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  • «Lampeggiare nello sguardo». Attrici e attori nel cinema di Pasolini →
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Partendo da alcune osservazioni sull’attorialità nel teatro contenute nel Manifesto per un nuovo teatro di Pasolini, il contributo approfondisce, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e le riflessioni relative a funzione e pratica dell’attore teatrale.

Starting from some observations on theatrical actorship contained in Manifesto per un nuovo teatro of Pasolini, the article explores, in particular, the difference between Pasolini’s ideas on the nature of cinematographic actorship and the thoughts related to the function and the practice of theater actor. 

 

Benché non abbia mai trattato il tema in maniera sistematica, Pasolini ha elaborato una serie di riflessioni sulla sua pur limitata esperienza di attore, di spettatore che assiste a differenti performance attoriali sia in sede teatrale sia cinematografica, e soprattutto sulla sua pratica di direttore di attori nonché di responsabile del casting dei propri film, dalle quali è possibile estrapolare una vera e propria teoria dell’attore. È quanto hanno dimostrato ampiamente Stefania Rimini e Maria Rizzarelli in un loro recente saggio (2021), riccamente documentato e articolato.

Le considerazioni che seguono, in certi casi, ne riprendono le suggestioni, cercando di integrarle approfondendo, in particolare, la distanza che intercorre fra le idee pasoliniane sulla natura dell’attorialità cinematografica e quelle relative a funzione e pratica dell’attore teatrale. La vastità del tema e l’estemporaneità delle considerazioni di Pasolini, recuperate da una pluralità di fonti eterogenee, rendono impossibile qualsiasi pretesa di sistematicità, che può essere invece recuperata in interventi specifici sul rapporto con particolari figure di attori ai quali Pasolini era particolarmente legato. Ci auguriamo che le riflessioni proposte possano essere considerate una sorta di ‘secondi sondaggi’ per una doppia teoria pasoliniana dell’attore, il cui valore euristico consiste principalmente nel far affiorare con maggiore evidenza la distanza che separa, nella sua concezione, il cinema dal teatro, non solo sotto il profilo semiologico e culturale ma – verrebbe da dire – ontologico ed esistenziale.

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Inaugurata al principio di marzo del 2022 nel sottopasso di Re Enzo a Bologna, in occasione del centenario della nascita, la mostra dedicata a Pasolini riunisce idealmente la sua formazione universitaria, letteraria e storico artistica, acquisita nelle aule di via Zamboni, con gli esiti meno prevedibili del suo talento polimorfo: il cinema.

Al cinema Pasolini approda nel 1960, quando propone a Fellini di produrre la sceneggiatura cui ha lavorato durante l’estate e che, dopo il rifiuto di Fellini e il passaggio ad Alfredo Bini, diventerà Accattone. Fin da questo debutto, girato con pochissimi mezzi, emerge come caratteristica dello stile cinematografico pasoliniano la scelta di soggetti umili, di personaggi e storie ai margini che il regista sembra estrapolare dall’irrilevanza con una fitta rete di riferimenti alla storia dell’arte.

Come Caravaggio prendeva i propri modelli dalla strada per poi calarli nella solennità di un racconto biblico o evangelico, così fa Pasolini risalendo a genealogie di costumi, gesti e fisionomie sedimentati nel profondo della sua cultura visiva.

La mostra esplora dunque il legame fra arte e cinema, e non a caso questo avviene a Bologna. Come se Pasolini avesse contribuito a descrivere ante litteram una traiettoria possibile, la Cineteca di Bologna è diventata un luogo imprescindibile per i cinéphiles di tutto il mondo e, tra le molte attività che la contraddistinguono, da anni ordina e rende accessibili i materiali dell’Archivio Pier Paolo Pasolini. Questa circolarità non è solo una coincidenza topografica legata alla città felsinea, e a un legame più volte dichiarato dallo stesso Pasolini, ma è un sigillo stesso dell’esposizione che si apre con la fotografia dell’aula lunga e stretta dove seguì i corsi di Roberto Longhi e si chiude con gli scatti di Dino Pedriali che lo ritraggono, nell’ottobre del ’75, nella casa-torre di Chia intento a disegnare il profilo dell’amatissimo maestro: da Longhi a Longhi.

