In uno dei più noti e folgoranti dialoghi di cornice che conclude il capitolo VIII delle Città invisibili Marco Polo e Kublai Kan scoprono le carte e offrono al lettore una delle immagini con le quali è possibile visualizzare la macchina narrativa che si nasconde dietro il complesso edificio diegetico costruito da Italo Calvino per il suo «poema d’amore alle città» (Calvino 1993, p. IX). L’opera si offre a chi voglia intenderla per quel che è: una mirabolante scacchiera, nella quale, da singoli tasselli di legno piallato, Polo, con l’aiuto dell’imperatore-ascoltatore, riesce a far scaturire mondi, o meglio città incantate e intriganti. La fabulazione e la forza immaginifica della letteratura forniscono materiali inesauribili al viaggiatore-scrittore che da singole tessere apparentemente insignificanti sa lasciarsi ispirare. La complessa struttura entro la quale Calvino imbriglia tale forza immaginifica non è diversa dalla scacchiera di cui parlano Polo e il Kan: ogni tassello corrisponde allo spazio bianco e nero che le 55 città invisibili colmano, trasformando in parole e immagini quello che solo in apparenza era un vuoto.

Se è innegabile la straordinaria ‘visionarietà’ dell’opera che Calvino concepisce già alla fine del 1970 e che porta a termine nel novembre del 1972, le Città invisibili sono tuttavia sfuggenti per chi voglia trasformare le descrizioni, le immagini mentali evocate da Marco Polo, in immagini reali. In tal senso l’opera di Calvino rappresenta una vera e propria sfida per gli artisti che con essa hanno provato a confrontarsi: la loro natura ecfrastica e al contempo «esplosa», «discontinua» (Belpoliti 2005, p. 45) le rende oggetti di difficile ‘visibilità’, ma di grande fascino iconico. Se, come è stato messo in evidenza, «sono città da leggere, non da guardare» (ibidem), è altrettanto vero che nei cinquant’anni che ci separano dalla loro pubblicazione non sono mancati artisti che hanno provato a rendere visibili le Città invisibili.

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Il volume di Riccardo Donati (Quodlibet, 2022) innesca un’interessante riflessione già a partire dal sottotitolo, appunto Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici. La suggestiva epitome invita il lettore a porsi alcune domande sulla concretezza e la materialità dei media. Da una parte abbiamo la corporeità della parola, dall’altra la presenza fantasmatica di alcune emanazioni cinematografiche. Ci si muove dunque in un continuum il cui centro è occupato dall’immaginario[1] e alle cui estremità si trovano rispettivamente la parola poetica e il cinema. Siamo quindi di fronte a due materialità messe in comunicazione da un diaframma immateriale, in un circuito dialogico così strutturato: materialità dell’immagine-in-movimento – immaginario spettrale – materialità testuale. Gli spettri si staccano dal corpo del cinema e formano un immaginario che è il diretto responsabile di precise «referenze» o «trasposizioni intermediali».[2] ‘Intermedialità’ qui intesa quindi come continua permeabilità tra la concretezza del cinema e quella parola, filtrata però attraverso un preciso immaginario e realizzata il più delle volte per mezzo di una particolare forma di traduzione intersemiotica: l’ekphrasis. In definitiva, si va dal materiale al materiale, transitando per l’incorporeo. Dal medium cinema al medium poesia, passando per il dispositivo dell’immaginario.

Al di là, comunque, di questa suggestione, il testo di Donati è tutt’altro che astratto e si fonda su connessioni tangibilissime tra la poesia italiana del Novecento e alcune figure iconiche della storia del cinema. Queste ultime assurte ad autentiche ‘emozioni mediali cinematografiche’ nello stesso momento in cui – alludendo alla «componente puramente visiva, intuitiva dell’immagine filmica e insieme a quella mentale» (p. 8) – si sono fatte responsabili di una «soddisfazione immaginaria dei desideri inconsci», di un «divertimento» ambivalente, «di una credenza condivisa» (p. 8).

