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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

II.

Francesco Targhetta, una delle voci più originali tra le ultime apparse nel panorama della poesia italiana, è un autore che intrattiene con l’immagine visiva un rapporto stretto e fecondo, come testimonia sin dal titolo il suo fortunato romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie, edito nel 2012 da Isbn. Il testo da cui prende spunto questa terza “Interferenza” è tratto da una plaquette, Le cose sono due, vincitrice nel 2014 del Premio Ciampi «Valigie rosse». La prima sezione della raccolta, intitolata Uno e composta da sedici testi, presenta una galleria di personaggi colti nella loro quotidiana ordinarietà da parte di un ‘io’ che interpella un ‘tu’ a sua volta spettatore, all’interno di una ragnatela di relazioni a distanza che non si struttura mai in dialogo ma somiglia piuttosto a un «gioco di specchi»,[2] di rifrazioni dello sguardo e del pensiero. Le relazioni umane, e sociali, che Targhetta indaga «con una fedeltà al reale e una salutare ingordigia di particolari che raramente [...] avviene nella nostra narrativa attuale»,[3] sono così interrogate alla luce del disagio psichico e comportamentale generato da una condizione esistenziale avvilente, segnata da precarietà lavorativa e affettiva, mancanza di empatia, raggelamento emotivo, ripetitivo cristallizzarsi del quotidiano in una ritualità di gesti non solo vacui ma disperatamente ansiogeni.

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Riprese audio-video: Giulio Barbagallo, Gaetano Tribulato. Montaggio: Simona Sortino, Gaetano Tribulato.

Qui di seguito la trascrizione integrale dell’intervista. Si ringrazia Alessandro Giammei per la presenza amichevole durante l’intervista. 

 

D: Siamo partiti dall’occasione specifica che ha portato oggi Antonella Anedda a Pisa, cioè la mostra Una forma di attenzione (organizzata da Silvana Vassalo presso la Galleria Passaggi di Pisa) realizzata in dialogo, come dice lo stesso titolo, con Antonella Anedda. All’interno del lavoro e delle applicazioni, molto varie, di Antonella Anedda ci è sembrato di vedere una costante, negli anni, che è la collaborazione con gli artisti, in questo caso una mostra legata in particolare alla forma del libro d’artista, ma partendo da Residenze invernali, e quindi dal rapporto con Ruggero Savinio ci è sembrato di riscontrare questo incessante dialogo con artisti visuali. Al contempo una centralità della riflessione sull’immagine e sulle arti visive nella scrittura, tanto saggistica quanto poetica, di Antonella. Partendo, appunto, dal rapporto con gli artisti la prima domanda che ci è venuta in mente è su come avvengono questi incontri e come funziona la loro dinamica, e se c’è una direzione privilegiata nello scambio tra parole e immagini.

R: L’incontro con Ruggero Savinio è stato legato a un’amicizia comune, Gianluca Manzi, che ci ha fatto conoscere. Io sono molto grata a Ruggero Savinio, perché lui era un artista affermato, io ero invece una ragazza che scriveva. Lui è stato così generoso da dedicare questa cartella d’artista ad alcuni testi di Residenze invernali. Anche gli altri sono stati dei veri e propri incontri, anche sul piano umano. Quello con Jenny Holzer è stato un po’ più mediato ma altrettanto importante: si trattava di un’artista che io ammiravo e ammiro molto. Lo stesso vale per l’incontro con Sabrina Mezzaqui, nel senso che ci siamo incontrate casualmente, perché c’era stato un convegno organizzato proprio qui, alla Scuola Normale, da Rossana Dedola sul rapporto tra parola e immagine. C’erano Ana Blandiana, una film maker Sabine Gisiger e, appunto, Sabrina Mezzaqui. Buber dice ci sono incontri e disincontri e questi sono stati degli incontri, direi, segnati da un’alleanza, da un rispetto reciproco. Probabilmente se non fossero state persone di cui stimavo il valore forse questo incontro non sarebbe avvenuto, però sono stati incontri all’insegna, come poi dev’essere per la poesia, della gratuità. Una convergenza di passioni, se posso dire così.

