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Le mie madri (2003) di Nada Malanima è un libro composito, ibrido, che alterna brevi paragrafi in prosa a fitti passaggi in versi: un esperimento ben calibrato di autofiction, che si chiude con una rivelazione per certi aspetti spiazzante:

La cantante-scrittrice nell’ultimo capitolo – che non a caso dà il titolo all’intera opera – confessa l’invenzione di un doppio materno, figura indispensabile per colmare le intermittenze affettive di un’infanzia segnata dalla malattia di colei che con grande tenacia l’aveva messa al mondo. In poche righe emerge il dramma di un’intera vita («adesso che la vita ti ha rimpicciolita io ti guardo e ti odio, perché ho ancora bisogno di te»), e allo stesso tempo si rende manifesta tutta la fragilità di una appassionata donna-bambina. Si tratta di un brano cruciale per intendere il denso groviglio di sentimenti da cui scaturisce l’immaginario biografico e musicale dell’autrice, attraversato da alcuni motivi cardine e da una ‘ossessione’ materna mai banale. Il fantasma di una madre finalmente presente, attenta e dolce («che vive dentro di lei») non è una finzione letteraria ma la proiezione di un desiderio reale, destinato a diventare ritmo, grido, silenzio. E di nuovo letteratura. Nel 2008 Nada pubblica, infatti, Il mio cuore umano, un romanzo in cui quel cupo grumo di illusioni e strappi condensato ne Le mie madri si scioglie in racconto, distillando fatti, memorie, occasioni di una fanciullezza a suo modo felice, prima del brusco ingresso nel mondo dello spettacolo. La storia si arresta lungo i binari del treno che porta Nada a Roma, in vista dell’audizione che avrebbe invertito il senso di marcia della sua esistenza; i lampi abbaglianti dei fotografi, gli studi televisivi, il profumo di celebrità della kermesse sanremese sono ancora lontani: contano solo i battiti di una famiglia un po’ sghemba, le fibrillazioni di una bambina a cui basterebbe qualche carezza in più. Lo stile di Nada è semplice e avvolgente, sa di terra e pianto, a tratti può sembrare scoperto ma conserva una fibra autenticamente poetica, che incanta e commuove.

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L’interesse per i mondo movies – documentari estremi prodotti soprattutto in Italia a partire dagli anni Sessanta – presso la critica è sempre stato piuttosto limitato. A lungo considerati prodotti mistificanti e morbosamente interessati all’oscenità, questi film sembrano invece manifestare una consapevolezza modernissima per quanto riguarda il rapporto problematico fra l’immagine e la realtà, al centro oggi di un intenso dibattito. A partire da una breve ricognizione critica del fenomeno, utile per disinnescare alcuni dei più comuni pregiudizi relativi al filone inaugurato da Europa di notte (A. Blasetti) e Mondo cane (G. Jacopetti, P. Cavara, F. Prosperi), il contributo intende evidenziare alcuni degli elementi più tipici del genere. A partire da una prospettiva in grado di considerare queste opere in una luce intermediale, si cercherà di illustrare come – attraverso precise strategie testuali e paratestuali – i mondo movies abbiano contribuito a problematizzare una certa immagine del cinema documentario e del reale nel suo complesso. Oggetto precipuo dell’attenzione sarà infatti il rapporto osmotico e dialettico fra componente visiva e testuale, senza dimenticare – fra le altre cose – il ruolo fondamentale rivestito dal montaggio, usato in modo originale e consapevole. 

Mondo Cane (Jacopetti, Cavara and Prosperi, Italy, 1962) offers a lurid catalogue of archival film from around the world, focusing on violence, destruction, and sexuality, and especially the brutal engagements between human beings and the animal kingdom. The film inspired the ‘mondo’ cycle and the ‘shockumentary’ genre at large. In spite of the international success of such films, at home in Italy critics and scholars saw them as expressions of degradation and obscenity. Since then these films have been neglected by Italian scholars, largely because of the ideological and political use of the camera which is so typical of style. After a brief recognition of the critical reception of the phenomenon, the paper aims to underline some of the more typical elements of the mondo genre. In so doing the films will be considered from a transmedial point of view: the strategies of construction of a “reality effect” will be analysed focusing on the osmotic relationship between images and voice over commentary. The ideological role of the film editing will be analysed as well in order to problematize the link between the image and its reference in the real world. 