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Nelle opere di Maria Rosa Cutrufelli (Messina 1946-), la ricerca d'archivio è profondamente connessa con il desiderio di ricostruire la memoria individuale e collettiva delle donne. Maria Giudice (2022) rappresenta un’ulteriore evoluzione nella prassi narrativa della scrittrice e saggista siciliana, perché unisce la volontà di plasmare la memoria privata della sua amicizia con Goliarda Sapienza con la necessità di assicurare una biografia letteraria organica e approfondita di Maria Giudice. Quest’ultima è stata finora conosciuta nel discorso pubblico come ‘semplicemente’ madre della stessa Goliarda. Per dare sostanza al suo progetto, Cutrufelli ‘dialoga’ direttamente con alcuni ritratti fotografici di Giudice, creando così un racconto fototestuale che sfida una ricostruzione esclusivamente verbale delle fonti storiografiche esistenti su questa importante socialista e pensatrice italiana. Ciò che Cutrufelli realizza con il suo testo è sia una narrazione affettiva, sia una ricostruzione storica accurata e appassionata. Soprattutto, l’immagine letteraria di Giudice, tradotta con parole e immagini (graficamente incluse o evocate attraverso processi ecfrastici), contiene il desiderio di integrare – seppur in maniera inevitabilmente imperfetta – un progetto-fantasma, mai portato a termine dall’amica Goliarda Sapienza, ovvero il romanzo L’amore sotto il fascismo, dedicato ai genitori di quest’ultima.

In the works of Maria Rosa Cutrufelli (Messina 1946-), archive research is deeply connected with the desire to reconstruct the individual and collective memory of women. Maria Giudice (2022) represents a further evolution in the narrative practice of the Sicilian writer and essayist, because it combines the wish to shape the private memory of her friendship with Goliarda Sapienza with the need to ensure an organic and thorough literary biography of Maria Giudice. So far, the latter has been known in the public discourse as “merely” the mother of the same Goliarda. In order to give substance to her project, Cutrufelli directly interacts with some photographic portraits of Giudice, thus creating a photo-textual narrative that challenges an exclusively verbal reconstruction of the existing historiographic sources on this important Italian Socialist and thinker. What Cutrufelli achieves with her text is both an affective narrative, as well as an accurate and passionate historical reconstruction. Above all, the literary image of Giudice, which is being translated by words and images (graphically included or evoked with ekphrasis), contains the desire to integrate – though in an inevitably imperfect manner – a ghost-project, which was never completed by her friend Goliarda Sapienza, i.e. the novel Love under Fascism, dedicated to the latter’s parents.

 

 

1. Il corpo della madre, la voce della figlia

 

Le persone che amai e mi videro stanno andando via, e io non ho nessuna intenzione di vivere senza la mia storia. I nostri morti sono i testimoni di quello che vivemmo…E si può continuare a vivere senza la propria storia? Forse, ma è orribile; gli amici sono i testimoni del nostro essere vivi, ci videro vivere creando lo specchio delle nostre azioni.

Goliarda Sapienza, La mia parte di gioia. Taccuini 1989-1992

 

 

Le personagge di Maria Rosa Cutrufelli trovano spesso un radicamento tra le carte di archivi polverosi o sulle targhe memoriali scovate per caso e semi-dimenticate in qualche città di provincia. La sua ultima opera, intitolata Maria Giudice (2022), affronta un processo per molti versi contrario alla consueta pratica di scavo e rilegittimazione di figure femminili ben presente sin dall’esordio, con il romanzo di ambientazione risorgimentale La briganta (1990).

La ricostruzione narrativa della vita di Giudice presenta un movimento se possibile ancora più scandito da un’urgenza personale, ben innestata nel femminismo delle relazioni che contraddistingue Cutrufelli, i cui romanzi e racconti inscenano spesso rapporti di affinità e di alleanze tra donne, con l’effetto di sfaldare e aggiungere complessità alle certezze identitarie di ciascuna. Con Maria Giudice il punto di vista è quanto mai intimo e nutrito dell’esperienza personale dell’autrice: se al centro del racconto vi è una figura ben radicata nella storia del socialismo e delle lotte dei lavoratori in Italia – dunque un avvio autentico, verificabile dalle carte e dalle biografie storiche consultate – la vita della protagonista si concretizza e si riscatta anche a partire da più di un precedente letterario, intrecciandosi con il percorso stesso della narratrice che ne ricostruisce il filo.