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Il saggio è un primo stimolo alla riflessione sulle forme e le strategie della museologia d’opera per i musei del XXI secolo attraverso il caso studio del Museo Zeffirelli a Firenze. Esso ripercorre la nascita e gli obiettivi del patrimonio del regista, scenografo e costumista fiorentino, rimessi in ‘opera’ dal 2015 dalla Fondazione Zeffirelli Onlus e dal nascente Centro Internazionale per le Arti e lo Spettacolo realizzato all’interno del Complesso di San Firenze nella città natale. Archivio, museo e scuola, esso lavora oggi in maniera complementare alla trasmissione della sua opera divisa fra cinema, teatro e opera. Partendo dal riconoscimento dei rapporti legati alla cultura visuale dell’artista si analizzano qui le strategie espositive e le attività legate ai percorsi operistici.

This paper aims to stimulate a reflection on the museology of opera during the 21st century through the study case of the Zeffirelli Museum in Florence. The essay analyses the birth and the objectives of the heritage collected by the director, set and costume designer. They are reused since 2015 by the Fondazione Zeffirelli Onlus and the International Centre for the Arts and the Performing Arts, set up inside the Complesso di San Firenze in his hometown. As an integrated archive, museum, and school, it now works on the transmission of his heritage divided between cinema, theatre and opera. For this reason, the analysis starts from the recognition of the visual culture embedded inside the opera paths and exhibition activities of the intermedial museum.

La vita non è che un continuo passaggio di esperienze,

da una generazione all’altra: prima imparare e poi insegnare

a chi viene dopo di noi.

Franco Zeffirelli

1. Dai materiali d’archivio al museo intermediale

Messa in movimento, trasmissione e ricezione di un’esperienza molteplice sono i motivi guida espressi dal regista fiorentino Franco Zeffirelli a proposito della raccolta (durante la sua vita) e della destinazione di una serie di materiali legati alla propria attività e all’arte dello spettacolo in toto. Votandosi a questi principi, ha promosso con forza il riconoscimento di quest’insieme patrimoniale come ‘vivente’, non solo per l’azione di conoscenza storica che esercita nel presente verso il futuro ma, si legge tra le righe del suo pensiero, per la capacità di accogliere e far percepire i caratteri stessi della vita e delle arti.

Dal 2015 parte di questi materiali[1] sono gestiti e rimessi in opera a Firenze dalla Fondazione Zeffirelli Onlus, nata in quell’anno proprio con l’obiettivo di «promuovere la cultura e l’arte, attraverso la tutela e la valorizzazione di beni di interesse artistico e storico».[2] Sulla scorta del pensiero dell’artista, l’istituzione ha destinato i propri spazi all’incontro, lo studio e la produzione artistica attraverso il patrimonio zeffirelliano.

Così nella città natale dell’artista, all’interno del Complesso di San Firenze, nel corso del 2015 è stato istituito il CIAS - Centro Internazionale delle Arti dello Spettacolo,[4] che oggi ospita e anima al suo interno un archivio, una biblioteca, un museo, una sala musica da centocinquanta posti che funge anche da spazio di proiezione ed esposizione (nello splendido ex oratorio dei padri filippini caratterizzato da alcuni palchi laterali che ne fanno quasi un teatro), un bookshop, alcune aule dedicate alla didattica (ma tutti gli spazi sono riutilizzati in tal senso), laboratori e un’area ristorativa. In questi spazi si svolgono un insieme di attività formative, artistiche e di progettazione. Le diverse parti, che includono anche la direzione curatoriale, sono pensate come sezioni complementari di uno stesso corpo, sia per gli scambi tra biblioteca, archivio e museo (anche in termini di visite guidate dedicate), sia e soprattutto per gli ulteriori percorsi che fruitori e studiosi possono attivare autonomamente passando da una parte all’altra.[5]

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Il recente film-opera Gianni Schicchi di Damiano Michieletto ha spiazzato tutte le aspettative. Pur aderendo alla tradizione del recitar cantando, il regista veneziano ha infatti introdotto delle sostanziali novità drammaturgiche e stilistiche, intervenendo con decisione sul libretto e adoperando appieno gli elementi della grammatica filmica (piani sequenza, veloci carrelli, zoom). L’analisi propone un’interpretazione del lavoro registico che poggia sulla tesi, ipotizzata dallo stesso Michieletto, che l’opera di Puccini sia stata influenzata dalla settima arte, e che pertanto si presti particolarmente bene a diventare un film. Partendo da tale presupposto la riflessione indaga il nuovo trattamento cinematografico della materia pucciniana, spinto sul piano del ritmo, del divertimento, dell’attualizzazione contemporanea, mettendolo in relazione ai precedenti più significativi della commedia nel cinema operistico: Figaro e la sua gran giornata di Mario Camerini, Il barbiere di Siviglia di Mario Costa, Figaro il barbiere di Siviglia di Camillo Mastrocinque, Avanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone.

