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Obiettivo di questo contributo è delineare una prima mappatura delle ‘mitografie’ pasoliniane, da intendersi come scritture in prosa o in poesie incentrate sul personaggio Pier Paolo Pasolini. In particolare, mi soffermerò su quattro tipologie tematiche – il mite ignoto, il profetico parresiastes, il poeta assassinato, il potente intellettuale – che consentono di articolare l’ambivalenza di un personaggio elusivo e irrisolto.

The purpose of this paper is a first attempt at mapping Pasolini ‘mytographies’, i.e. narrative and poetic works devoted to Pier Paolo Pasolini as a character. In particular, I will dwell upon four thematic typologies – the mild unknown, the prophetic parrhesiastes, the murdered poet, and the powerful intellectual – unfolding the ambivalence of an elusive and unsolved character

 

Non voglio, per farmi bello,

fregiarmi della tua morte

come d’un fiore all’occhiello.

Giorgio Caproni

 

Susanna ha portato tre tazzine di caffè su un vassoietto di legno, l’ha posato sul tavolo e ha detto: «Beviamo, se no si raffredda. Pier Paolo è in giardino e ci raggiungerà fra poco».

Dacia Maraini

Scriveva Pierpaolo Antonello nel 2012 in Dimenticare Pasolini che «sono molti i critici che hanno sottolineato e compitato lo scadimento della figura di Pasolini a mito, a icona generazionale, a cheguevarismo all’italiana, al feticcio rappresentativo di un impegno progettuale e politico che sembra oggi mancare come il pane».[1] Al punto che «Pasolini è diventato addirittura un “personaggio”, trasfigurato»[2] in romanzi, graphic novel, pièce teatrali, film, canzoni, i cui autori sono «tutti ovviamente impegnati a investigarne soprattutto la morte, il delitto Pasolini, centro irradiante di questa mitografia».[3]

Le celebrazioni del centenario potevano comportare il rischio di un’ulteriore espansione della ‘mitologia’ pasoliniana, termine che a mio avviso meglio descrive il culto di Pier Paolo Pasolini rispetto a ‘mitografia’, più strettamente – e letteralmente – collegato, come stiamo per vedere, alla produzione di racconti – mythoi – incentrati sulla sua figura negli anni successivi alla sua morte; l’anniversario ha invece fornito l’occasione per iniziative ed eventi volti a un complessivo ripensamento sull’autore, oltre che per importanti operazioni critiche come la nuova edizione delle Lettere e di Petrolio.[4] Ecco allora che in questo rinnovato orizzonte diventa possibile sottrarre al ‘feticismo’ pasoliniano le scritture dedicate al personaggio Pasolini: nella misura in cui esse contribuiscono alla digestione culturale dell’autore[5] con la specificità di una scrittura in cui per definizione, senza che ciò si traduca automaticamente in un’irriflessa devozione, il personale si intreccia con il politico e la rappresentazione del personaggio privato con quella del personaggio pubblico. Ciò che infatti contraddistingue le mitografie pasoliniane da una produzione più eminentemente saggistica o biografica è la dichiarata adozione di una prospettiva in cui convergono memoria e finzione, oltre al pathos che nutre la variante post mortem di «quella specie di sottogenere poetico»[6] costituito dai numerosi componimenti redatti per Pasolini sin dai tempi di Una polemica in prosa di Edoardo Sanguineti (1957), passando per Lettera a Malvolio di Eugenio Montale (1971). Una simile commistione di piani discorsivi spesso approda nei territori del non fiction novel, del romanzo-saggio o di una poesia che può assumere l’aspetto di una narrazione lirica, secondo un ibridismo che non è poi così sorprendente se pensiamo al peculiare sperimentalismo di Pasolini: come se chi scrive di lui non solo si proponesse di confrontarsi con un protagonista assoluto del secondo Novecento (e oltre), ma intendesse non di meno immergere la propria scrittura nella progressiva decostruzione pasoliniana delle forme e dei generi.

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Nel volume In mare non esistono taxi (Contrasto, 2019), Roberto Saviano racconta il fenomeno migratorio che interessa il Mediterraneo attraverso un equilibrato connubio tra parole e immagini.

Apre il libro una sezione introduttiva, ‘La grande menzogna’, nella quale l’autore presenta gli obiettivi del lavoro: «Questo libro sarà testimonianza, testimonianza attraverso le parole, ma soprattutto attraverso le immagini» (p. 15). Saviano si sofferma quindi sulle cause delle migrazioni e, dati alla mano, smonta i pregiudizi e le fake news, ricostruendone anche l’origine e il processo di diffusione. Per Saviano, nell’ultimo decennio la percezione del fenomeno migratorio è stata pesantemente influenzata dalla sua rappresentazione nella narrazione politica, che ha reso i migranti vittime mute della propaganda.