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Non se ne avrà a male, spero, Francesco Muzzioli, se per iniziare prendo a prestito e a pretesto un passaggio da una sua recente recensione – ‘Il Sanguineti illustrato’, apparsa il 24 febbraio sul blog Critica integrale – per la precisione il luogo dove, dopo aver regalato ai commentatori futuri di Sanguineti un’informazione privata («Commentatori futuri, appuntatevelo: vi potrebbe servire»), aggiunge: «Neanche tanto futuri; perché di commentatori giovani del Sanguineti ce ne sono già vari, per fortuna. E tra essi Chiara Portesine». Rilancio: Portesine non è il futuro, bensì il solido presente. È già il presente perché con il suo lavoro prezioso sugli archivi, che l’ha condotta alla pubblicazione in due volumi delle Poesie edite e inedite di Corrado Costa (Argolibri, 2021) e di un saggio rivoluzionario sul rapporto – davvero una forma emblematica di angoscia dell’influenza – tra i massimi poeti italiani del secondo Novecento (‘Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto: storia di un tributo intermittente’, Italianistica, 1, 2018, pp. 257-282), poi arricchito e approfondito nel recente numero monografico del verri su Zanzotto (‘«Una febbriciattola di lieve paranoia». Varianti “novissime” nella Beltà’, il verri, 77, 2021, pp. 105-117), senza dimenticare un affondo interessante su Emilio Villa (‘«Tarocchi» o «variazioni»? La collaborazione tra Emilio Villa e Corrado Cagli’, Letteratura & Arte, 15, 2017, pp. 189-200), e l’imminente prefazione alla sospiratissima ristampa – la prima dopo la princeps del 1964 – de L’oblò di Adriano Spatola, Portesine ha donato al panorama degli studi sulla poesia della nuova avanguardia e dintorni una gran quantità di nuovo inestimabile materiale e insieme un approccio rigoroso, che sposa con naturalezza il filologico con l’ermeneutico, sebbene di solito si tratti di fratelli nemici o di separati in casa.

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Nel grande – e sempre più frequentato – tavolo da gioco degli studi sulle relazioni tra letteratura e arti visive, una casella sembra fino a oggi esser rimasta ignorata, quantomeno entro gli orizzonti italiani: quella del personaggio artista. Se infatti all’estero – e si pensi almeno a Marcuse (Il “romanzo dell’artista” nella letteratura tedesca [1922], Einaudi 1985), a Beebe (Ivory Towers and Sacred Founts, New York University Press 1964) e a Paillard (Le roman du peintre, Presses Universitaires Blaise Pascal 2008) – esiste una tradizione di studi che ha analizzato le forme della rappresentazione dell’artista nel romanzo contemporaneo, con un’attenzione rivolta ora alla dimensione estetico-figurale, ora a quella storico-sociale, in Italia sono stati pochi, e spesso maldestri, i tentativi di organizzare in maniera coerente un percorso critico intorno a questa figura dell’immaginario culturale (si pensi alla poco perspicua tassonomia per generi romanzeschi e all’approccio prevalentemente descrittivo offerto da J. Spaccini in Sotto la protezione di Artemide Diana, Rubbettino 2009). Arriva quindi più che opportuno il recentissimo saggio di Filippo Milani, Il pittore come personaggio. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea (Carocci 2020).

Milani, che da anni si occupa di autori la cui scrittura è dotata di una speciale dimensione visiva (su tutti Gianni Celati e Giuseppe Raimondi, ma si dovrà ricordare anche l’importante lavoro dedicato a Francesco Arcangeli, Le forme della luce. Francesco Arcangeli e le scritture di “tramando”, Bononia University Press 2018), muove il suo studio da una considerazione: il personaggio pittore è una figura che, nonostante la recente perdita di una riconoscibile funzione sociale dell’arte (e in particolare della pittura) nell’epoca contemporanea, continua a rivestire un ruolo significativo nell’immaginario collettivo, come testimoniano le tante narrazioni che vi fanno ricorso. E lo studio di queste narrazioni consente di sciogliere un simile paradosso, partendo dal riconoscimento del fatto che il personaggio pittore «riunisce in sé diverse funzioni» (p. 9) e si fa cardine quindi della dimensione intermediale del racconto. Innanzitutto, infatti, la presenza di questo personaggio comporta, per lo scrittore, la sfida a dare rappresentazione al ‘sentire superiore’ che si attribuisce comunemente all’artista, ovvero a riprodurre la sua «acuta sensibilità ottico-manuale attraverso un’accurata sensibilità linguistica» (p. 16). È per questo che Milani assegna un’indiscutibile centralità all’ekphrasis nella sua trattazione, poiché costituisce la strategia decisiva per restituire sulla pagina lo sguardo del pittore. Beninteso, non si tratta dell’unico approccio possibile, giacché il personaggio pittore attiva, ad esempio, anche meccanismi di intreccio ricorrenti (script e frames che gli sono statutariamente connessi), che possono rilevare la capacità di chi scrive di distaccarsi o meno da una sorta di ‘leggenda dell’artista’. Tuttavia, quel che interessa Milani è proprio riconoscere le ‘implicazioni’ visive che la presenza di questo personaggio determina nel racconto, al fine di comprendere come le narrazioni abbiano provato a rispondere al cambio di paradigma ermeneutico che ha coinvolto la testualità e il linguaggio iconico nel corso del secondo Novecento.