The recent film-opera Gianni Schicchi by Damiano Michieletto has displaced all expectations. While adhering to the tradition of recitar cantando, the Venetian director has in fact introduced significant dramaturgical and stylistic innovations, intervening decisively on the libretto and making full use of the elements of film grammar (long takes, fast tracking shots, zooms). The analysis proposes an interpretation of the director’s work based on the thesis, hypothesized by Michieletto himself, that Puccini’s opera has been influenced by the seventh art, and therefore lends itself particularly well to becoming a film. Starting from this assumption, the reflection investigates the new cinematographic treatment of Puccini’s material, pushed on the level of rhythm, amusement and contemporary actualization, putting it in relation to the most significant precedents of comedy in opera films: Figaro e la sua gran giornata by Mario Camerini, Il barbiere di Siviglia by Mario Costa, Figaro il barbiere di Siviglia by Camillo Mastrocinque, Avanti a lui tremava tutta Roma by Carmine Gallone.

 

Secondo Damiano Michieletto, regista del film Gianni Schicchi presentato al Torino Film Festival nel novembre 2021 e poco dopo messo in onda dalle reti Rai, l’opera di Giacomo Puccini si presta in modo particolare a diventare un film. Questo perché il compositore toscano, tra i grandi autori italiani di melodrammi, è il primo a operare pienamente quando la settima arte si sta già diffondendo nel mondo, rivoluzionando in modo definitivo l’idea stessa di spettacolo e la sua fruizione da parte del pubblico. Lo ha dichiarato lo stesso regista ai microfoni di Hollywood Party – storica trasmissione dedicata al cinema di Rai Radio 3 –, raccontando le sfide che consapevolmente ha voluto affrontare dirigendo questo film. Sfide che sono tutt’altro che banali: Michieletto ha scelto di restare fedele alla grande e nobile tradizione italiana del ‘recitar cantando’, e quindi di realizzare quello che tecnicamente si definisce un film-opera, impreziosito da un prologo nel quale domina la scena Giancarlo Giannini; al tempo stesso, però, ha voluto mettere le mani con decisione sul libretto, trasportando in epoca contemporanea la vicenda. In questo modo si è perso il diretto riferimento dantesco che è presente nel testo, e che vede lo stesso Dante incontrare Gianni Schicchi nella decima Bolgia (il canto è il XXX dell’Inferno, e si conclude com’è noto con una dura reprimenda di Virgilio nei confronti del poeta toscano), punito insieme agli altri falsari, tra i quali Mirra. Insomma, non si può dire che il regista veneziano abbia scelto la strada più facile per questo film-opera: e proprio l’aver affrontato scientemente ostacoli di ogni tipo lo ha portato a realizzare uno spettacolo nuovo, vivo, brillante.

