Adattare al cinema una raccolta di fiabe, novelle o racconti è un’operazione complessa, soprattutto se si vuole evitare la scansione comoda e un po’ convenzionale del film a episodi. Assieme a un team di scrittori e sceneggiatori esperti (Edoardo Albinati, Ugo Chiti, Massimo Gaudioso), Garrone ha scelto di intrecciare e alternare fra di loro tre fiabe appartenenti tutte alla prima giornata del Cunto di Basile, La cerva fatata, La pulce, La vecchia scorticata; un’operazione simile a quella che Altman ha fatto a suo tempo con i racconti di Carver, anche se meno sistematica che in Short Cuts. La scelta più felice è stata senz’altro limitare a tre il numero di fiabe prescelte, espandendole con dettagli e sfumature psicologiche, che alimentano una sorta di ‘realismo fiabesco’. Si è evitato così l’effetto di affresco, presentando invece tre percorsi accomunati da una poetica della metamorfosi e dell’identità instabile esposta all’inizio del film dal personaggio del negromante; una poetica che spiega fra l’altro la consonanza fra il barocco e la nostra epoca di cui si è fin troppo parlato. Facciamo un esempio. La prima fiaba, La cerva fatata, contiene il tema del doppio, nella specifica variante del sosia del sovrano, cioè di una somiglianza eccezionale che lega due personaggi appartenenti a strati sociali opposti; una variante che incrina l’assolutezza del potere e che dal teatro barocco spagnolo giunge fino al Principe e il povero di Twain, o a Kagemusha di Kurosawa. Nella fiaba di Basile i due ragazzi, Fonzo e Cannarolo, sono identici perché concepiti grazie al cuore di un mostro marino mangiato dalla madre del primo, la regina di Lungapergola, e cucinato dalla damigella madre del secondo, sulla scorta di un motivo antropologico di lunga durata presente in varie novelle e in alcuni libretti d’opera (da leggere il saggio di Mariella di Maio, Il cuore mangiato: storia di un tema letterario dal Medioevo all’Ottocento, Milano, Guerini e Associati, 1996). La rilettura di Garrone amplifica sia la gelosia persecutoria della regina, sia il legame affettivo fra i due doppi (qui si chiamano Elias e Jonah), legame fortemente contrastato per motivi sociali, dato che il sosia del principe è figlio di un’umile serva (in Basile invece sono entrambi aristocratici: Canneloro alla fine diventa anche lui re). Garrone e i suoi sceneggiatori aggiungono inoltre elementi di conflitto che rientrano in una visione del mondo basata sulla compensazione fra nascita e morte, come spiega più volte il negromante. Troviamo perciò due cambiamenti significativi nell’intreccio: a differenza che in Basile, nel film il re muore dopo aver catturato il mostro marino, che gli infligge un ultimo colpo di coda. Per tentare di eliminare il sosia, anche la regina muore, trasformatasi in un terribile mostro ctonio ucciso dal figlio ignaro, in un finale di grande effetto. Quella che in Basile era una narrazione rapida e pragmatica, dal sapore popolare (soprattutto nel particolare degli oggetti che ‘partoriscono’ altri oggetti assieme alle due donne), diventa in Garrone un dramma ricco di passioni estreme e di violenza primordiale, che culmina nell’uccisione della madre castratrice.

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Una maschera africana composta da due teste bianche e tondeggianti, una montata sopra l’altra, i cui margini inferiori sono legati ad alcune strisce di corde bianche e a lunghi filamenti di paglia secca che ricadono in basso e dissimulano completamente i lineamenti di chi la indossa, mentre la superficie alta è sormontata da una corona di cespugli radi e anch’essi secchi: questa maschera bicefala diviene, nell'Edipo Re (1967) di Pasolini, il non volto della sacerdotessa dell’Oracolo di Delfi (nel film Delfo), dalla cui bocca parla il dio Apollo, nella sequenza in cui annuncia al ‘figlio della fortuna’ un destino atroce: «Guardati! Nel tuo destino c’è scritto che assassinerai tuo padre e farai l’amore con tua madre!»