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L’uovo che compare nella copertina de Il dono di Antonia, l’ultimo romanzo di Alessandra Sarchi, si rivela sin da subito il leitmotiv verbovisivo che percorre l’intera trama del racconto, dalla soglia paratestuale che rappresenta l’opera di Adelaide Cioni (Ab ovo. White egg, 2020) e mostra in epigrafe i versi di Anne Michaels, Fontanelle, alle tante occorrenze del lemma legato a doppio filo al motivo della maternità e della generazione che costituisce il fulcro attorno a cui ruota tutta la storia.

Antonia, la protagonista, vive con la sua famiglia in campagna, in una casa poco lontano da Bologna, dove si dedica all’allevamento di capre, mucche e galline; «circondata di totem di maternità» si trova a fare i conti con il suo essere madre di Anna, la figlia adolescente e anoressica che prova a prendere le distanze da lei, e di Jessie, il quale vorrebbe conoscerla ed è figlio di Myrtha, un’amica conosciuta a Los Angeles quando era ancora studente, a cui ha donato un uovo e la possibilità di essere madre. Le forze di segno opposto esercitate dalle due creature generate da una parte del suo corpo, una che cerca di staccarsi, l’altro che prova ad avvicinarsi, la inducono a interrogarsi sul senso della maternità riallacciando i fili con il suo passato, ricominciando ab ovo appunto, cioè tornando non soltanto al punto in cui ha deciso di dare la vita ad Anna e una possibilità di esistere a Jessie, ma ripensando anche alla sua storia di figlia. Il grumo di gioie e sofferenza, responsabilità e paura, di forza e debolezza, di potere e fragilità, di libertà e vincoli che si dipana non soltanto dall’intreccio della linea diegetica principale, ma anche dai racconti di Alice e Sara (due donne conosciute da Antonia alle riunioni del gruppo di sostegno che frequenta), rende palese come il macrotema della pro-creazione si ponga come il nodo assolutamente centrale dei rapporti umani, in tutte le sue infinite e molteplici sfaccettature. Il dono di Antonia, in realtà, è un romanzo sulla maternità non meno di quanto non sia un apologo sull’amicizia, su quelle relazioni fra donne che danno forma all’immagine di ognuna di noi. «Ho imparato, in seguito, – dice Antonia a Jessie, quando decide di incontrarlo e spiegargli il senso della sua scelta – che accade spesso a una donna di capire chi vuole essere attraverso un’altra donna». Questo è stata Myrtha per lei, questo è stata lei per Myrtha in passato; questo continuano ad essere le due nuove amiche Alice e Sara, che le regalano le loro memorie di madri e di figlie e alle quali vorrebbe parlare di Anna e di Jessie. Con l’una ha spartito un pezzo del suo corpo, con le altre desidera condividere frammenti della sua vita (Antonia sente più volte l’impulso a «confessarsi e ad ascoltare una confessione»). C’è una corrispondenza molto stretta fra la costruzione della propria immagine e il racconto del proprio passato, che afferma inevitabilmente – lo ha detto una volta per tutte Adriana Cavarero in Tu che mi guardi, tu che mi racconti – la dimensione relazionale della soggettività. Tale dimensione in questo romanzo si avvolge e si addensa attorno al tema del materno, dove corpo e racconto si accordano come due tasti di uno stesso strumento. C’è un momento dell’incontro con Jessie in cui ciò appare in modo evidente:

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Sono centoundici i volumi monografici che compongono la collana I Classici dell’arte, editi dalla casa editrice Rizzoli tra il 1966 e il 1985. Ognuno di essi reca in apertura una presentazione dell’opera e dell’artista che in molti casi reca la firma di celebri autori della nostra letteratura contemporanea. Questo contributo si pone come un primo tentativo di classificazione delle differenti modalità di approccio messe in atto da letterati e poeti alle prese con la scrittura critica: partendo dall’individuazione di tre macrocategorie testuali si è proceduto con l’analisi degli aspetti micro-stilistici (dunque retorici, sintattici e grammaticali) e contemporaneamente sono state rilevate le analogie tematiche e formali riscontrabili tra scrittore e artista trattato.

