Since the very beginning, method is a crucial matter in Paolo Benvenuti’s cinema. It represents both the premise and the goal of all his movies. This method is the outcome of a very peculiar film education, which is quite clearly detectable in every phase of Benvenuti’s career. By focusing on his method, or at least trying to shape up a convincing depiction of it, this paper aims to show the coherence of Benvenuti’s poetics and philosophy of film with respect both to his models and his personal beliefs about cinema. At the same time the paper shows his ability to make this method suitable for the different kinds of inquiry he has been dealing with in more than forty years. Benvenuti’s work is still tightly tied to the same matter: what is the nature of film and how to narrate and show it.

Uno dei maggiori elementi di fascino della storia cinematografica di Paolo Benvenuti sta nel fatto che la si può leggere molto chiaramente in due sensi, ottenendo sempre una precisa restituzione del suo composito e multidisciplinare approccio al film. Si può partire dall’origine, e dunque dalla scelta del cinema, dalla ricerca di un grado zero della scrittura cinematografica. Una ricerca che si coagulava tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta da una parte intorno a figure modello che diventeranno maestri e dall’altra intorno a un bisogno di capire cosa significava il cinema nell’esistenza di un gruppo di giovani pisani in cerca delle alchimie segrete che legano la vita civile a quella artistica e intellettuale.[1]

In altri termini, si può cercare di capire come il cinema arrivi a Benvenuti – che non fa mistero di essersene in sostanza disinteressato fino intorno ai vent’anni – attraverso esperienze di spettatore tra loro diverse, ma assimilate in maniera molto feconda. L’amato/odiato cinema underground e la scoperta di Dziga Vertov rappresentano i modelli decisivi per la messa a fuoco di cosa debba essere e non essere il cinema, ma si ritroveranno poco nella produzione benvenutiana, rimarranno cioè unicamente indicativi di una rottura – quella operata nei confronti della pittura – e di un nuovo e consapevole orientamento. Nello stesso giro di anni, invece, la scoperta di Rossellini, per il tramite soprattutto del più ‘sessantottino’ dei suoi film, Europa 51,[2] e poi quella di Straub, per il tramite del più coinvolgente dei suoi film, Cronaca di Anna Magdalena Bach, rimarranno come traccia indelebile al fondo dell’idea di cinema di Benvenuti, colpiranno così nel profondo da spingere il giovane pisano a seguire sul set prima Rossellini e poi Straub.

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Alina Marazzi (Milano, 1964) lavora, fin dai suoi esordi, nell’ambito del cinema documentario. Dopo un periodo di formazione a Londra, durante il quale ottiene un BA in Film and Television, rientra in Italia all’inizio degli anni Novanta e realizza i suoi primi mediometraggi documentari da regista: L’America me l’immaginavo (1991); Il declino di Milano (1992); Mediterraneo, il mare industrializzato (1993); Il Ticino è vicino (1995); Ragazzi dentro (1997), dedicato alla vita dei minori nelle carceri e realizzato, in due puntate, per Raidue; Il sogno infranto (1999), ambientato nella Romania post-comunista. Marazzi lavora inoltre come assistente alla regia, collaborando, tra gli altri, con Giuseppe Piccioni (Fuori dal mondo, 1999; Luce dei miei occhi, 2001), Giovanni Maderna (Questo è il giardino, 1999), Paolo Rosa di Studio Azzurro (Il Mnemonista, 2000). L’interesse per temi di carattere sociale si coniuga, nel corso degli anni Novanta, all’attenzione per forme filmiche sperimentali, come testimonia sia la collaborazione con Studio Azzurro sia l’esperienza a Fabrica, la factory artistica fondata a Treviso dai Benetton. È dunque in questo decennio che Marazzi definisce i tratti fondamentali della propria poetica cinematografica: la predilezione per il documentario; la sensibilità per soggetti di respiro sociale, trattati comunque da punti di vista particolari, che diano voce ai singoli e alla loro esperienza; l’interesse per il film d’arte.