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L’impatto della pandemia sullo spettacolo dal vivo ha prodotto uno stato di necessità inedito: garantire la fruizione dei contenuti performativi e mantenere in vita il rapporto con i pubblici nonostante l’impossibilità dell’incontro diretto tra attori e spettatori, della loro relazione in presenza. Per affrontare la crisi di relazionalità spaziale che connota il ‘teatro al tempo del Covid’ si sono moltiplicate le iniziative di meditizzazione e webcasting degli spettacoli, con risultati artistici eterogenei ma un ambito di intervento comune: lo spazio performativo ripensato alla luce del trasloco mediale degli eventi. In questo frangente senza precedenti Mario Martone ha ideato e realizzato due allestimenti per il Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini e La traviata di Giuseppe Verdi, che hanno scardinato ogni convenzione formale della messa in scena operistica, reiventandola secondo principi e procedimenti di ordine cinematografico. Le operazioni-opere di Martone, concepite appositamente per essere trasmesse sui canali televisivi e streaming della Rai, risultano esemplari, addirittura paradigmatiche di un netto ripensamento del genere del film d’opera, che il regista napoletano rimodula stilisticamente come opera-film, lavorando sulla cineficazione dello spazio teatrale e delle sue dinamiche attanziali. Il saggio, a partire da una propedeutica ricognizione storiografica del profilo artistico di Martone, analizza e interpreta le reinvenzioni spaziali delle regie liriche sopracitate, secondo due chiavi di lettura divergenti ma complementari: la designazione filmica dello spazio vuoto de Il barbiere, rappresentato e filmato nella sala deserta del Teatro Costanzi per evidenziare l’assenza del pubblico e la finzione scenica, e, all’opposto, l’occultamento cinematografico del vuoto spettatoriale e dell’artificio performativo de La traviata, ottenuto trasformando l’intera platea dell’Opera di Roma in un set realistico e site-specific. La lettura critica dei casi di studio è corroborata da un impianto metodologico che compendia la speculazione di Peter Brook sul valore rivelatorio dell’empty space, le acquisizioni degli Opera Studies sull’astrazione antinaturalistica del teatro musicale, le nozioni di mediatizzazione e cineficazione teatrale segnatamente applicate allo spazio performativo dell’opera lirica. 

The impact of the pandemic on live performance has produced an unprecedented state of necessity: guaranteeing the fruition of performance contents and keeping alive the relationship with audiences despite the impossibility of a direct contact between actors and spectators, of their relationship in presence. In order to tackle the crisis of spatial relationality that characterizes the ‘theatre at the time of Covid’, initiatives for the mediatisation and webcasting of performances have multiplied, with heterogeneous artistic results but a common sphere of intervention: the performance space rethought in the light of the media transfer of events. In this unprecedented juncture Mario Martone conceived and realized two productions for the Teatro dell’Opera di Roma, Il barbiere di Siviglia by Gioachino Rossini and La traviata by Giuseppe Verdi, which broke down all formal conventions of opera staging, reinventing it according to cinematographic principles and procedures. Martone’s opera-operations, conceived specifically to be broadcast on Rai television channels and streaming, are exemplary, even paradigmatic of a net rethinking of the film of opera genre, which the Neapolitan director stylistically remodels as an opera-film, working on the cinefication of the theatrical space and of its actantial dynamics. The essay, starting from a preliminary historiographical survey of Martone’s artistic profile, analyses and interprets the spatial reinventions in the above-mentioned productions, according to two divergent but complementary keys to interpretation: the filmic designation of the empty space in Il barbiere, represented and filmed in the deserted space of Teatro Costanzi to highlight the absence of the audience and the stage fiction, and, at the opposite, the cinematographic occultation of the spectatorial void and the performative artifice in La traviata, obtained by transforming the entire stalls into a realistic and site-specific film set. The critical reading of the case studies is corroborated by a methodological framework that encompasses Peter Brook’s speculation on the revelatory value of empty space, the acquisitions of Opera Studies on the antinaturalistic abstraction of musical theatre, the notions of theatrical mediatisation and cinefication specifically applied to the performance space of opera.

1. Visioni dello spazio nel teatro di Martone

«Quel che cerco è il respiro comune di attori e spettatori. Quale che sia lo spazio, felicemente assembrati in sala o fatalmente divisi da un teleschermo, quello e nient’altro è il teatro».[1] Così Mario Martone descrive la vocazione che muove il suo lavoro registico, la ricerca di una ‘comunione di respiro’ tra attori e spettatori non vincolata al tangibile, alla dinamica fisica fra scena e platea, ma capace di prodursi anche nell’impalpabile, nella reciproca consapevolezza di vivere e di sentire l’esperienza del teatro.

Nel contesto spettacolare dell’epoca Covid sappiamo che il ‘corpo a corpo’ di emittenti e destinatari nello spazio deposto al teatro è entrato radicalmente in crisi, e che il medium teatrale ha dovuto affrontare il più estremo compromesso della sua storia millenaria: l’assenza del pubblico dal vivo. Nella crisi di relazionalità spaziale che connota il presente pandemico una delle più convincenti reinvenzioni dello spazio performativo è arrivata dalla teatralità operistica, ed esattamente dalle due messinscene de Il barbiere di Siviglia e de La traviata prodotte dal Teatro dell’Opera di Roma con la regia di Martone, e trasmesse su Rai3 rispettivamente a dicembre 2020 e ad aprile 2021. Eclettiche reinvenzioni del genere del film d’opera, gli spettacoli realizzati da Martone fanno leva sul versante della spazialità teatrale rimediata cinematograficamente, per superare l’impasse dello spettacolo ‘in carne e ossa’ fisicamente inaccessibile al pubblico.