The series I Classici dell’arte is composed by one hundred and eleven monographics, published by the publishing house Rizzoli, between 1966 and 1985. Each of them opens with a presentation of the the artist and his work, that in many cases bears the signature of famous authors of our contemporary literature. This contribution is a first attempt to classify the different methods of approach implemented by writers and poets dealing with critical writing. Starting from the identification of three textual macro-categories, we procedeed with the analysis of the micro-stylistic aspects (such as rethorical, syntactic and grammatical) and at the same time we observed the thematic and formal analogies found between the writer and the artist.

 

Tra il 1966 e il 1985 la casa editrice Rizzoli pubblica nella collana I Classici dell’Arte centoundici volumi monografici dedicati ad una selezione dei nomi più importanti della pittura europea, dai prodromi del Rinascimento italiano (Duccio, Giotto, Martini) sino ad artisti quali Toulouse-Lautrec, Schiele, De Chirico.

Particolarmente felice la scelta editoriale per cui in apertura di ogni volume la presentazione dell’artista e delle opere è affidata, talvolta sì a critici d’arte di professione, ma molto spesso a firme celebri della letteratura italiana del Novecento, istituendo una sorta di parallelo tra i grandi classici delle due arti. Oltre agli esempi indagati dal presente contributo (Flaiano e Paolo Uccello, Buzzati e Bosch, Ungaretti e Vermeer, Testori e Grünewald, Morante e Beato Angelico, Volponi e Masaccio) si citino, a titolo esemplificativo, le prefazioni di Luzi su Matisse, quella di Palazzeschi su Boccioni, di Sciascia su Antonello, di Moravia sul Picasso del periodo blu e rosa e ancora di Quasimodo su Michelangelo.

Nonostante la varietà degli esiti le tipologie testuali censite appaiono classificabili entro categorie che, sebbene non riescano a rendere conto di tutte le possibilità espressive attuate ed attuabili, funzionano comunque da utili linee guida per un approccio di tipo finalmente sistematico all’argomento. Le formule saggistiche qui individuate mostrano tre modalità differenti tramite cui questi scrittori-critici hanno affrontato il fatto artistico: si va dall’adozione di generi dichiaratamente eterodossi, come la drammatizzazione e la novella fantastica (Flaiano e Buzzati), alla più tradizionale forma saggistica, connotata però in senso fortemente personale: se in alcuni casi l’autore interpreta l’artista a partire dal proprio universo poetico-simbolico ed esistenziale in qualche modo appropriandosene (Testori e Ungaretti), in altri preferisce invece porre l’accento sugli aspetti biografici e sulla contestualizzazione storico-culturale alla ricerca di possibili punti di contatto con la contemporaneità (Volponi e Morante).

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La caratteristica peculiare del processo compositivo di Giovanni Testori è lo scambio fecondo fra parole e immagini. L’esperienza di scrittore-pittore dell’intellettuale lombardo lo colloca nella categoria del ‘doppio talento’ (Doppelbegabung), elaborata nel contesto degli studi di cultura visuale. Proprio attraverso il recupero di alcuni concetti fondativi della Visual Culture, il saggio mette a fuoco la strategia intermediale di Testori, la sua capacità di superare i confini tra i linguaggi, attraverso la pratica dell’ékphrasis, e la traslazione semiotica di codici visivi nella scrittura letteraria. La novità critica introdotta dallo studio riguarda l’ipotesi e la dimostrazione, tramite specifici case studies di ambito poetico e pittorico, della triplice declinazione del ‘doppio talento’ di Testori: in quanto scrittore-pittore; in quanto autore che ha utilizzato la tecnica dell’ékphrasis in modo interpretativo, emozionale, rivelatorio; e in quanto artista verbo-visivo, le cui ‘reciproche illuminazioni’ tra arti in parola e arti in figura sono il risultato di una precisa concrescenza genetica, su cui si costituisce, di fatto, l’intero imaginary testoriano. 

