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L'Antropocene è un'ipotesi scientifica che dà il nome al nuovo periodo geologico in cui la Terra e la sua atmosfera sono state trasformate dalle attività umane (in particolare dallo sfruttamento dei combustibili fossili), e che di fatto ha spinto il clima terrestre sull'orlo del collasso. Reso popolare nel 2000 durante il convegno dell’International Geosphere-Biosphere Programme,[1] grazie all’accordo tra il biologo naturalista Eugene F. Stoermer, che lo aveva proposto fin dagli anni Ottanta, e il premio Nobel per la chimica Paul J. Crutzen, il termine Ê»antropoceneʼ è ormai oggi entrato nell’uso e si è molto diffuso, anche perché le conseguenze del cambiamento climatico sono sempre più presenti e tangibili. Spesso abusato e di recente messo in discussione e sostituito da altri – si pensi ad esempio ai concetti di Wasteocene,[2]Chtulocene[3], Capitalocene[4]… – è innegabile che viviamo in un periodo caratterizzato dal preoccupante aumento delle conseguenze dell'attività umana sull'ecosistema. Alla luce di quanto sta accadendo intorno a noi risulta chiaro, infatti, quanto sia impellente e necessario acquisire consapevolezza sul valore Ê»politicoʼ delle decisioni assunte nell’ambito, ad esempio, della pianificazione territoriale, del funzionamento economico e dell’organizzazione industriale o sociale per garantirne la sostenibilità.

In tal senso, una nuova consapevolezza ecologica si sta facendo strada all’interno di una massa critica mondiale sempre più consistente e numerosa. Essa ha preso coscienza della complessità del problema: preservare l’ambiente, limitare i danni dell’impatto antropico significa prendere in considerazione, ad esempio, la demografia e gli effetti perversi della mondializzazione, della disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza con il conseguente aumento dei flussi migratori. In altre parole: si può leggere e comprendere il contemporaneo solo attraverso il prisma della diversità dei territori e delle disuguaglianze socio-spaziali.

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Parrebbe databile all’ultimo decennio un’attenzione finalmente costante a un fenomeno invece assai più di lunga durata qual è il fototesto, sia in quanto oggetto di studio che come definizione, e più annosa la cosa che la parola, se è vero che la prima risale a Georges Rodenbach, Bruges-la-morte (1892), e la seconda a Wright Morris, The Inhabitants (1974). Più di ottant’anni. Il fatto è che per la resistenza teorica diffusa verso gli oggetti ibridi e non classificabili, si è dovuto attendere che il fototesto venisse derubricato da genere letterario a oggetto nella gamma dei mixed media.

Ora il fototesto riceve in Italia una sistemazione teorica in questo volume di Giuseppe Carrara, Storie a vista. Retorica e poetiche del fototesto (Mimesis, 2020), destinato a essere maneggiato a lungo dagli studiosi e dagli studenti, per la completezza e l’apertura dell’informazione sulle teorie, per l’originalità con cui affronta i nodi e propone (provvisorie) soluzioni e definizioni (la ‘retorica’ del sottotitolo), ma pensiamo soprattutto per l’efficacia con cui le teorie e i metodi servono alla lettura di testi disparati (le ‘poetiche’), con l’ambizione di designare un canone del fototesto ma più efficacemente – riconosce infine lo stesso autore – di tracciare percorsi. E testi si dice qui per comodità, non intendendo un ‘enunciato scritto’, perché deve abbandonarsi ormai l’idea gerarchica per cui l’immagine debba servire alla parola. Ed è anzi questo, poi, il dubbio: funzionerebbero i fototesti anche senza immagini? Come mai la parola letteraria ha bisogno delle immagini? Non ha più nel mondo in cui viviamo l’energia di produrre autonomamente immagini (le images, le immagini immateriali che si formano nella mente del lettore, di cui parla W.J.T. Mitchell), che sarebbe poi il mestiere della letteratura?

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Abstract: ITA | ENG

Il contributo prende in esame l’attività poliedrica di Giovanna Brogna/Sonnino proponendo un confronto tra le differenti aree di ricerca (fotografia, cinema, arti visive) esplorate dall’artista che ama sconfinare tra tecniche e linguaggi spesso incrociati tra loro. L’analisi del libro d’artista Lettere al Dott. B. 1979-1987 (2019), raccolta di lettere battute a macchina indirizzate allo psicanalista di Brogna Sonnino e accompagnate da materiale eterogeneo (cartoline, fotografie, collage, fotocopie), offre l’occasione per ripercorrerne gli esordi da cineasta e l’approdo alle arti visive e di individuare alcune consonanze importanti fra i suoi diversi campi di ricerca: l’archivio come pratica artistica, la contaminazione tra verbale e visuale e il connubio tra arte e terapia. Dal suo linguaggio originale, apprezzato in occasione di mostre e rassegne promosse in Italia e all’estero, scaturiscono opere di grande interesse in cui si riscontra il ricorso a un’efficace strategia fototestuale che guarda alla forma atlante e all’autobiografia come forme espressive privilegiate.