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6.1. Salinas e Clerici: Amor, mundo en peligro

di Alessandro Giammei

Dopo aver realizzato Frammenti di una sconfitta e Diario Bolognese di Sereni e Gentilini a metà del ’57, Riva si dedicò a lungo a questo secondo volume dei “Poeti Illustrati”. Uscito all’inizio dell’anno successivo e, al pari del precedente, «pubblicato a Milano da Vanni Scheiwiller» (come recita il colophon), Amor, mundo en peligro è il primo libro illustrato delle Editiones Dominicae a raggiungere, forse anche grazie alla natura non poi così privata della sua diffusione, un immediato prestigio internazionale. Compare infatti nel catalogo della mostra The artist and the book 1860-1960, tenutasi a Boston a fine decennio, e lo stampatore lo raccoglierà – insieme ad altri quattro tra i primissimi della serie – nella minima tiratura (sette esemplari) di Cinque poeti illustrati: una vera rarità bibliografica che celebra, nel ’64, la maturità del progetto editoriale.

Affidandosi a Fabrizio Clerici, allora già affermato pittore neo-barocco e post-metafisico, Riva sa di poter contare su un professionista dell’acquaforte e su un lettore raffinato. Appena compiuta la vetrata dedicata a Santa Caterina nella basilica senese di San Domenico e con alle spalle diversi libri illustrati realizzati con Mondadori, l’artista era, alla fine degli anni Cinquanta, in procinto di dedicarsi ad alcuni tra i maggiori cicli della sua carriera: quello del Principe per Laterza, quello, più tardo, per Il Milione introdotto da Moravia (e poi, in una riedizione, da Manganelli), e soprattutto quello monumentale per l’Orlando Furioso uscito, con un saggio di Bacchelli, in una preziosa edizione Electa ancora oggi oggetto di studio. Beniamino della società letteraria, profondamente ispirato dai classici e dagli scrittori suoi sodali, Clerici è scelto dallo stampatore veronese per la sua modernità sorniona, capace di rielaborare il Novecento maggiore senza angosce avanguardistiche. In Il mio dimestico torchio è infatti annoverato tra quegli illustratori che, nel panorama delle sue collaborazioni, «depongono tutt’altro che a favore di un tradizionalismo insensato e chiuso», nel segno di uno sperimentalismo tipografico estremamente consapevole della tradizione ma aperto a nuove soluzioni e insolite figurazioni, specie quando si tratta di sposare un’immagine a versi contemporanei.

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5. I poeti del dopo Montale

di

     

5.1. Giudici e Steffanoni: Le ore migliori

Le ore migliori. Due poesie di Giovanni Giudici e un’acquaforte firmata e numerata di Attilio Steffanoni è il terzo “Quaderno dei Poeti Illustrati” ed esce nel giugno 1967. Giudici è già il poeta de La vita in versi, il libro pubblicato nel 1965 da cui viene trascelta Le ore migliori. A seguire un inedito, L’età, come anticipazione di Autobiologia, il libro cui il poeta sta attendendo nell’anno cruciale del suo primo viaggio praghese e che uscirà nel 1969.

Più che un’illustrazione, l’acquaforte di Steffanoni (fig. 1) è un’interpretazione grafica de Le ore migliori: nella cappelluta ombra nera, divisa a tre quarti fra un disordinato interno domestico e l’esterno in cui un’utilitaria conduce al lavoro, s’indovina la figura di un uomo che è e non è lo stesso Giudici. È il poeta, quello che Mengaldo avrebbe definito «il più acuto e crudele poeta del capitalismo postbellico», ed è il suo personaggio o doppio, ovvero, per dirla con Zanzotto, quell’«uomo impiegatizio nella sua versione più tetra […], che, si nasconda nell’io nel tu o nel lui, è una caricatura del sé in quanto tipo, generalità. Un tipo […] tanto ovviamente ostile all’ordine del neocapitalismo quanto ovviamente succube dal punto di vista comportamentale». Quest’ambigua condotta sociale ha il suo esatto corrispettivo metrico nella gestione ironica delle forme istituzionali, cui è tributato l’ossequio menzognero di chi non muta le cose (siano esse i metri o la società) ma il proprio atteggiamento nei loro confronti. In questo senso si capisce perché il saggio La gestione ironica sia considerato dallo stesso Giudici «una proposta di comportamento globale».