Nella tragedia di Sofocle l’episodio della visita di Edipo al santuario di Apollo è racchiuso nei pochi versi in cui Edipo, a distanza di molto tempo, rievoca il proprio passato alla madre Giocasta:

Pasolini trasmuta l’episodio dal passato al presente e lo racconta seguendo in modo lineare gli antefatti della storia di Edipo (dopo il prologo autobiografico ambientato nel Friuli degli anni Trenta), con non poche e significative innovazioni narrative. Per esempio, inventa lo struggente congedo del giovane da quelli che crede essere i suoi genitori, Polibo e Merope (consapevoli del suo viaggio a Delfo e non ignari, come invece accade in Sofocle). Soprattutto, al momento delle riprese, trasforma in modo radicale la scena dell’Oracolo rispetto a come aveva previsto di girarla nella sceneggiatura. Nel testo infatti leggiamo che il santuario dovrebbe ricordare una chiesa affollata di pellegrini, come una corte dei miracoli, ispirata ai dipinti di Francesco Paolo Michetti. Nella fantasia di Pasolini, com’è noto, le immagini si richiamano spesso alla pittura e forse aveva in mente Il voto (1881-1883) di Michetti, con i credenti fanaticamente allungati a terra, persi nell’ebbrezza della preghiera. Qualche traccia di questa idea rimane nella folla popolare ammassata in attesa del responso nello spiazzo sabbioso e deserto che circonda il santuario, ma Pasolini, al momento di realizzare la scena, ha preferito una folla composta, sotto il presidio delle guardie, dove ognuno attende ordinatamente il suo turno in una calma arcaica e remota.

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«Mi ringraziò a lungo, salutandomi, per l’occasione che gli avevo dato di ripensarsi ‘dentro’ una sua opera. Era l’intenzione di quel mio atto dal titolo Intellettuale». Riferendosi a Pier Paolo Pasolini, l’artista Fabio Mauri ricorda con queste parole, adesso accolte nel volume Il diaframma di Pasolini, la performance che si tenne il 31 maggio 1975 in occasione dell’inaugurazione della Galleria d’Arte Moderna di Bologna. Quella sera nell’atrio della Galleria, Pasolini, seduto in rigida posa su una sedia, lasciò che gli fosse proiettata sul torace, coperto da una camicia bianca, la prima parte del suo Vangelo secondo Matteo. Lo scrittore si prestò alla realizzazione della performance e divenne – attraverso il proprio corpo – un inconsueto supporto mediale, mezzo di trasmissione delle immagini, stabilendo con l’opera da lui stesso ideata un legame fisico, di suggestiva intimità.

Come era accaduto con il regista Miklós Jancsó, sul quale Mauri aveva proiettato sempre nel 1975 il suo film Salmo rosso nell’ambito dell’azione intitolata Oscuramento, anche Pasolini, già amico dell’artista dai tempi della prima giovinezza, decise di partecipare ad un atto performativo che lo identificò visivamente e senza nessuna mediazione con una delle sue creazioni filmiche. È l’immagine che procede dal piano concettuale e si fa corpo a catalizzare l’attenzione dell’artista e a racchiudere il senso di quella singolare operazione intellettuale:

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Catania/Napoli, luglio 2015

Mario Spada, nato a Napoli, classe 1971, entra nel mondo della fotografia nel 1986. È un reporter che ama la sua terra e la sa raccontare. Nel 2007 lavora come fotografo di scena al film Gomorra di Matteo Garrone e nel 2009 pubblica il suo primo libro personale Gomorra on set. Mario Martone lo chiama quando decide di far rivivere sul grande schermo, con Il giovane favoloso, l’immensa anima del poeta di Recanati, Giacomo Leopardi. Il 3 luglio di quest’anno, in occasione del compleanno di Giacomo Leopardi, gli scatti inediti del set del film sono stati esposti a Recanati in occasione della mostra Il giovane favoloso outdoor. Ecco cosa ci ha raccontato Mario Spada di entrambe le esperienze.

 

D: In che modo la fotografia è intervenuta nella ri-costruzione degli ambienti de Il giovane favoloso?