 

1. Ricontestualizzare la critica

La macchina da presa avanza lentamente. L’inquadratura è focalizzata su un individuo di cui vediamo solo le gambe; porta al guinzaglio un cane che cerca in tutti i modi di liberarsi dalla propria catena. Tutt’intorno, in recinti uguali fra loro, altri cani abbaiano rabbiosamente. Il regista ce li mostra in alcune inquadrature laterali, dalle quali emerge senza bisogno di ulteriori commenti lo stato di assoluta inadeguatezza in cui versano gli animali. Il cane, trascinato fino alla sua destinazione, viene spinto nel recinto comune con un calcio e sparisce, seguito dagli altri animali, in una zona coperta e invisibile, con lo spettatore che rimane sovrastato dai suoi latrati. Sullo schermo, intanto, sono passate parole che hanno il sapore di una dichiarazione di poetica: «All the scenes you will see in this film are true and are taken only from life. If often they are shocking it is because there are many shocking things in this world. Besides, the duty of the chronicler is not to sweeten the truth but to report it objectively».

La scena appena descritta è l’incipit di uno dei film che maggiormente hanno impressionato il pubblico internazionale, il documentario ‘maledetto’ Mondo cane. Uscito nel 1962 a firma di Gualtiero Jacopetti, Paolo Cavara e Franco Prosperi, l’opera ha immediatamente riscontrato uno straordinario successo di pubblico, a fronte delle numerose difficoltà relative alla censura e alla possibilità di ottenimento di un visto di proiezione. Il film, assurto oggi a autentico oggetto di culto, ha suscitato reazioni diverse e contrastanti già al momento della sua uscita in sala. La critica italiana dell’epoca, spiazzata dalla struttura linguistica dell’opera e – soprattutto – dalle sue immagini estreme, assume posizioni diverse. In generale si concedere all’opera di Jacopetti una certa capacità nell’orchestrazione visiva del materiale, ma quasi ovunque si contesta il morboso interesse per l’osceno.[1] Nonostante una certa varietà nelle posizioni critiche, nei decenni successivi prenderà piede una linea che tenderà a svalutare completamente l’apporto di queste pellicole alla storia del cinema italiano e a ignorarne anche solo la straordinaria modernità nel trattamento delle immagini e della loro composizione tramite montaggio.[2]

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Una versione più breve di questa intervista è già apparsa su Sentieri selvaggi

 

D: Come è avvenuto il suo incontro con Anna Piaggi, e poi la scelta di dedicarle un documentario?

R: Il film è un ritratto postumo. L’avevo incontrata qui a Milano, la si notava. Insieme ad un’amica costumista dopo che Anna Piaggi è mancata ho avuto occasione di visitare il magazzino dove sono stati depositati tutti i suoi abiti, cappelli e accessori. E mi hanno colpito, non solo per la quantità. Lì mi è venuta la curiosità di tracciare un ritratto di questa donna eccentrica. Mi ha incuriosito la sua personalità originale, quello spirito libero che l’ha portata a dire sempre quello che pensava in un contesto rigido e severo com’è il mondo della moda. Non si è mai affiliata ad uno stilista in particolare, ad esempio. Ha sempre avuto una propria visione della moda che insieme alla sua particolare femminilità ha espresso nel modo di apparire. Come nei miei precedenti film, diversi da questo perché più impegnativi, anche questa volta c’è il tentativo di capire una donna che ha mantenuto la propria autonomia, indipendenza e originalità in un contesto che ha regole precise. Ancora quindi una donna libera e controcorrente, anche nella vita privata.

D: Prima di questo documentario conosceva già il mondo della moda?