Sono queste le premesse su cui si sviluppa il lavoro successivo della regista. Del 2002 è Un’ora sola ti vorrei – realizzato in collaborazione con la montatrice Ilaria Fraioli – che riceve, nello stesso anno, la menzione speciale al Festival Internazionale del Cinema di Locarno e al Festival dei Popoli di Firenze, e il premio come miglior documentario al Torino Film Festival. Realizzato quasi esclusivamente con materiale girato nell’arco di quasi cinquant’anni da Ulrico Hoepli, nonno materno della regista, Un’ora sola ti vorrei si presenta, tecnicamente, come un documentario sulla vita della madre di Alina, Luisella Hoepli, morta suicida nel 1972. Utilizzando il found footage e una voce fuori campo costruita a partire da documenti, lettere e diari scritti dalla donna, dall’adolescenza fino agli ultimi anni della sua vita, il film si serve della grammatica del documentario per ridare voce a un vissuto intimo.

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Riprese: Mathias Becker; suono: Livia Anita Fiorio; montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; animazioni: Gaetano Tribulato

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Jonas Mekas, the Lithuania-born leading film-maker of the so-called New American Cinema, is also a poet and a film critic, curator and activist. Trying to enclose his complex and variegated activity is not only impossible, but essentially meaningless. All his work, whether it belongs to literature, film criticism or film-making, echoes the same deep desire to talk, look and act at the first person. So it seems not to be by accident if the private journal, together with the poetry, early becomes one of his privileged form of expression. From 1944, first in a Nazi Forced Labor and then in a Displaced Person Camp, Mekas begins to keep a written diary (partly published in 1991 with the title of I had Nowhere to Go). When he reaches New York with his brother Adolfas, he buys his first Bolex 16-mm camera and he starts to film everyday life. Only several years later, in 1969, this everyday filming practice produces the first diary film: Walden - Diaries, Notes and Sketches is a montage of his archive footage taken between 1965 and 1968. Together with other following films, particularly Lost Lost Lost, this work becomes representative of Jonas Mekas’ artistic practice: a practice based on a radical subjectivity that rejects every codes from classical cinema, or professional tools and dialogues with the private-writing process and language. There, the gaze of the “displaced person”, the gaze of twentieth-century-Ulysses operates as a center of intersection and displacement between literature and cinema.

Oh canta, Ulisse / Canta i tuoi viaggi / Racconta dove sei stato/ Racconta cos’hai visto / E racconta la storia di un uomo / Che non ha mai voluto lasciare la sua casa / Che era felice / E viveva tra le persone che conosceva / E parlava la loro lingua / Canta di come è stato gettato nel mondo.[1]

Comincia così la prima pellicola di Lost Lost Lost, con un appello alla ‘musa Ulisse’[2] recitato, quasi cantato secondo la tradizione dell’epica, dalla voice-over dello stesso autore che accompagna immagini in bianco e nero di una New York fine anni ’40.

Siamo in realtà nel 1976, Jonas Mekas, poeta e cineasta di origine lituana, vive a New York da ventisette anni ed è già considerato il padre della «rinascita»[3] del cinema americano: collabora da più di vent’anni con il «Village Voice» tenendo una rubrica di recensioni cinematografiche; nel 1954 aveva fondato «Film Culture», rivista dedicata al cinema d’avanguardia e nel 1961 organizzerà la Film-Makers’ Cooperative, che si occuperà di distribuire e diffondere i film del cosiddetto New American Cinema Group; ha già realizzato numerosi film, tra cui quello che lo renderà noto per uno stile compositivo, il cinediario,[4] che accompagnerà gran parte della sua produzione futura. Walden - Diaries, Notes and Sketches, questo il titolo del film nella sua interezza, risale al 1969 ed è costituito dal montaggio di filmati amatoriali realizzati dallo stesso regista tra il 1965 e il 1968. La sua pratica cinematografica è ormai definita e inscritta in una volontà di spostamento, di dislocazione da quell’insieme di norme che fondano il cinema narrativo. Una pratica basata su una soggettività radicale che lo (e ci) pone continuamente ai margini, in una condizione di estraneità a dei codici familiari e riconoscibili. È la pratica dello straniero, del cine-Ulisse, dove la nostalgia, il «dolore del ritorno» è per quella casa perduta delle origini: l’Itaca di Semeniškiai, il villaggio lituano dove l’autore è nato e cresciuto fino alla fuga durante l’occupazione stalinista, ma anche l’Itaca del primo cinema, di quelle immagini semplici e meravigliose che non avevano bisogno di «alcun dramma, di alcuna tragedia, alcuna suspense»[5] per catturare lo spettatore.

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