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3.1. De Libero e Vespignani: Settembre tedesco

di Nicola Lucchi

La pubblicazione della poesia Ventidue settembre di Libero De Libero, accompagnata da un’acquaforte di Renzo Vespignani, consente a Franco Riva di affrontare tramite gli strumenti della letteratura e dell’arte una pagina tragica e complessa della recente storia italiana, l’occupazione nazista di Roma del 1943-1944. Il tema della lirica è l’assassinio di un giovane italiano, l’undicenne Claudio Bin, per mano di un soldato tedesco della Wehrmacht. Conscio della portata storica ed emotiva dell’edizione, Riva si ritira nello spazio stringato di un brevissimo colophon, privo di qualsiasi ironia, commento, o dettaglio superfluo, lasciando spazio alla voce dell’autore. In una lunga postilla è lo stesso De Libero a illustrare le circostanze che informarono la genesi della poesia e le ragioni della sua ristampa, un ammonimento affinché le tragedie di quegli anni non abbiano a ripetersi.

La lirica si discosta parzialmente dal ricorso a immagini simboliche, talora impenetrabili, che caratterizza una parte significativa della produzione poetica di De Libero. Questo allontanamento è tuttavia in linea con quel rinnovato desiderio di un diretto impegno civile maturato da artisti e intellettuali durante la seconda guerra mondiale, e spesso esplicitato nell’immediato dopoguerra. Il componimento è introdotto dall’incipit banale e burocratico del verbale con cui un agente di Pubblica Sicurezza registrò l’uccisione di Claudio Bin. Al distacco della prosa poliziesca fa seguito lo sfogo di De Libero, iperbolicamente pronto a cambiare il corso della natura per affermare il proprio dolore e l’insensatezza della morte di un giovane «ucciso col mitra perché rideva». La poesia accumula una serie di immagini poetiche piegate ora alle formule del lamento funebre, ora allo sfogo di rabbia; ora all’invettiva, ora alla consolazione della madre. Ad occupare l’intera composizione, con una presenza oppressiva e quasi fisica, è la figura minacciosa e martellante del «tedesco», una scelta lessicale impiegata per la sua doppia valenza di soggetto e aggettivo, ma in entrambi i casi sinonimo di un più prosaico assassino.

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Nata a Roma nel 1955, Antonella Anedda (Angioy) si è laureata in storia dell’arte presso l’Università La Sapienza sotto la guida di Augusto Gentili. Insieme alla passione per le discipline storico artistiche, che ha sempre segnato la sua vita, ha iniziato presto a occuparsi anche di traduttologia e ha insegnato mediazione linguistica presso la cattedra di Anglistica a Roma e poi, fino al 2006, presso l’Università di Siena. In seguito ha collaborato con l’Università della Svizzera Italiana come docente di lingua, letteratura e civiltà italiana, dove svolge ancora oggi la sua attività didattica.

Il suo esordio poetico risale al 1992 con Residenze invernali (Crocetti), al quale segue nel 1999 Notti di pace occidentale (Donzelli). Entrambe le raccolte sono state insignite di numerosi premi e hanno ricevuto un immediato successo, confermato successivamente dagli altri due libri di poesia: Il catalogo della gioia (Donzelli 2003) e Dal balcone del corpo (Mondadori 2007).