R: No, né posso dire di conoscerlo adesso, benché abbia avuto contatti con diverse persone, tutte comunque amiche di Anna Piaggi, libere, stravaganti, originali. Ho tracciato un percorso dell’evoluzione della moda italiana dagli anni Sessanta ad oggi, che è nata principalmente negli atelier romani, e poi con il Made in Italy è diventata un’eccellenza nel mondo. È stato un passaggio non solo di costume, ma anche industriale, perché prima la moda si doveva ai sarti – che all’epoca non si chiavano stilisti o designer – i quali prima dell’avvento del prêt-à-porter lavoravano in modalità artigianale e su commissione. Con l’avvento di altre tecnologie del settore tessile e la diffusione del prêt-à-porter anche la comunicazione della moda è conseguentemente cambiata. Anna Piaggi ha iniziato a scrivere su Arianna, poi su Vogue e in precedenza ha fondato la rivista Vanity. Negli anni ottanta in queste riviste non si parlava tanto di un singolo abito o del colore di tendenza nella stagione in corso, quanto piuttosto di modi di essere e di apparire, di una visione della moda. E nel frattempo la moda è diventata accessibile a più classi sociali. Prima erano in pochi a farsi realizzare abiti in atelier, poi negli anni sessanta e settanta le donne, accedendo al lavoro, sono diventate più indipendenti e hanno iniziato così a potersi permettere ad esempio un abito Missoni alla Rinascente, e ad accedere ad un altro status. Nel mio film ci sono diverse immagini di repertorio che tracciano questo percorso cronologico. Anna Piaggi è stata testimone di tale cambiamento, non da stilista ma da giornalista, persona colta e attenta osservatrice della società. È diventata lei stessa una vetrina del cambiamento e delle provocazioni, di culto soprattutto all’estero in quanto attraverso il modo di vestire esprimeva una visione propria e un collegamento soprattutto con il mondo dell’arte. Le sue doppie pagine su Vogue sono diventare appuntamento fisso per coloro interessati alla moda come espressione di cambiamento sociale, seminando indizi, tracce, intuizioni.

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Il lungometraggio Gesù è morto per i peccati degli altri è stato inserito dalla FICE (Federazione Italiana Cinema d’Essai) tra i Racconti italiani, i documentari al cinema e sarà in distribuzione fino a dicembre 2015 nelle sale italiane associate FICE.

Nel video che qui presentiamo la regista Maria Arena e la sceneggiatrice Josella Porto chiariscono come il film abbia voluto oltrepassare il facile tentativo di raccontare un luogo e i suoi abitanti – ammaliante quartiere sdrucito e prostitute e trans dai vissuti densi – inerpicandosi per la via scoscesa e intrigante dell'intreccio tra verità e finzione, tra vite vissute ed echi letterari, tra delicata indagine etnografica e invito narrativo a fermare lo sguardo per penetrare la complessità.

 

Catania, luglio 2015

videomontaggio: Mauro Maugeri; grafica e animazioni: Gaetano Tribulato

 

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Una donna emerge dal buio: il busto di tre quarti, il volto semicoperto da una veste, una mano alla bocca e le sopracciglia leggermente aggrottate. Lo sguardo cattura l’attenzione, l’unico occhio che le si vede è velato, metallico, innaturale: cieco. Si tratta del ritratto fotografico di una rifugiata, scattato nel 1985 in Mali da Sebastião Salgado.

La voce che ce lo rivela è quella di Wim Wenders, regista del documentario Il sale della terra, diretto a quattro mani con il videomaker Juliano Ribeiro Salgado che ha iniziato la propria carriera seguendo il padre in alcune campagne fotografiche.

È difficile stabilire se il regista tedesco dica la verità quando racconta di aver acquistato la foto in questione da un gallerista molti anni prima, senza conoscerne l’autore, attirato solo dalla forza magnetica del non-sguardo espressivo e dolente di quella donna e dalle ombre pesanti che le disegnano il volto e le mani. O se questo non sia solo un espediente narrativo per mettere in moto la trama del documentario che parla della vita (delle ‘vite’, verrebbe da dire) e delle opere di Sebastião Salgado. Classe 1944, brasiliano, studi in Economia, in fuga dal proprio paese sul finire degli anni ’60 durante la dittatura. Dopo l’arrivo in Europa con la moglie Lelia, Salgado dapprima gira il mondo al seguito di alcune importanti aziende per le quali lavora. Nel 1973, d’accordo con Lelia, decide di abbandonare la professione di economista e di seguire la propria vocazione di fotografo. Si assenta da casa per settimane, e a volte mesi, per inseguire i propri soggetti: lavoratori, profughi, bambini, donne. Si reca più volte in Africa (Mali, Mozambico, Angola), in America Latina, in Medio Oriente, in Artide. E ogni volta che imbraccia la sua inseparabile Leica scandaglia i corpi e le anime delle persone che ritrae, senza mai mancare di rispetto al loro dolore, anzi riesce a tal punto a imprimere nelle immagini le sofferenze dei soggetti ritratti che queste sembrano risuonare attraverso le fotografie. Da tali lunghi viaggi scaturiscono le sue opere, monumentali sia per la quantità degli scatti che per la forza espressiva: Other Americas (1986), frutto del suo lungo soggiorno tra le comunità andine del suo continente; Sahel: Man In Distress (sempre 1986), sulla terribile carestia che aveva afflitto la regione africana; Workers (1993) una sorta di internazionale dei lavoratori di tutte le latitudini; e infine Genesis (2003) monumentale fatica (fino ad un mese fa in mostra anche a Milano) in cui l’elemento umano lascia spazio al paesaggio, in un corpus di immagini che sembra realizzato nella notte dei tempi, all’origine di tutto.