The essay analyzes several areas (Photography, Cinema, Visual Arts) of Giovanna Brogna Sonnino’s research with a focus on the hybrid nature of Lettere al Dott. B. 1979-1987 (2019). This artbook is an unconventional way of narration that combines a collection of letters to her psychoanalyst with an heterogeneous variety of visual content ranging from postcards to collages. Lettere al Dott. B. 1979-1987 represents the ultimate essence of Brogna/Sonnino’s work: the archive as an artistic message, the contamination between verbal and visual, and the merge between art and therapy. Relying on different media, techniques and strategies including also fototexts and atlas, the artist composes a very personal and original autobiography.

 

 

 

1. Autobiografia e (auto)terapia

 

Giovanna Brogna/Sonnino è un’autrice versatile e dall’ampio orizzonte culturale che ama sconfinare tra tecniche e linguaggi spesso incrociati tra loro.[1] Alla fine degli anni Settanta, dopo la formazione storico-artistica tra Firenze e Catania, Brogna/Sonnino si trasferisce a Roma, dove si interessa al mondo del cinema e della televisione grazie alla specializzazione come cineoperatrice.[2] Negli stessi anni si dedica alla fotografia ma la sua prima mostra è del 1986. All’attività lavorativa per la RAI si affianca quella altrettanto prolifica di autrice e produttrice indipendente che mai abbandona l’imprinting del cinema dato dall’insieme di narrazione e ritmo. Con Mathelika e Drifting Pictures Brogna/Sonnino realizza film, docufilm e documentari e parallelamente si cimenta nella sceneggiatura, attività emblematica di un immaginario conteso tra gli ambiti della visualità e della scrittura.[3] Bruno Di Marino coglie precocemente l’importanza di questo nesso nel video Parliamone (1998):

 

 

Con questi linguaggi espressivi Brogna/Sonnino sperimenta un originale intreccio iconotestuale che si basa sul rapporto simbiotico tra arte, vita e terapia ed è riconducibile alla pratica dell’accumulazione terapeutica di oggetti d’affezione attraverso l’archivio. Lo sguardo sull’archivio è infatti presente nei suoi diversi (e forse complementari) progetti, accomunati dalla logica dell’atlante e dal prelievo di immagini preesistenti, che consentono all’artista di pervenire alla definizione della propria identità.[5]

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Il titolo del recente volume di Margareth Amatulli costituisce uno di quegli esempi di felice sintesi che consente, a chi si accosta alla lettura, di prefigurarsi esattamente cosa andrà incontrando nel testo. Scatti di memoria. Dispositivi fototestuali e scritture del sé (Metauro 2020) esibisce, infatti, i tre elementi attorno cui l’autrice costruisce una fitta rete di snodi –aperture verso un ventaglio di significati possibili – e nodi – punti di congiunzione, di contatto – a partire da quattro opere di autrici e autori francesi apparse negli ultimi trent’anni. Fotografia, memoria e letteratura del sé – quest’ultima interpretata volutamente in una costante oscillazione tra autobiografia e autofiction – costituiscono le chiavi interpretative per accedere a quattro testi che non esauriscono certo le modalità di interazione tra photolittérature – così come l’ha definita Jean-Pierre Montier, convocato da Amatulli nel primo capitolo del saggio – e memorialità, intesa in senso sia individuale che collettivo. D’altronde non è questo l’obiettivo del volume, che non mira tanto, o solo, a inserirsi all’interno del dibattito teorico sulla fototestualità, dibattito i cui esiti vengono comunque ben sintetizzati nel primo capitolo, che ripercorre le proposte classificatorie, fornite da numerosi teorici della semiotica e della letteratura, di un genere che per sua stessa natura elude ogni definizione eccessivamente restrittiva; scopo del saggio è piuttosto quello di prendere le mosse dagli apparenti confini caratteristici dei generi – non solo quello fototestuale, ma anche le forme molteplici riassumibili nelle ‘scritture del sé’ – per mostrarne la porosità nel momento in cui tali dispositivi devono fare i conti con una costante culturale, all’incrocio tra bíos e mimesis, come la memoria, tema che appartiene statutariamente tanto all’atto fotografico quanto alla scrittura dell’io.