R: La ricostruzione degli ambienti del film è dovuta allo studio dello scenografo e di Mario Martone. Quello che deve fare il fotografo di scena, cioè io, è scattare delle fotografie che possano servire all’ufficio stampa che però, il più delle volte, ha un’idea della fotografia molto ‘classica’ (per esempio i posati fuori dalla scena), e quindi spesso le foto pubblicate o quelle scelte dall’ufficio stampa non corrispondono sempre a quello che avrei scelto io. Il fotografo di scena, nel mondo del cinema, è considerato ‘superato’, inutile alla produzione del film, perché non fa di certo IL FILM. Quando però il fotografo di scena ha un occhio particolare, tutto suo, può creare una storia all’interno del film che può essere d’aiuto per la distribuzione dell’opera, per la sua pubblicità. La cosa buona che qui è successa è che le foto de Il giovane favoloso le ho scelte insieme a Martone. Mario ha voluto che partecipassi a questo film dopo una prima collaborazione per lo spettacolo teatrale La serata a Colono tratto da Il mondo salvato dai ragazzini di Elsa Morante, con Carlo Cecchi e le musiche di Nicola Piovani. Non voleva il classico fotografo di scena e con lui abbiamo fatto una selezione di foto interessanti che poi ha anche utilizzato nel libro sulla sceneggiatura pubblicato per Mondadori. In più il manifesto del film, realizzato da Patrizio Esposito, è costruito a partire da una mia foto: rovesciando l’immagine Esposito rafforza l’idea di un Leopardi ribelle, non più triste e pessimista. In questo caso l’idea-guida del film nasce da un corto circuito di sguardi.

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È di questi primi mesi del 2015 la pubblicazione, da parte dell’editore Gallucci di Roma, della traduzione italiana di Cataract (2011), uno degli ultimi testi dell’ecclettico critico d’arte, scrittore e intellettuale John Berger (Londra 1926), con il commento a china del disegnatore di origine turca Selçuk Demirel (Artvin 1954), collaboratore di giornali quali Le Monde e The New York Times. Dedicato al Centre Hospitalier National d’Ophtalmologie di Parigi, il libretto nasce da un’occasione specifica, ma contiene riflessioni il cui valore va ben oltre: gli interventi di asportazione delle cataratte, prima dall’occhio sinistro e circa un anno dopo, nel 2010, da quello destro, sono per Berger l’«esperienza che ha trasformato il mio modo di guardare», da cui ricava che «la superficie di tutto quel che guarda è coperta da una rugiada di luce».

La fine tessitura del testo fonde un’esile narrazione autobiografica a spunti saggistici, ma a prevalere sono le registrazioni degli accadimenti di natura visiva, non prive di intonazioni poetiche, il cui senso è amplificato dal doppio codice adoperato: sulla pagina di sinistra quello verbale, di Berger, sulla pagina di destra l’interpretazione figurativa di Selçuk, essenziale e sorridente. Lettura e visione procedono così unite, gli occhi possono cominciare dal disegno oppure dalle parole, e passare da queste a quello più volte.

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La giornata di studi padovana (19 ottobre 2014) ha offerto un interessante confronto interdisciplinare tra studiosi, studenti e pubblico sulla poliedrica produzione del coreografo giapponese Saburo Teshigawara per il quale la danza è una forma artistica in grado di travalicare i propri confini linguistici e misurarsi con altri codici espressivi. Ad accendere e a stimolare il dibattito ha contribuito senza dubbio la presenza dell'artista che, dopo aver presentato la sera precedente al Teatro Comunale di Ferrara la sua ultima creazione Landscape, ha esposto, insieme alla sua danzatrice Rihoko Sato, le idee alla base della sua poetica.