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Abbiamo approfittato della sua presenza per riannodare i fili di una conversazione già avviata al tempo di Terramatta, e anche in questa circostanza l’esito del confronto è stato un dialogo appassionato, uno scambio di idee su realtà, narrazione, linguaggi. Per Quatriglio il cinema è questione di orgoglio e appartenenza, è una forma di resistenza e insieme di sfida al presente, è uno stato mentale ma anche un mestiere con cui sporcarsi le mani - e gli occhi. La sua produzione, ormai ricca, alterna forme e generi differenti ma trova nel documentario la cifra stilistica dominante, sebbene mai scontata. Quel che stupisce poi, oltre alla tempra delle sue opere, è la qualità del suo ragionamento sulla natura e le potenzialità del cinema italiano, la propensione – per niente ovvia – verso la critica, intesa come esercizio di pensiero e (auto)riflessione.

Da qui nasce la scelta di ripubblicare Oltre la soglia. La nuova radice del documentario italiano (saggio apparso sulla rivista di studi «Cinema e Storia» n. 2/2013 per Rubbettino nella sezione Stile libero) una sorta di manifesto programmatico, che anticipa la ‘rivincita’ del documentario avvenuta nei mesi scorsi con Sacro GRA, Tir, e Con il fiato sospeso. Prima che le giurie si accorgessero della coerenza e del rigore dei documentari italiani, Quatriglio rivendicava l’urgenza di un ‘cinema dell’attenzione’, nonché la necessità di nuove strategie produttive. A distanza di un anno quelle parole servono a riconsiderare i traguardi del cinema italiano alla luce di un’identità possibile, ma ancora da costruire.

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Poco più di un anno fa Costanza Quatriglio scriveva un intenso pamphlet* in cui poneva al centro della sua lucida riflessione la forza (e la necessità) di un ‘cinema dell’attenzione’, capace di superare i vincoli e le censure di produttori e case di distribuzione. Riproponiamo oggi quel testo per ribadire l’urgenza di un cambio di rotta delle logiche di produzione e per rivendicare uno spazio di libertà e d’azione che consenta agli autori di costruire una sempre più convincente ‘drammaturgia della realtà’.

In Italia, negli ultimi dieci anni, è fiorito un cinema che mi piace definire il ‘cinema dell’attenzione’. È quel cinema fortemente legato al sentimento del nostro tempo, che fa dell’ascolto la sua forza, dell’esperienza il proprio fondamento. Nel cinema dell’attenzione la restituzione è qualcosa di più del risultato di un procedimento di analisi e sintesi; ha a che fare con l’interpretazione e con la scelta del punto di vista, quello attraverso cui ogni cosa ha valore perché fa parte di un disegno organico, coerente, di bellezza e necessità, che è la drammaturgia.

È un cinema capace di raccogliere le istanze di comprensione del presente, di cittadinanza, di partecipazione. Usa l’esperienza come veicolo per raccontare storie importanti, che ci riguardano, per proporre personaggi che siano davvero nella Storia, capaci di cogliere le trasformazioni e interpretare il proprio tempo. È sorprendente trovarsi nel mezzo della Storia e capire che puoi esserci, devi esserci. Perché le tue storie e i tuoi personaggi sono radicati nel loro tempo e portano con sé il futuro, perché le vicende che li riguardano parlano di tutti noi, di chi siamo e di cosa diventeremo.

È il cinema che si interroga sul linguaggio, che non ha paura di mescolare il documentario con la finzione, che non si considera sperimentale quando usa entrambi i linguaggi, perché entrambi i linguaggi li ha praticati, assimilati.