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La giuria della 78ª Mostra del Cinema di Venezia, a maggioranza femminile, presieduta dal regista coreano Bong Joon-ho, affiancato tra gli altri da Chloè Zhao, premia con il Leone d’oro la pellicola francese l’Événement per la forza del tema trattato e per la sua capacità di incidere sulla superfice.

La regista Audrey Diwan compie la scelta precisa di mantenersi fedele al codice espressivo crudo, veritiero, spregiudicato di Annie Ernaux, al cui omonimo libro il film è ispirato, utilizzando la medesima disinibizione come chiave stilistica di rappresentazione. È dunque la corrispondenza dei linguaggi che permette un costante intreccio tra scrittura e immagine e l’esplorazione a tutto tondo della complessa dimensione psicofisica della protagonista.

Siamo nella Francia degli anni Sessanta, Anne, giovane studentessa caparbia e tenace, resta incinta in seguito ad un rapporto occasionale, ma la legge non le consente di interrompere la gravidanza legalmente con procedure sanitarie sicure e dunque è costretta a ‘fare da sola’. Inizia così un percorso di disperata ricerca di soluzione all’evento indesiderato per vie clandestine e rischiose, segnato da un crescendo di angoscia, dolore, perdita di sensi.

L’Événement è un film che non risparmia, che scandisce angosciosamente le tappe del trauma della protagonista, interpretata in modo convincente dalla giovane attrice Anamaria Vartolomei. Esattamente come nel libro, anche nel film si sviluppa una sequenza di quadri di agonia, che trascinano in un vortice chi guarda. Il ritmo è quello di una danza funebre dalle tinte macabre, in cui vita e morte si incontrano e si fondono, determinando una convergenza ancestrale tra esperienza letteraria e cinematografica. Il potenziale visivo della scrittura di Annie Ernaux prende progressivamente forma davanti alla cinepresa, quasi come se il racconto si materializzasse nello stesso momento in cui viene scritto.

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Per il pubblico più cinefilo e per gli habitué dei festival cinematografici, Torino è da sempre la città senza red carpet. Per porre fine a questi e ad altri stereotipi era forse necessario attendere la mostra Photocall. Attrici e attori del cinema italiano, curata da Domenico De Gaetano e Giulia Carluccio, con la collaborazione di Roberta Basano, Gianna Chiapello, Claudia Gianetto e Maria Paola Pierini. Fino al 7 marzo 2022, infatti, la Mole Antonelliana ospiterà al suo interno un lungo tappeto rosso sul quale sfileranno idealmente attrici e attori della storia del cinema nostrano, immortalati nel corso di più di un secolo dallo sguardo dei fotografi e delle fotografe di cinema. Come ricordano gli stessi curatori della mostra, è proprio lo sguardo ad essere al centro dell’intero percorso espositivo, in «un gioco di rimandi […] che questa volta non muove dalla relazione tra attore e regista, ma si attiva a partire da quella più segreta e peculiare che coinvolge l’attore e il fotografo».[1] Ripercorrendo l’evoluzione di una figura professionale centrale per l’industria cinematografica si esplorano dunque, parallelamente, la nostra storia sociale e culturale, ma anche la storia del cinema e del divismo italiani. Si tocca con mano, in sostanza, l’idea teorizzata da Roland Barthes di una lunga «esposizione ben organizzata» di «visi archetipi», di miti creati e diffusi dal cinema a uso e consumo dello spettatore.[2]

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«Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola “solitudine” vorrebbe designare». Così scrive Maurice Blanchot in Lo spazio letterario, specificando tuttavia che la solitudine «essenziale», nella quale si addentra nel suo saggio, non è quella esistenziale né quella tipica dell’artista che «gli sarebbe necessaria, si dice, ad esercitare la sua arte [...]. Quando Rilke scrive [...]: “la mia solitudine finalmente si chiude e io sto nel lavoro come il nocciolo nel frutto”, la solitudine di cui parla non è essenzialmente solitudine: è raccoglimento» (Rilke 1967, p. 9).