All’attività poetica Anedda ha affiancato anche quella di saggista e traduttrice. Nel 1994 è uscito per sua cura l’antologia di poesie e prose di uno tra i massimi rappresentanti della poesia francese contemporanea, Philippe Jaccottet: Appunti per una semina (Fondazione Piazzolla). E ancora di Jaccottet ha tradotto le prose de La parola Russia (Donzelli 2004), con in appendice tre poesie di Osip Mandel'ŝtam, che Anedda ha trasposto in italiano dal francese di Jaccottet. Tra le sue numerose traduzioni si segnalano ancora il volume Don’t Waste my Beauty (Caramanica Editore 2006), antologia della poetessa americana Barbara Carle; le liriche di Anna Achmatova, Il prodigio delle cose (Corriere della Sera 2012); e con Elisa Biagini e Emanuela Tandello ha curato e tradotto anche il volume della scrittrice canadese Ann Carson: Antropologia dell’acqua (Donzelli 2010).

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A colloquio con la memoria, coi ricordi di quando era ancora solo un principiante del dilettantismo, Franco Riva, lo stampatore veronese a cui è dedicata questa galleria annotò nel 1973: «volevo cose singolari, in limitatissime copie, per me e per pochi». Non molte delle private press che hanno resuscitato i torchi a mano al crepuscolo della modernità europea raggiungevano simili vette di privatezza: a confronto con quelle di Franco Riva, estraneo anche alla più selettiva idea di ‘pubblico’ o di ‘mercato’, appaiono industriali persino le edizioni della vicina stamperia Valdonega, o di quelle di Scheiwiller e di Schwarz a Milano. Intitolò l’articolo, poi raccolto nel libro più ricco dedicato alla sua arte, Stampare di domenica, rimarcando la gratuità festiva, domenicale appunto, della sua più che mai singolare vicenda artigiana, che in una ventina d’anni aveva portato nel seminterrato di casa sua – vera officina domestica, coi fogli umidi sospesi sui fili e oltre quattro quintali di ferro tra ingranaggi e caratteri – gli onori del premio Bodoni per la grafica editoriale.

Al modello di Bodoni si era votato a suo tempo Hans Mardersteig, prima ancora di diventare, proprio a Verona, Giovanni, e di fondare la leggendaria Officina intitolata al grande stampatore. Il tedesco cantato da Herman Hesse, allievo di Kurt Wolff e protagonista delle più ardite e raffinate imprese tipografiche del Novecento italiano (dall’opera omnia di D’Annunzio per Mondadori a quella di Nietzsche per la neonata Adelphi, passando per i volumi dei “Cento Amici del Libro”), è stato un maestro prezioso per il giovane Riva, che già a trent’anni comprava il primo torchio e cominciava a sperimentare le noie di una paradossale allergia agli inchiostri. Malgrado tutto, con gli entusiasti contraccolpi che agitano la carriera di ogni energico autodidatta, il filologo e bibliotecario riesce in meno di un decennio e senza alcun tipo di finanziamento o profitto a raggiungere la più importante mostra internazionale di libri d’artista. I curatori americani selezionano ed espongono a Boston, nel 1960, un suo fascicolo di appena tre fogli piegati, dodici specchi di stampa in tutto, in cui a una lirica moderna è accostata un’acquaforte realizzata appositamente da un artista italiano: si tratta di uno dei primissimi numeri della sua collana più ambiziosa, “I Poeti Illustrati”, che proseguirà fino alla sua morte articolandosi in due serie affiancate e, a partire dal 1966, da una selezione di “Quaderni”.

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"Interferenze. Poeti d'oggi e arti della visione" si propone come uno spazio di analisi dei rapporti tra visualità e verbalità nelle opere di poetesse e poeti italiani delle generazioni più recenti. Un esperimento condotto con l’immagine ‘a fronte’, attraverso un confronto diretto tra la pagina e l’opera visiva che l’ha ispirata. Costituendosi come ‘serie’ di contributi, "Interferenze" si prefigge un duplice obiettivo: sottolineare la centralità di questi temi in alcune esperienze della migliore poesia italiana contemporanea e, insieme, offrire ai lettori di «Arabeschi» un sia pur essenziale panorama delle voci che animano l’attuale scena della scrittura in versi, implicitamente evidenziandone la varietà e ricchezza di esiti e toni.