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Abstract: ITA | ENG

Strutturato come dispositivo fototestuale stratificato, che è al contempo reportage di viaggio, narrazione odeporica, racconto fotografico, guida turistica, Tutta la solitudine che meritate, formato dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, è un libro atipico ed eterogeneo in cui scrittura e immagine si combinano e si scombinano reciprocamente, dando vita a un palinsesto intermediale in cui il reale non è solo una dimensione da testimoniare, interpretare e documentare, ma diviene anche oggetto di una puntuale rifigurazione verbale e visiva. Alternando prospettive, sguardi, medium differenti, il libro interroga le possibilità di conoscenza, visione e rappresentazione di uno spazio altro, estremo – l’Islanda – problematizzando le risorse percettive insite nella letteratura e nella fotografia. Il saggio si propone di indagare le diverse modalità espressive, le strategie compositive opposte ma complementari con cui scrittura e immagine, in costante equilibrio tra raffigurazione e risemantizzazione, tra produzione e riproduzione dell’esistente, si approssimano, interagendo internamente, alla realtà circostante tentando di fornire prospettive rinnovate,  significativamente feconde, e nuovi indirizzi di senso e ricerca.

Structured as a layered phototextual device, that is at the same time travel reportage, odeporic narration, photographic narration, tour guide, Tutta la solitudine che meritate, formed by the texts of Claudio Giunta and the photographs of Giovanna Silva, is an atypical and heterogeneous book in which writing and image combine and break down each other, giving life to an intermedial schedule in which the real is not only a dimension to witness, interpret and document, but also becomes the subject of verbal and visual refiguration. Alternating perspectives, looks, different mediums, the book questions the possibilities of knowledge, vision and representation of another, extreme space – Iceland – problematizing the perceptual resources inherent in literature and photography. The essay aims to investigate the different modes of expression, the opposing but complementary compositional strategies with which writing and image, in constant balance between depiction and resemantization, between production and reproduction of the existing, approximate, interacting internally, to the surrounding reality trying to provide renewed perspectives, significantly fruitful, and new directions of meaning and research.

1. Spazi da scrivere

Questo lungo periodo, posizionato a metà di pagina 35, rappresenta una pregnante mise en abyme concettuale di Tutta la solitudine che meritate, volume composto dai testi di Claudio Giunta e dalle fotografie di Giovanna Silva, pubblicato nel 2014 nella collana ‘Travel Books’, gestita in cooperazione dalle case editrici Humboldt e Quodlibet. Il periodo summenzionato contiene, infatti, tra le righe il nucleo fondante dell’interrogativo che abita in maniera carsica le pagine e le immagini contenute in questo libro stratificato e composito, che è al contempo reportage di viaggio eterodosso, arguto baedeker, atipico diario iconografico, in cui le diverse sezioni – il racconto odeporico, la sezione fotografica, il dossier letterario, le informazioni pratiche per il viaggio (consigli utili per i voli, gli spostamenti, i pernottamenti, gli approvvigionamenti) – si integrano e si completano traendo sostegno dalla struttura globale dell’opera, in definitiva armonizzante e unitaria. Come indagare narrativamente e visualmente il tempo attraverso lo spazio e lo spazio attraverso il tempo personale del viaggio?