A questa lunga premessa iniziale, nella quale necessariamente le parole sono più presenti rispetto alle immagini, segue la sezione centrale del libro, costituita dalle interviste ai fotogiornalisti Giulio Piscitelli, Paolo Pellegrin, Olmo Calvo, Carlos Spottorno, e a Irene Paola Martino, infermiera della nave Bourbon Argos. Le interviste sono intervallate dai testi di Saviano. Tra le pagine delle conversazioni prevalgono naturalmente gli scatti degli autori intervistati; nel resto del libro trovano invece spazio anche fotografie di altri autori, più o meno conosciuti dal grande pubblico. Inoltre, in questa sezione le immagini sono decisamente più presenti, ma non ostacolano e non interrompono mai la lettura; al contrario, la arricchiscono di dettagli anche grazie alle didascalie esplicative. Attraverso le parole e il corredo illustrativo vengono ricostruite le tappe del viaggio compiuto dai migranti dall’Africa all’Europa: l’attraversamento del deserto, l’esperienza nei centri di detenzione in Libia, il viaggio in mare e il salvataggio.

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Sogno di vendere sempre più copie, ovunque nel mondo, e sono sempre insoddisfatto, nonostante i risultati siano stati buoni perché io ho un’ambizione ben più grande – e non me ne vergogno – ben più grande di quella di piazzare un po’ di copie e di avere qualche buona recensione. Il sogno è che magari queste mie parole, condividendole, possano davvero diventare uno strumento.

Roberto Saviano

 

 

A dieci anni dalla pubblicazione di Gomorra il ‘caso’ Saviano desta ancora grande interesse anche se l’attenzione si è decisamente spostata dalle vicende biografiche e letterarie del suo autore verso la potenza espressiva della serie televisiva, capace di catalizzare un numero impressionante di spettatori e di mobilitare larghe fasce dell’opinione pubblica. Lungi dall’essersi inaridita, l’onda transmediale di questo testo-feticcio degli anni zero continua a segnare l’immaginario contemporaneo, a suggerire trame, personaggi, icone che meritano di essere ricomposte e analizzate.

Consapevoli della porosità della ‘costellazione-Gomorra’, abbiamo scelto di verificare la tenuta del romanzo guardando oltre il suo orizzonte di carta, puntando l’attenzione sui frammenti visivi che ha generato, sulle scorie che si sono depositate nel passaggio dal teatro al cinema fino all’approdo fatale nell’orbita della serialità. La scelta di ‘rimappare’ le immagini di Gomorra ci ha permesso di recuperare discorsi e approcci differenti, con un taglio per lo più comparatistico ma a partire dai metodi propri dei film e media studies, che abbiamo organizzato secondo quattro direttrici principali.

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Mi pare significativo che Repubblica, per introdurre il nuovo libro di Roberto Saviano, La paranza dei bambini, abbia parlato di «un romanzo vero, un romanzo-romanzo: con tanto di invenzione e fantasia». Quasi una forma di riconoscimento, indiretta e retrospettiva, della difficoltà a considerare Gomorra un romanzo vero e proprio, anche se molti – vedere per credere la pagina di Wikipedia – a suo tempo lo giudicarono e definirono tale. Per capire il senso di quello che nel frattempo è diventato l’universo mediatico di Gomorra, credo allora sia opportuno partire da qui, da questa domanda: qual è l’identità del libro di Saviano? A quale genere appartiene?

Fosse stato scritto negli Stati Uniti, cadrebbe nella categoria del new journalism, col quale condivide il tratto fortemente soggettivo dell’inchiesta giornalistica: il reporter non espone i fatti, al contrario li metabolizza in chiave narrativa per renderli appassionanti e, a dispetto della loro comprovata evidenza, vagamente improbabili [fig. 1]. In Gomorra la soggettività di Saviano trapela soprattutto dalla scelta di dare ai suoi reportage un tono elegiaco, di rimpianto, che corre sotto traccia lungo tutto il libro. Una vena dolente attraversa i capitoli, quasi che l’autore si rammaricasse costantemente, pur senza mai dichiararlo esplicitamente, del triste destino toccato in sorte alla sua terra. Sullo sfondo dei delitti e dei misfatti, dei crimini e degli scempi edilizi, è tangibile l’amarezza per lo sfacelo cui è andato incontro un luogo che avrebbe potuto conoscere un destino diverso («È strano come con chiunque parli, qualunque sia l’argomento, appena dici che stai per andartene via ricevi auguri, complimenti e giudizi entusiasti. “È così che si fa. Fai benissimo, lo farei anch’io”. Non devi aggiungere dettagli, specificare cosa andrai a fare. Qualunque sia il motivo, sarà migliore di quelli che troverai per continuare a vivere in queste zone»).

