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Lo spazio delle Scuderie del Quirinale è aperto da una vasta scalinata a chiocciola che dal piano di accesso si solleva fino al livello superiore, dove inizia la prima delle due grandi gallerie. Per inoltrarsi nel percorso al visitatore resta da attraversare uno spazio di raccordo, prima stazione della mostra Favoloso Calvino (13 ottobre 2023 - 4 febbraio 2024, Roma, Scuderie del Quirinale) che si affaccia sulla pendenza delle scale. Con il disegno di una spirale e una stanza-balcone sopra le linee spezzate dei gradini, l’ingresso all’antica rimessa delle carrozze papali somiglia molto alla forma del mondo secondo Italo Calvino. Una corrispondenza affidata alla voce dell’autore in una sequenza di citazioni estratte dal testo Dall’opaco e proiettate sulla parete al termine della scalinata, come istruzioni implicite per guadare tutto quello che segue.

La mostra racconta l’impronta visiva del mondo nel pensiero e nella scrittura di Calvino attraverso un reticolo di immagini, oggetti e parole sospese sulle griglie di legno che forniscono il supporto verticale dell’esposizione. Queste impalcature ‘aeree’ determinano l’impatto visuale dell’allestimento formando un dedalo di scacchiere trasparenti capaci di filtrare lo sguardo di chi avanza sulle sale, in un continuo omogeneo ma fatto di moduli e strutture a vista.

Il percorso procede per undici serie che seguono sottotraccia, ma tutte ugualmente e ordinatamente rappresentate, le fasi della biografia intellettuale di Calvino, esplicitando i punti di snodo di un ritratto completo: il grande ritratto d’autore nel suo centenario. Prima indicazione di metodo e di lettura è la presenza di coppie di valori opposti nelle sezioni che si articolano fra «lo spazio fisico dei campi» e «lo spazio immaginario» del cinema e della letteratura (2. Natura vs artificio), fra 5. Il reale e il fantastico, fra il remoto/immenso e il vicino/piccolo (7. Tutto il cosmo, qui e ora). Altre sezioni sono dichiaratamente tematiche (3. La guerra, la politica; 4. Ritratti di Calvino; 10. Viaggi e descrizioni) o anticipano nel titolo la centralità di un’opera: 6. «Le fiabe sono vere»; 8. Mescolando le carte; 9. L’atlante delle città (in)visibili. Aprono e chiudono l’esposizione due emblemi dell’immaginario di Calvino, 1. L’albero e 11. Cominciare e ricominciare, che esprimono matrici profonde dello stile e dell’impegno intellettuale dell’autore. Le didascalie e i pannelli firmati da Mario Barenghi punteggiano il viaggio dello spettatore/lettore disegnando ora linee invisibili fra le diverse pareti della mostra, ora immersioni nelle radici più o meno esplorate della scrittura calviniana. Ogni volta che il curatore commenta una forma, un’opera, un’immagine sta descrivendo le pagine dell’autore: «un albero è prima di tutto una forma dello spazio. Dunque un emblema dal duplice valore: da una parte lo slancio verso l’alto, verso una sommità propizia all’estensione dello sguardo […], dall’altro il dispiegarsi delle fronde, la ramificazione, cioè il diramarsi di connessioni, sviluppi».

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Non c’è nel Novecento italiano scrittore per cui il rapporto parola e immagine abbia un’evidenza maggiore di quella che attraversa l’intera, multiforme opera di Italo Calvino, dalle atmosfere fiabesche ai giochi combinatori di suggestione postmoderna. Del resto, egli stesso nell’intervento delle Sei lezioni americane dedicato alla ‘Visibilità’ postula con chiarezza tale legame distinguendo due processi immaginativi, l’uno che parte delle parole e approda alle immagini visive, l’altro che, all’opposto, scaturisce dall’immagine visiva e giunge all’espressione verbale, in un continuo, reciproco scambio. E nel definirsi figlio della ‘civiltà delle immagini’ egli precisa come per la sua epoca fondamentali siano state le illustrazioni di riviste e i volumi per l’infanzia.

