dieci anni i corpi degli attori che li fanno cambiano, quindi non è soltanto un cambiamento legato alla creazione di quello spettacolo ma anche alla vita, al processo di invecchiamento di quello spettacolo, perché il corpo in quel tempo invecchia, quindi la qualità del movimento cambia. Non dico che peggiora, anzi a volte si affina, si mette a punto, diventa ancora più incisiva. Sicuramente quando io lavoro con i miei attori chiedo sempre loro un grande sforzo, legato proprio alla ricerca di un gesto non naturale, che però deve diventare naturale. Questo è molto difficile, forse li mette in una condizione di ‘prigione’ del corpo: sicuramente per arrivare a questa naturalezza è necessario stare dentro dei paletti, dentro un recinto. Però poi, dopo, risulta ‘liberatorio’, quindi alla fine del processo di creazione loro sono liberi. Eppure non lo sono stati durante la creazione, durante la genesi.

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Oggetto d’indagine del recente studio di Michele Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, pubblicato a luglio 2017 per Quodlibet, è, come suggerito dal titolo, il meraviglioso quanto misterioso affresco palermitano, che, eseguito intorno alla metà del XV secolo da due pittori tutt’ora sconosciuti per il cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo in Palazzo Sclafani, si trova oggi conservato presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.

Ciò che propone Cometa in questa sede, mettendo da parte i già consolidati strumenti di ricerca degli storici dell’arte, è un nuovo approccio di analisi all’opera che affonda le sue radici sia nei paradigmi della cultura visuale contemporanea, sia nelle considerazioni proprie della storia dei concetti teorizzata da Koselleck. L’autore così, invece di «dissezionare in brandelli» l’opera, preferisce porsi in ascolto della polifonia di voci e di sguardi che la compongono, con l’obbiettivo di connettere queste varie tessere visive e ricercarne l’armonia di fondo, la quale, costruita su una fitta trama di relazioni, a saperla guardare, prenderebbe la forma di un vero e proprio intreccio narrativo. Il racconto, interamente affidato al muto dialogo messo in scena tra i personaggi e tra questi e lo spazio che li ospita, si srotola come in una giostra in curve ed ellissi, illustrando gli atteggiamenti e le sfumature dell’animo umano, Stimmungen come le definisce Cometa, che si manifestano al sopraggiungere della morte. È proprio la necessità di questa storia l’unico antidoto che rimane all’uomo contro la dissoluzione della vita.

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