Nella prima parte della giornata sono stati proiettati alcuni materiali audiovisivi, quali A boy inside the boy, Danser l'invisible e Broken Lights, che documentano l’attività professionale dell'artista, capace di spaziare tra pittura, movimento, video e installazione. Ogni video è stato presentato dai dottorandi della Scuola di dottorato in Storia, critica e conservazione dei beni culturali di Padova (Laura Pellicelli, Margherita Pirotto e Francesco Verona), che da prospettive disciplinari differenti – arte, danza e cinema – hanno offerto alcune chiavi di lettura al pubblico presente in sala. Il mediometraggio A boy inside the boy prende le mosse da uno spunto autobiografico, un ‘rito’ che Saburo Teshigawara compiva da bambino la sera mentre aspettava che la madre preparasse la cena: con una rotella segnava la terra attraverso un gesto minimale e ripetitivo, fintanto che la terra stessa, secondo i suoi occhi, diventava ‘luminescente’. Il video si basa su memorie d'infanzia e trasfigura fatti reali in elementi onirici. Tale processo diventa la cifra espressiva dell'intero film: dalla scelta delle immagini alla loro concatenazione nel montaggio. Il documentario Danser l'invisible di Elisabeth Coronel registra le fasi di creazione di Kazahana e di Prelude for down, e propone alcuni estratti d'intervista a Teshigawara. Il lungometraggio, girato tra Francia e Giappone, offre frammenti della vita professionale dell'artista, quali il lavoro coreografico in sala prove con danzatori, professionisti e non, momenti dell'evento spettacolare sul palcoscenico, riflessioni del coreografo sulla genesi e sull'evoluzione del suo modo d'intendere la danza e ricordi di momenti cruciali della sua vita che lo hanno influenzato nella ricerca artistica. Infine, sono stati mostrati alcuni frammenti di Broken Lights, una performance-installazione presentata alla Ruhrtriennale del 2014, nella quale Saburo Teshigawara e Rihoko Sato danzano su una superficie frastagliata di vetri che ricopre quasi interamente il pavimento e le pareti dello spazio performativo e in cui le luci sono posizionate lungo tutto il perimetro della lastra. L’effetto visivo predominante è quello di una frantumazione della luce stessa, poiché riverberando sul vetro e sui corpi degli stessi danzatori essa produce una visione segmentata del setting e delle figure che vi si muovono. Ciò che vediamo è un’interazione tra il materiale, i corpi, lo spazio e la luce.

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Ci sono a nostro avviso due percorsi di lettura per incamminarsi Verso Klee. Il primo è quello che si interroga sui momenti di incontro della poetica di Tam Teatromusica con l’artista. Il secondo tragitto chiama in causa l’opera di Paul Klee, invitando ad una riflessione su un punto nodale e poco esplorato del suo lavoro: il suo rapporto con il teatro.

Se la forte presenza delle arti visive che segna le pratiche e la poetica di Tam Teatromusica sin dall’origine ne connota i lavori a livello strutturale (in termini di composizione, di originale rielaborazione delle citazioni, di impiego della luce come disegno, forma e colore), nella Trilogia della pittura il gruppo padovano, fondato nel 1980, si confronta in modo più esplicito con figure di pittori. Non si pensi però alla ricostruzione del percorso biografico degli artisti scelti, e tantomeno ad una illustrazione della loro opera.

Anima blu (2007) è un’immersione nella pittura di Marc Chagall che fa affiorare in movimento i motivi della sua opera attraverso l’indagine sulle possibilità della ‘pittura di luce’, intrecciando la semplicità del quotidiano all’universo della fantasia e caricando di sonorità le immagini.

Picablo (2011) sin dal titolo pone l’accento sulla personalità multiforme di Picasso, dispiegata secondo un tempo che ricompone in simultaneità le suggestioni di uno sguardo stratificato.

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Negli ultimi anni l’Europa ospita sempre più frequentemente le creazioni di Saburo Teshigawara, l’artista che qualche anno fa suscitò un certo scalpore e curiosità per una sua coreografia danzata su frammenti di vetro (Glass Tooth, 2006, vista a Romeuropa Festival nel 2009). Non si trattava di un facile effetto giocato sul filo del rischio, ma della tappa di un percorso di ricerca perseguito con coerenza, nell’instancabile rimessa in questione degli esiti raggiunti. Lo dimostrano le ultime creazioni presentate nel nostro paese, in Francia (Parigi ha visto le sue coreografie danzate dall’Opéra – Darkness is hiding black horses –, nel novembre 2013, mentre a maggio il tour francese ha toccato Chaillot, La maison du Japon de Paris, La maison de la Culture, Nîmes, il Festival di Marsiglia) in Germania, con una performance, di cui diremo, alla Ruhrtriennale di Heiner Goebbels. Partecipazioni significative non solo per una semplice questione di risonanza internazionale, ma perché quasi sempre si tratta di nuove creazioni, dunque di progetti ad hoc, quando non pensati (o ri-pensati) specificamente per il luogo. E spesso inseriti in contesti aperti alle interazioni tra le arti, piuttosto che strettamente legati al mondo della danza. È questo il paesaggio in cui si inserisce anche l’iniziativa “Sculture d’aria”, un seminario previsto a Padova il 19 ottobre, durante il quale il coreografo dialogherà col pubblico, esplicitando le intime correlazioni fra materie e linguaggi diversi alla base dei suoi ‘testi’.

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