Ecco perché a Genova le celebrazioni in occasione del centenario della nascita dello scrittore nato a Cuba il 15 ottobre 1923, ma di fatto sanremese, hanno puntato sulla mostra Calvino Cantafavole, allestita fra gli spazi della Loggia degli Abati di Palazzo Ducale e Casa Luzzati fino al prossimo 7 aprile. Il percorso espositivo, curato da Eloisa Morra, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Toronto e Luca Scarlini, saggista, drammaturgo e studioso di Letterature comparate, ripercorre con esito felice l’immaginario calviniano nelle sue diverse declinazioni nell’intero arco della sua produzione, ricostruendo un rapporto che con il tempo si arricchisce di suggestioni molteplici e di una contaminazione di linguaggi (in una sorta di postmodernismo in taluni momenti ante litteram) ampiamente restituita dai documenti in mostra, frutto di una selezione guidata dall’intento di restituire a quel legame la centralità occupata nella produzione e nella vita dello scrittore.

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Se i rapporti tra i nostri scrittori del Novecento e l’arte cinematografica, così densi, sono stati declinati soprattutto a colpi di soggetti (anche preterintenzionali) e sceneggiature per il grande schermo, le relazioni che col cinema intrattiene il centenario Calvino occupano un posto particolare – in quanto prevalentemente nutrite da recensioni, riflessi sull’immaginario privato nonché strategie narrative che risentono, volenti o nolenti (come per tutti gli autori del nostro secondo Novecento), della concorrenza della settima arte (viene subito in mente, in proposito, l’incipit del Sentiero, e dunque le prime parole in assoluto dello scrittore editato: «Per arrivare fino in fondo al vicolo, i raggi del sole devono scendere diritti […] giù per le finestre messe qua e là in disordine sui muri…»).

Si tratta di aspetti in verità già toccati e criticamente sviluppati in occasione di un ormai lontano convegno di studi (San Giovanni Valdarno, 1987) poi confluito nel relativo volume di atti L’avventura di uno spettatore. Italo Calvino e il cinema, a cura di Lorenzo Pellizzari, 1990; e più tardi anche dalla monografia di Vito Santoro, Calvino e il cinema del 2012 (in mezzo lo studio di Maria Rizzarelli, Sguardi dall’opaco: saggi su Calvino e la visibilità del 2008, che ha però un raggio d’azione più ampio, nel senso che indaga un modo di vedere e relazionarsi con le cose, da parte dello scrittore, che ha a che fare anche con la pittura e con la fotografia). Davide Maria Zazzini aggiorna dunque, in concomitanza con l’uscita di nuovi studi e documenti che riguardano l’autore (monografie, omaggi, ricordi), una bibliografia già consistente, ripercorrendo in dettaglio un rapporto a quanto pare intenso e duraturo al quale sono da ricondurre anche alcune tematizzazioni narrative (nella Speculazione, in Marcovaldo) e più d’una trasposizione intermediale (per la televisione o per il cinema). E lo fa rivelando da una parte una profonda conoscenza della storia del cinema, delle sue tecniche, dall’altra una minuta coscienza dell’opera (così vasta) calviniana.

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Così scrive lo storico tedesco Karl Schlögel in un paragrafo del suo libro Leggere il tempo nello spazio (Il selciato del marciapiede. Superfici, geroglifici). L’estratto citato propone un particolare esercizio di lettura topografica rivolto a quello spazio anonimo e di transito che sono i marciapiedi cittadini, considerati come indicatori affidabili dello stato delle stesse, ma applicabile a tutti gli elementi che compongono il paesaggio urbano in quanto «geroglifici della cultura umana» (ivi, p. 113). Il discorso di Schlögel ricorda sotto più aspetti una idea di città che Calvino esprime diffusamente nei suoi testi, sia in alcune delle Città invisibili (soprattutto nelle due rubriche dedicate ai segni e alla memoria), sia nella bellissima raccolta Collezione di sabbia (1984), le cui pagine – come sostiene Pier Vincenzo Mengaldo nella postfazione – «sono insieme prosecuzione e commento ottimale della summa narrativa sull’argomento» (Mengaldo 1984, p. 282), Le città invisibili, appunto.

Diomira, Isidora, Zaira, Zora e Maurilia sono le cinque città della memoria, ognuna di esse identifica un aspetto della relazione tra le due componenti: Zaira rappresenta la città come luogo di interpretazione, palinsesto mnemonico, spazio scritto in un alfabeto di gesti, avvenimenti, ricordi di ‘vite minuscole’ e di uomini illustri, impressi nelle cose.