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Paolo Benvenuti (Pisa, 1946) ha una formazione pittorica e si avvicina al cinema nella seconda metà degli anni Sessanta attraverso la frequentazione di seminari dedicati al cinema d’avanguardia, all’underground e a Roberto Rossellini. Nei primi anni Settanta segue sui loro set prima Rossellini e poi Jean-Marie Straub, i quali, in modo diverso, segneranno la sua rigorosa e coerente concezione di cinema. Sempre in quel giro di anni Benvenuti comincia a girare i primi documentari, tra cui Del Monte pisano (1971) e Medea, un Maggio di Pietro Frediani (1972), che rimangono testimonianze importanti di un recupero della cultura contadina come depositaria di moduli recitativi e narrativi che influenzeranno molti dei suoi lavori a venire. Nel 1974 è la volta del lungometraggio Frammento di cronaca volgare, incentrato sull’assedio di Pisa da parte dei fiorentini dal 1494 al 1509. Benvenuti comincia qui il suo lavoro sulle fonti documentarie che costituiscono la base di partenza della gran parte dei suoi film, ma Frammento di cronaca volgare risente eccessivamente del magistero straubiano e Benvenuti attraverserà un momento di crisi che si risolverà qualche anno dopo con il notevole corto Il cartapestaio, nel quale il regista si emancipa dai suoi modelli e chiarifica la sua idea di cinema.

Dopo altre prove documentarie, nel 1988, alla Settimana della Critica della Mostra del cinema di Venezia, Benvenuti presenta il lungometraggio Il bacio di Giuda, film dall’andamento ieratico e solenne che trae spunto dal libro di Mario Brelich L’opera del tradimento, nel quale viene riconsiderata sotto altra luce la figura di Giuda Iscariota. Il film scatenerà enormi polemiche che ne renderanno difficile la distribuzione. Quattro anni dopo è la volta di Confortorio, che racconta di come i padri dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato tentarono di convertire due ebrei condannati a morte per furto con scasso. Il film, caratterizzato da scelte cromatiche e luministiche che rendono alla perfezione il senso del tormento, vincerà il Premio della Giuria dei Giovani al Festival di Locarno e il Gran Premio della Giuria al Festival di Montpellier. Nel 1996 esce Tiburzi, elegia dedicata alla mitica figura dell’omonimo bandito maremmano, mentre nel 2000 Gostanza da Libbiano – messa in scena degli atti processuali relativi al processo per stregoneria di Monna Gostanza – vince il Gran Premio della Giuria al Festival di Locarno. Nel 2003 porta in concorso alla Mostra di Venezia Segreti di Stato, che getta nuova luce sui fatti relativi alla strage di Portella della Ginestra e dà forma filmica a parte delle meticolose ricerche compiute da Danilo Dolci intorno a quella vicenda. Il film è una sorta di impegno preso da Benvenuti nei confronti di Dolci stesso, cui è dedicato. A Venezia Benvenuti tornerà nel 2008 con Puccini e la fanciulla, evento speciale fuori concorso. Il film, privo di dialoghi e tutto giocato su sperimentazioni contrappuntistiche di musica e rumori, ripresenta la tragica storia di Doria Manfredi, la servetta di casa Puccini morta in circostanze misteriose. Anni di ricerche hanno portato Benvenuti e i suoi collaboratori a compiere scoperte straordinarie che hanno cambiato anche la storia biografica di Giacomo Puccini. Attualmente, Paolo Benvenuti sta lavorando ad un progetto sul Caravaggio.

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Qui di seguito la trascrizione integrale dell'intervista. Si ringrazia Livia Giunti per l'ospitalità e l'assistenza.

Riprese audio e video: Livia Giunti; Montaggio: Salvo Arcidiacono, Gaetano Tribulato, Luca Zarbano; Animazioni: Gaetano Tribulato

D: Il tuo incontro con il cinema si perfeziona attraverso il rapporto con due registi tra loro diversi come Roberto Rossellini e Jean-Marie Straub. Puoi dirci qual è stato il tuo percorso, cosa ti hanno dato l’uno e l’altro e perché hai sentito che erano quelli i modelli da seguire?

R: La mia storia cinematografica non comincia con Rossellini e Straub ma comincia, praticamente, da quando sono nato, perché in casa mia mio padre faceva il documentarista: il puzzo della pellicola io in casa l’ho sempre sentito. Non solo, la cosa interessante è che i fratelli Taviani, che sono di San Miniato e che sono venuti a studiare all’università a Pisa, amando il cinema hanno conosciuto mio padre e insieme a lui hanno realizzato alcuni documentari, per cui quando ero piccolo io ho visto mio padre con la cinepresa, ho visto i Taviani e mio padre che lavoravano ai loro documentari. Ma, forse, proprio perché il cinema era il linguaggio di mio padre, io crescendo non mi sono avvicinato al cinema con interesse, anzi, devo dire che al cinema andavo a vedere i film di cowboy e indiani, ma del Cineclub che mio padre organizzava sempre con i Taviani e dei film cosiddetti ‘intellettuali’ e ‘culturali’ io non ne volevo sapere assolutamente niente. Per me il cinema era uno svago e basta.

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