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L’idea che Gomorra potesse mutare dimensione e divenire forma teatrale sembrava essere parte del suo destino. Ancora non era uscito che mi si avvicinarono in due, un regista e un giovane attore, a chiedermi di poter trasformare qualsiasi cosa avessi scritto in forma teatrale. Come se avessero in mente cosa fare sin dal primo momento in cui ci eravamo incontrati. Come una sorta di necessità. Qualcosa che puoi affrontare solo assecondandolo (Saviano, 2009).

Così Saviano ricorda l’incontro con il regista Mario Gelardi e l’attore Ivan Castiglione, che di lì a qualche tempo avrebbero curato l’adattamento teatrale di Gomorra. Rimasto un po’ in ombra, rispetto al clamore suscitato dal film di Garrone e dalla serie televisiva, lo spettacolo risponde in realtà a una precisa strategia retorica, legata al potere della parola e alla pregnanza del gesto. Per cogliere fino in fondo la ‘necessità’ di tale riduzione occorre ricordare l’importanza che lo stesso autore attribuisce al teatro, considerandolo il luogo che «permette una diffusione di verità fatta di timpani e sudore, di sguardi e luci fioche» (ibidem). Lungi dall’essere un fatto meramente occasionale, il rapporto con la scena si configura subito come importante momento di verifica e di espressione di sé, come dimostreranno più avanti le incursioni in prima persona ai bordi del palco con il monologo La bellezza e l’inferno (2009) prodotto addirittura dal Piccolo Teatro per la regia di Serena Sinigallia [fig. 1].

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1. Ciò che maggiormente colpisce, ripensando al fenomeno Gomorra nelle sue varie incarnazioni, è quanto l’esito forse artisticamente più alto della ‘filiera’, il film di Matteo Garrone, sia stato alla fine quello con meno conseguenze sull’industria culturale e sull’opinione pubblica. Anzi, già il successo del film aveva preso alla sprovvista gli stessi produttori, che non si aspettavano un incasso così trionfale: 10 milioni di euro, decimo posto dei film più visti nella stagione. Da allora, nessun film italiano che non fosse una commedia ha raggiunto quelle cifre.

Colpisce soprattutto la difficoltà che la critica, italiana e straniera, ha avuto a collocare il film. Per lo più, si è insistito molto sul realismo di fondo, arrivando a parlare di ‘neo-neorealismo’, trascurando il lavoro svolto da Garrone sulla messinscena, e il suo peculiare metodo. La novità del film stava infatti anzitutto nel rifiuto della tradizione del cinema politico e di denuncia italiano, di ogni didascalismo come del frequente i metodi del poliziesco o dell'indagine ai problemi sociali.

Il successo del film si è poi proiettato sull’intera opera del regista, fino a costituire un equivoco critico. Garrone è diventato ‘il regista di Gomorra’¸ il narratore realista di un mondo degradato. L’equivoco si è proiettato sul film successivo, Reality, che dunque (pur essendo forse il capolavoro dell’autore, intreccio di allegoria e fiaba incarnato in luoghi iperrealisti) è stato ascritto a un grottesco di fondo: il critico di un quotidiano descrisse addirittura la scena iniziale come «un matrimonio di camorristi». Invece, a leggere nell'insieme la sua opera, è proprio lo sfondo sociale così determinato a costituire un’eccezione nell’opera del regista. Il quale, dopo le prime prove costituite da una narrazione più aperta, tentata dalla commedia, ha strutturato sempre più il proprio cinema a partire da un conflitto tra il copione e la regia, facendosi cantore di ossessioni radicate in un set forte, in cui echeggia la sua formazione di pittore. L’imbalsamatore, Primo amore, Reality, Il racconto dei racconti sono altrettante fiabe italiane, tendenti al gotico con qualche accenno di grottesco, e insieme costituiscono, senza alcun affondo sociologico, una forma mediata di antropologia di un paese e di una interazione tra set e personaggi del tutto peculiare, più prossima al cinema sperimentale che all’uso corrente dei luoghi nel cinema italiano e non solo.

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1. Non mi bastavano le fotografie

…Sono stato per la prima volta a Casal di Principe nel giugno dell’anno 2005, quale inviato del settimanale “D” di Repubblica.

Un grande cancello rosso in ferro e un muro altissimo, almeno 3 metri, circondava la dimora di Walter Schiavone; il lungo viale fatto di sanpietrini e in fondo, la villa semidistrutta, bruciata, vandalizzata e completamente spogliata di ogni pezzo di valore: ringhiere, infissi, lampadari, marmi. Restavano i segni del lusso e del potere: le colonne, il timpano, e la vasca, come nelle case patrizie dell’Antica Pompei; ma quella era la villa di Scarface.