Calvino, in un saggio intitolato La città scritta: epigrafi e graffiti (1980), riflettendo a partire da uno studio di Armando Petrucci (La scrittura fra ideologia e rappresentazione) ma distanziandosi dalle posizioni del paleografo, giudica negativamente la pratica di scrivere sui muri:

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In uno dei più noti e folgoranti dialoghi di cornice che conclude il capitolo VIII delle Città invisibili Marco Polo e Kublai Kan scoprono le carte e offrono al lettore una delle immagini con le quali è possibile visualizzare la macchina narrativa che si nasconde dietro il complesso edificio diegetico costruito da Italo Calvino per il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX). L’opera si offre a chi voglia intenderla per quel che è: una mirabolante scacchiera, nella quale, da singoli tasselli di legno piallato, Polo, con l’aiuto dell’imperatore-ascoltatore, riesce a far scaturire mondi, o meglio città incantate e intriganti. La fabulazione e la forza immaginifica della letteratura forniscono materiali inesauribili al viaggiatore-scrittore che da singole tessere apparentemente insignificanti sa lasciarsi ispirare. La complessa struttura entro la quale Calvino imbriglia tale forza immaginifica non è diversa dalla scacchiera di cui parlano Polo e il Kan: ogni tassello corrisponde allo spazio bianco e nero che le 55 città invisibili colmano, trasformando in parole e immagini quello che solo in apparenza era un vuoto.

Se è innegabile la straordinaria ‘visionarietà’ dell’opera che Calvino concepisce già alla fine del 1970 e che porta a termine nel novembre del 1972, le Città invisibili sono tuttavia sfuggenti per chi voglia trasformare le descrizioni, le immagini mentali evocate da Marco Polo, in immagini reali. In tal senso l’opera di Calvino rappresenta una vera e propria sfida per gli artisti che con essa hanno provato a confrontarsi: la loro natura ecfrastica e al contempo «esplosa», «discontinua» (Belpoliti 2005, p. 45) le rende oggetti di difficile ‘visibilità’, ma di grande fascino iconico. Se, come è stato messo in evidenza, «sono città da leggere, non da guardare» (ibidem), è altrettanto vero che nei cinquant’anni che ci separano dalla loro pubblicazione non sono mancati artisti che hanno provato a rendere visibili le Città invisibili.

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1. L’opera di Calvino è sempre stata caratterizzata dallo sguardo sugli ambienti e sui paesaggi, osservati non solo dal punto di vista dei personaggi umani ma anche attraverso gli occhi delle altre creature. Queste sono spesso al centro della narrazione: possono rappresentarne il motivo centrale (come nella Formica argentina); oppure assumere la funzione di punctum nella storia (come il camoscio che osserva gli uomini e la natura nel finale di Mai nessuno degli uomini lo seppe, 1950), se non proprio di protagonisti o deuteragonisti (dall’ibrido proteiforme Qwfwq delle Cosmicomiche ai vari personaggi del ‘bestiario’ di Palomar, come il geco o il gorilla albino). È proprio in Palomar che viene illustrata la ragione fondamentale dell’interesse calviniano nei confronti del mondo animale: «per il signor Palomar […] la discrepanza tra il comportamento umano e il resto dell’universo è sempre stata fonte d’angoscia. Il fischio uguale dell’uomo e del merlo ecco gli appare come un ponte gettato sull’abisso» (Calvino 1994, p. 895). Non è un caso perciò che Calvino sia, con molta probabilità, lo scrittore italiano più studiato e interpretato alla luce dell’ecologia letteraria; il rapporto tra l’umano e la storia in relazione all’ambiente e alla natura è infatti un elemento strutturale costante e centrale nell’invenzione e nella riflessione calviniane (mi limito a citare, per l’attinenza con il tema di Teodora, Iovino 2023; per un inquadramento generale, mi permetto di rimandare a Scaffai 2017 e 2023).