È invece proprio di solitudine intesa come raccoglimento e come sospensione dal mondo che tenterò di occuparmi in questa breve analisi. Esplorando lo spazio letterario «divagrafico» (Rizzarelli 2017; Cardone, Masecchia, Rizzarelli 2019; Rizzarelli 2021), cercherò di tracciare i punti di congiunzione tra la dimensione dell’arte e quella riservata alla capacità di attivare una relazione con la realtà di tipo performativo, in cui la concentrazione e l’attenzione acquistano un ruolo di primo piano.

Scriveva Cristina Campo nel saggio Attenzione e poesia: «l’attenzione è il solo cammino verso l’inesprimibile, la sola strada al mistero. Infatti è solidamente ancorata nel reale, e soltanto per allusioni celate nel reale si manifesta il mistero» (Campo 2019 [1961, 1987], p. 167).

Nella parola autobiografica delle attrici l’arte si pone spesso come istanza di libertà, di autonomia, di uscita dallo stereotipo divistico, di accesso a quella creatività accordata tradizionalmente al mondo maschile e a cui molte, seppure con esperienze e linguaggio differenti, dimostrano di aver desiderio di partecipare come soggetti attivi (in alcuni casi, divenendo esse stesse autrici di opere, come nel caso di Elsa De’ Giorgi, recentemente analizzato da Corinne Pontillo, 2020). Allo stesso tempo, è nel rapporto con la dimensione dell’arte in cui le attrici esprimono l’abilità di un radicarsi nell’attenzione, la stessa necessaria all’atto performativo.

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La seconda prova cinematografica di Emma Dante prende le mosse dall'omonimo spettacolo ma la drammaturgia dei corpi e degli spazi vira subito verso una dimensione intimamente cinematografica, affidata a millimetriche transizioni temporali e a un intenso gioco performativo che vede coinvolte dodici interpreti, sensibili a una serrata grammatica di movimenti. La lettura che qui si propone mira a recuperare la matrice del dispositivo sororale e la dimensione 'materiale', organica della trama visuale, esposta ai danni della luce e del tempo.

Emma Dante's second direction test is derived from the show of the same name, but the dramaturgy of bodies and space quickly shifts towards a quintessentially cinematographic dimension, made of instant temporal transitions and an intense acting game with 12 performers who follow a fast-paced grammar of movement. The interpretation proposed here is an attempt to retrace the scheme of the sorority  theme and the material, organic dimension of the visual plot, exposed to the damages of light and time

 

 

«Non ci si dice molto perché

non c’è molto da dire, ogni

volta

è come se ci inseguisse

qualcosa».

Riccardo Frolloni, Materiali II

 

 

La scrittura franta di Riccardo Frolloni può essere la giusta porta d’accesso alla geografia emotiva e fisica de Le sorelle Macaluso, seconda prova cinematografica di Emma Dante che, dopo il debutto veneziano, ha appena conquistato cinque prestigiosi Nastri d’argento. Entrare dentro gli spazi di questo film attraverso la lente di Frolloni significa fare innanzitutto i conti con il perimetro degli interni, continuamente esposti a epifanie d’altrove: un verso della lirica Materiali I – «la casa era prima di terra e poi / d’aria»[1] – consente di inquadrare con un solo movimento quella che a tutti gli effetti sembra essere la promessa su cui si fonda la riscrittura per immagini della pièce, ovvero la possibilità che le protagoniste possano davvero trasformarsi in «uno stormo di uccelli che partecipano al proprio funerale e a quello degli altri».[2] La dimensione del lutto, a cui si accompagna una comunità di affetti e ricordanze fra vivi e morti, appartiene del resto al codice drammaturgico di Dante da sempre, per un’intrinseca vocazione al tragico mitigata a tratti da una controspinta umoristica, secondo un principio di contraddizione che insiste irrimediabilmente in quella lancinante ‘terra di teatro’ che è la Sicilia. Ereditando il sangue e gli spasmi di una imagery intimamente isolana, Dante attribuisce alle sue figure, e in particolare alle sorelle Macaluso,[3] un’ansia di assoluto che confligge con gli umori terragni, con la cupa violenza di ogni liturgia familiare, e così al centro dell’azione performativa si ritrova spesso lo scarto tra la furia del vivere e la disperazione del morire.

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