The peculiar characteristic of Giovanni Testori’s compositional process is the fruitful exchange between words and images. The experience as writer-painter of Testori, places him in the category of ‘double talent’ (Doppelbegabung), developed in the context of the visual studies. Through the application of some foundational concepts of Visual Culture, the essay focuses the Testori’s intermedial strategy, his ability to cross boundaries between languages, through the practice of ékphrasis, and the semiotic translation of visual codes in literary writing. The critical novelty introduced by the essay concerns the hypothesis and the demonstration, through specifics poetic and pictorial case studies, of the triple declination of Testori’s ‘double talent’: as a writer-painter; as an author who has used the ékphrasis in an interpretative, emotional and revelatory way; and inasmuch visual-verbal artist, whose ‘reciprocal illuminations’ between arts of word and arts of figure are the result of a precise genetic concurrence, on which is founded, in fact, the whole Testori’s imaginary.

 

Cos’è, nel fondo,

l’arte

e che, parola,

viva materia,

subito colore

Giovanni Testori

 

 

1. Testori oltre i confini

La descrizione del protagonista del romanzo-poema La cattedrale (1974), scoperto alter ego dell’autore indicato nel testo semplicemente come Ê»lo Scrittoreʼ, racchiude in poche, folgoranti battute l’essenza della «doppia vocazione»[2] di Giovanni Testori.

Come lo scrittore del suo romanzo, anche il grande intellettuale di Novate fu infatti una ʻcreatura bicefalaʼ che, con la spregiudicatezza che gli era usuale, fin dalla giovinezza degli esordi percorse senza sosta zone liminali, oltrepassando i confini porosi e permeabili tra arti sorelle, ma non per questo privi di precise linee di demarcazione.

La parabola artistica di Testori si snoda nell’arco di mezzo secolo: cinquant’anni di ininterrotta attività condotta nel segno di un indissolubile intreccio degli ambiti creativi, di una vigorosa necessità di Ê»sfondamentoʼ delle barriere semiotiche, stilistiche, espressive, che convenzionalmente separano forme artistiche differenti. Il dato più evidente riguardante l’autore lombardo è senza dubbio il suo ingegno poliedrico, la sua capacità di rivolgere il proprio ardore creativo sia verso il Ê»fuocoʼ della scrittura (esplorata dal racconto al romanzo, dalla poesia alla drammaturgia, dal giornalismo alla critica d’arte) sia verso quello della pittura (scoperta da giovanissimo, intorno ai quindici anni, e praticata per tutta la vita attraverso cicli sempre nuovi: di fiori, di tramonti, di pugilatori, di crocifissioni, etc.).[3]

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Oggetto d’indagine del recente studio di Michele Cometa, Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità, pubblicato a luglio 2017 per Quodlibet, è, come suggerito dal titolo, il meraviglioso quanto misterioso affresco palermitano, che, eseguito intorno alla metà del XV secolo da due pittori tutt’ora sconosciuti per il cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo in Palazzo Sclafani, si trova oggi conservato presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.

Ciò che propone Cometa in questa sede, mettendo da parte i già consolidati strumenti di ricerca degli storici dell’arte, è un nuovo approccio di analisi all’opera che affonda le sue radici sia nei paradigmi della cultura visuale contemporanea, sia nelle considerazioni proprie della storia dei concetti teorizzata da Koselleck. L’autore così, invece di «dissezionare in brandelli» l’opera, preferisce porsi in ascolto della polifonia di voci e di sguardi che la compongono, con l’obbiettivo di connettere queste varie tessere visive e ricercarne l’armonia di fondo, la quale, costruita su una fitta trama di relazioni, a saperla guardare, prenderebbe la forma di un vero e proprio intreccio narrativo. Il racconto, interamente affidato al muto dialogo messo in scena tra i personaggi e tra questi e lo spazio che li ospita, si srotola come in una giostra in curve ed ellissi, illustrando gli atteggiamenti e le sfumature dell’animo umano, Stimmungen come le definisce Cometa, che si manifestano al sopraggiungere della morte. È proprio la necessità di questa storia l’unico antidoto che rimane all’uomo contro la dissoluzione della vita.

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