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In quella «mappa assurda» di città della morte, in cui ogni descrizione rispetta l’«esattezza dura e vitrea dei colori dello stemma e del disegno dello stemma» (Manganelli 2002, p. 105), Eusapia ha esercitato una fascinazione iconografica piuttosto specifica e orientata. L’immaginario degli artisti si è concentrato soprattutto sulla corrispondenza straniante tra la città dei vivi e la città dei morti, una «copia identica» costruita dagli abitanti di Eusapia per rendere il trapasso «meno brusco» (CI, p. 452). Qui i morti vengono trasportati sottoterra per proseguire le solite occupazioni, domestiche e professionali. Tuttavia, non è raro che i defunti reclamino «un destino diverso» da quello sperimentato in vita, istituendo una società fatta di soli mestieri eccezionali, dalle duchesse ai cacciatori di leoni (ibidem). Sia in termini mimetici che in forme trasformative, tra le due Eusapie si stabilisce subito un rapporto di mutuo contagio: la «confraternita di incappucciati» che si occupa dei cadaveri racconta che i morti «apportano innovazioni alla loro città» rendendola irriconoscibile, mentre «i vivi, per non essere da meno» revisionano drasticamente la città superiore. Nel finale, il narratore è attraversato dal dubbio che sia stata proprio la metropoli dei morti ad aver fondato «l’Eusapia di sopra a somiglianza della loro città», rendendo la capitale diurna un modellino infernale, un panopticon luminoso dell’aldilà. Il risultato, comunque, è un’inquietante reversibilità tra i due mondi, al punto che, secondo alcuni, nelle «città gemelle» non ci sarebbe più modo di «sapere quali sono i vivi e quali i morti» (CI, p. 453).

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La città di Moriana è collocata all’inizio del capitolo VII delle Città invisibili ed è identificata come la n. 5 della serie ‘Le città e gli occhi’. È la città bifronte senza spessore che «consiste solo in un dritto e in un rovescio, come un foglio di carta, con una figura di qua e una di là, che non possono staccarsi né guardarsi» (CI, p. 449). Di conseguenza: da un lato, la città limpida e acquatica «con le porte d’alabastro trasparenti alla luce del sole, le colonne di corallo che sostengono i frontoni incrostati di serpentina, le ville tutte di vetro come acquari dove nuotano le ombre delle danzatrici dalle squame argentate sotto i lampadari a forma di medusa»; dall’altro lato, la città di detriti e spazzatura, «una distesa di lamiera arrugginita, tela di sacco, assi irte di chiodi, tubi neri di fuliggine, mucchi di barattoli, muri ciechi con scritte stinte, telai di sedie spagliate, corde buone solo per impiccarsi a un trave marcio» (ibidem). Il viaggiatore farà inevitabilmente esperienza dei due volti di Moriana, perché essi sono inseparabili come le due facce delle carte dei tarocchi: il dritto geometrico e cristallino implica anche il rovescio caotico e desolato. In questo capitolo, Marco Polo e Kublai Kan discutono in particolare della forza dell’immaginazione e si chiedono se quello che vedono sia reale oppure sia una proiezione della loro mente (ammette Polo: «Forse questo giardino esiste solo nell’ombra delle nostre palpebre abbassate», CI, p. 447). Così, Kublai mette in dubbio non solo che Polo abbia davvero visitato le città che descrive, ma addirittura l’esistenza stessa dei due uomini che dialogano affermando che potrebbe trattarsi solo di «due straccioni soprannominati Kublai Kan e Marco Polo» (ibidem).

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Il nocciolo del mondo è vuoto, il principio di ciò che si muove nell’universo è lo spazio del niente, attorno all’assenza si costruisce ciò che c’è. (Calvino 1992, p. 589)

 

 

Per i lettori di Calvino non è insolito confrontarsi con dei testi che sono il risultato di una sfida. Infatti, se l’autore ligure ha spesso ammesso che la genesi delle sue opere è puramente visiva, ossia dipende da un’immagine da cui prende forma la scrittura (‘Postfazione ai Nostri antenati [Nota 1960]’, Calvino 1991, p. 1210), avrebbe dovuto confessare che sullo stesso piano stanno anche delle contraintes autoimposte. La creatività calviniana, sin dagli anni Quaranta, sembra doversi confrontare con ingaggi impossibili per riuscire a esprimere pienamente. La prospettiva o la voce scelti per un romanzo o un racconto divengono l’unica via per esprimersi sin dal suo esordio con il Sentiero dei nidi di ragno (‘Prefazione 1964’, Calvino 1991, p. 1191).

All’interno di una pratica creativa che diviene col tempo ben rodata, la sfida con sé stesso si realizza spesso intorno all’immagine di città e diviene poi nello scorrere dei decenni una sorta di abitudine (Serra 2006, pp. 320-23), che sfocerà nel capolavoro che Calvino scrive tra il 1970 e il novembre del 1972 (Calvino 1992, pp. 1359): il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX).

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