Delle ore trascorse nella villa a fotografare ricordo che mi sentivo come quando da bambino volevo fare l’archeologo, una sorta di avventura alla scoperta di tutti i possibili segni lasciati dalla famiglia che abitava quei luoghi nel passato.

Entrai dappertutto e spesso la meraviglia di quella singolare scenografia mi faceva sgranare gli occhi: immediatamente aprivo il cavalletto.

Dovevo dare il tempo alla luce di scalfire e penetrare nel nero della fuliggine per leggere i dettagli più nascosti; chiudere il diaframma al massimo per ottenere una messa fuoco nitida dell’immagine in tutta la sua profondità. La poca luce che entrava dalle finestre ostruite dalle piante infestanti, mi costringeva a esposizioni di decine di minuti, e tutto quel tempo lo utilizzavo per memorizzare il luogo; non mi bastavano le fotografie.

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Tra le tante storie germinate dalle radici di Gomorra c’è quella raccontata dalle foto di Mario Spada scattate sul set del film di Garrone, che aggiunge un altro episodio alla straordinaria avventura «transmediale» (Wu Ming, 2009) a cui ha dato avvio la penna di Saviano. Lo scrittore napoletano, nelle due pagine che accompagnano il volume che raccoglie gli scatti (Postcart, 2009), disegna il ritratto del fotografo puntando subito l’attenzione sulla prossimità dello sguardo rispetto all’oggetto messo a fuoco:

Il discorso di Saviano potrebbe forse essere letto alla luce di quanto Sciascia dice a proposito delle fotografie di Ferdinando Scianna: la capacità del fotografo di Bagheria di cogliere in un istante aspetti riposti della ‘sicilitudine’ deriva dalla consuetudine del suo sguardo immerso in una realtà che conosce bene. Sciascia cita la teoria di Stendhal sull’innamoramento espressa in De l’amour, in cui l’immagine della cristallizzazione del rametto esposto alle intemperie durante l’inverno e trasformato in carbone diviene la metafora della sintesi apparentemente inconciliabile di tempi lunghi e repentini che caratterizzano l’insorgere dell’amore… e per Sciascia anche della fotografia. Spada, come Scianna, conosce bene l’universo sul quale punta l’obiettivo della sua Leica, ma lo ritrae poi nei tempi contratti dello scatto «con un’aggiunta imprevista di contorni e significati», grazie al suo «sguardo discreto e impietoso». È ancora Saviano a notare i tratti del suo stile inconfondibile e a sottolineare la fedeltà ad un’idea della fotografia come ricerca di «luoghi di vita», anche nella eccezionalità delle foto realizzate sul set del film di Garrone, all’interno del quale Spada «si muove come un animale nel suo habitat, in situazioni verosimili, ma questa volta finte. Eppure le ritrae in tutta la loro verità».

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Il 12 ottobre del 2016, nel corso della diciassettesima puntata di Gazebo Social News, lo show condotto da Diego Bianchi, il vignettista e autore Makkoz disegna un personaggio proveniente da Napoli. Lo rappresenta con una caricatura di Genny Savastano, uno dei protagonisti di Gomorra - La serie, con tre frasi che contornano il personaggio [fig. 1]: «Stai senza pensieri», «Two Fritturs» e «Come to take the forgiveness». Ci sono una serie di cortocircuiti linguistici e mediatici che vanno in scena all’interno di questa immagine, una serie di immaginari che vengono convocati. Siamo all’interno di una trasmissione televisiva in un certo senso di nicchia, come Gazebo, ma a cui il preserale ha dato una più vasta popolarità. Le frasi, forse oscure ai più, arrivano dalla serie tv di Gomorra, ma rimodellate dal gruppo satirico The Jackal, autore di una fortunata web serie parodica, Gli effetti di GOMORRA LA SERIE sulla gente (d’ora in poi, Gli effetti). Alcune poi sono in inglese perché la web serie ha avuto un piccolo spin-off, Impara l’inglese con GOMORRA, dove i tormentoni vengono tradotti in inglese. Web, TV, ma anche cinema: il Genny Savastano disegnato da Makkoz rimanda molto più marcatamente al De Niro di Taxi Driver di quanto non lo faccia il personaggio della serie – che pure sempre da lì attinge parte del proprio stile e mise. Può sembrare strano partire da questa immagine per parlare di un aspetto del mondo Gomorra, ma proprio immagini come questa fanno vedere quando questo sia entrato nella cultura popolare, e lo abbia fatto ibridando una serie di linguaggi e media diversi.

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