 

 

II.

La raccolta Il rovescio del dolore di Luigi Socci presenta in copertina un riferimento iconografico spassoso quanto irriverente: la caffettiera per masochisti ideata dal grafico e illustratore marsigliese Jacques Carelman, pubblicata in quel Catalogue d'objets introuvables che è uno dei volumi più rappresentativi del Surrealismo postbellico. Perché questa scelta?

È probabile che Socci, con l'amara e risentita ironia che caratterizza il suo lavoro, abbia inteso servirsi di un'immagine che sintetizza in modo esemplare una forma tra le più comuni di ‘dolore alla rovescia’: quella del masochismo, in questo caso simboleggiato da una caffettiera ustionante.[2] Cos'è in fondo il masochismo, se non una delle manifestazioni archetipiche della nostra società odierna, allucinata e ansiosa di infliggere (e infliggersi) dolore e punizione? Di più, che cos'è il teatrale e sensuale misticismo barocco, irresistibilmente affascinante per molti poeti contemporanei – penso, in particolare, all'opera di autori come Vito Bonito e Rosaria Lo Russo – se non un fenomeno di plateale godimento masochistico, che molto ha a che spartire con la narcisistica egolatria dei tempi presenti? Letto in quest'ottica, quello di Socci – tratto da una sezione de Il rovescio del dolore intitolata Berniniane – è un testo che crea, grazie al referente figurativo, un fulminante corto-circuito tra due poetiche dell'estasi per molti versi sintoniche: quella espressa da Bernini attraverso la raffigurazione della Santa barocca per eccellenza e quella messa a nudo dal poeta-performer anconetano giocando, se non sulle spinte autodistruttive, sulle neo-barocche tendenze masochistiche della contemporaneità.

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II

Abbandonati interamente alle tue ossessioni. Tanto non hai certo nulla di meglio. Le ossessioni sono relitti dʼinfanzia. Ed è proprio dalla profondità dellʼinfanzia che hanno origine i tesori maggiori.

Jan Švankmajer, Decalogo

 

Alice inseguita, Alice minacciata, Alice ‘disambientata’, come la vedeva Gianni Celati: ma, soprattutto, Alice incantata, in bilico tra sogno e realtà, bambina-bambola che parla poco, impara molto dal silenzio e posa sul mondo uno sguardo ora partecipe, ora pietrificato. Il testo sopra riprodotto, che apre la sezione Down the rabbit hole della raccolta Nel sonno di Francesca Matteoni – titolo che richiama, forse involontariamente, una delle più belle, visionarie e inquietanti tele del primo Novecento italiano: Nel sonno di Alberto Martini – trae ispirazione dai capolavori di Lewis Carroll Aliceʼs Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass, ma con una decisiva mediazione proveniente dal mondo visuale. Mi riferisco allʼinterpretazione/riscrittura che, degli Alice Books, ha dato uno dei maggiori autori del cinema contemporaneo, il regista ceco Jan Švankmajer, con il suo capolavoro Alice (Nêco z Alenky), traducibile come Qualcosa di Alice (1987).

Sprofondata nel rebus del sogno, Alice ripetutamente si stropiccia gli occhi, mentre una folla di immagini enigmatiche assedia la sua coscienza fluttuante. Gli animali «fatti dʼosso» e «con qualche lancetta fuori posto» dei primi versi ci introducono senza indugi nel mondo bizzarro e per molti versi raccapricciante che caratterizza lʼarte – non solo filmica –[2] di Švankmajer, un universo abitato da presenze inquietanti, assemblate da un cattivo demiurgo che pare essersi divertito a fondere, con macabra inventiva e una buona dose di humour noir, parti meccaniche e frammenti di scheletri, incollando occhi posticci su crani animali e mettendo le briglie a volatili impagliati.

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