Minaccia, esortazione o – come suggerisce Sabrina Ragucci – «oggettiva condizione della nazione»,[2] il titolo di questo elaborato dispositivo fototestuale non solo esibisce immediatamente le ragioni e le condizioni che popolano le fondamenta dell’esperienza raccontata, ma soprattutto illumina l’aspetto focale che viene messo in gioco quando si parla di Islanda, una nazione con densità abitativa media tra le più basse al mondo: la solitudine e le sue più manifeste declinazioni. Fondato sull’intreccio strutturale, coagulato e coeso, di elementi disparati – non fiction, memorialistica, fotografia, resoconto storico, trattato sul costume, dossier letterario, intervista, mappe –, Tutta la solitudine che meritate è un’opera fortemente intermediale e intertestuale, che fonda la propria ragion d’essere sulla riuscita dialettica interna che ne anima la progressione e ne consente una fruizione ad elastico. Nell’economia del libro testo e immagine si fanno correlativi di un racconto similare ma non sovrapponibile, attuando inevitabilmente strategie compositive differenti e mutevoli. L’alternarsi dualistico di diversi sguardi e punti di vista, in cui s’inserisce nel finale la presenza di ulteriori angolazioni e focalizzazioni – il Dossier Islanda, l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer – mette in gioco e problematizza reiteratamente le tre polarità proprie di ciascun regime scopico – immagine, dispositivo, sguardo –, collaborando a creare un palinsesto eterogeneo in cui ogni acquisizione interna ed esterna al libro è temporanea, relativa, suscettibile d’essere ampliata, contraddetta, obbligata ad essere rimessa in discussione nel prosieguo delle varie parti che si susseguono. La prima sezione, che ha lo stesso nome del libro, è dedicata interamente al resoconto esperienziale del viaggio intrapreso, inframmezzato rapsodicamente da immagini fotografiche (sedici su un totale di settantatré pagine) di piccolo formato, 5cm x 8cm, compendio visivo che puntella il testo e fornisce dimostrazioni iconograficamente fedeli e rispondenti alle constatazioni che il testo effettua nel suo farsi. In questa prima parte del volume le immagini, anche a causa della monocromia imposta dal bianco e nero, emergono di poco rispetto al corpo e alla trama segnica del testo che le circonda, svolgendo perciò un compito prettamente informativo. La storia di Giunta e Silva, la storia del loro viaggio, è un percorso nel macrospazio d’Islanda in cui «la potenza geodetica»[3] del tragitto funge da finestra aperta sul quotidiano dell’estremo Nord, alle propaggini terminali dell’abitabile, un tramite per comprendere i moti che serpeggiano al fondo di una terra che impone innanzitutto di resistere al bisogno intrinseco di socialità che si palesa con intensità e frequenza variabile in ogni essere umano, all’interno di un perimetro geografico che per naturale fisiologia topografica propone una costante verifica della possibilità di fare a meno dell’altro e degli altri. D’altronde, in Islanda il comportamento dell’uomo, ciclico, reiterato in forme pressoché identiche da centinaia di anni e ancora legato a primarie esigenze di sopravvivenza, è frutto di una meccanica ma salvifica coazione a ripetere, capace di autogenerarsi e autosostenersi a prescindere dai segnali spesso impalpabili del divenire esteriore. Qui il tempo, così come il fluire delle stagioni, è sfilacciato, alineare, indistinto e produce effetti meno evidenti sul circostante e sul contingente, tanto che alcuni anfratti così remoti da essere irraggiungibili sopravvivono in una dimensione di apparente astoricità, o per meglio dire, entro una dimensione della temporalità che trascende la storicità umanamente intesa, così come la temporaneità caratteristica degli spazi industrializzati, votati alla produzione e al consumo. La geografia umana e quella territoriale-ambientale sono direttamente proporzionali, ma è la seconda a decidere effettivamente le propaggini caratterizzanti della prima. Se il tempo della lunga durata rimane indifferente, altèro, è destinato a perdere valore ermeneutico e dev’essere perciò esplorato attraverso lo spazio, elemento dalle sottovalutate qualità euristiche che ne veicola le manifestazioni pregnanti nell’avvicendarsi degli ambienti e dei paesaggi. Lo spazio è allora destinato ad assurgere a «ecosistema esistenziale, in cui il soggetto percepisce sé stesso e le relazioni con gli altri che vi abitano».[4] A differenza di quello che accade in gran parte del macrocosmo occidentale, in particolare negli ambienti urbani e metropolitani, dove si progredisce a rapide falcate verso un futuro di luoghi-non-luoghi, sedi «del tempo rettilineo della finitezza autofondata e autofinalizzata»,[5] in Islanda «lo spazio ha un significato esatto»[6] e i paesaggi vuoti – almeno per l’occhio di una persona abituata a ben altre percentuali di consumo di suolo –, omogenei e ripetitivi che lo caratterizzano sono una regola assoluta, un pegno imprescindibile, uno schiaffo inconsapevole alla brama antropomorfica di chi vorrebbe essere sempre posizionato in un luogo potenzialmente razionalizzabile, recettivo, servibile, collegabile opportunamente ad altre forme di vita, riconducibile in fondo a una percezione umanizzante del reale. In un contesto così strutturato, l’umano appare conseguentemente come un’eccezione e la solitudine che l’avvolge e lo accompagna è talmente palpabile, talmente presente da configurarsi non come uno stato emozionale – uno tra i tanti –, bensì come una condizione vincolante e irriducibile. Anche la natura, o almeno le declinazioni naturali a noi più vicine e assimilabili – boschi, foreste, fiori – sono sparute e refrattarie, quasi inesistenti. Ciò che continua a sorprendere Giunta, nonostante il numero dei suoi viaggi sull’isola stia per raggiungere la doppia cifra, è il fatto che «l’oggetto Islanda […] s’impone sui soggetti»,[7] di modo che la superficie elementare, essenziale, che ne riveste l’aspetto esteriore si presta poco a ermeneutiche forzose o coercitive, è poco suscettibile a sovradeterminazioni polisemiche atte a trasformare l’oggetto d’osservazione in simbolo o in allegoria. Non è una natura da idolatrare o alfabetizzare, rifugge gli astrattismi e le appropriazioni indebite. La materia pervadente che riveste spazi dilatati e sempre identici a sé stessi, distese aride e brune in cui nulla è a portata di mano, oppone una strenua resistenza a ogni facile tentativo di trascendenza, a ogni impulso di elevazione spirituale che per una collaudata quanto mistificante osmosi dovrebbe verificarsi senza eccezione in luoghi impervi e desolati. Giunta opera, assecondando un movimento antinomico a quello che percorre solitamente la letteratura di viaggio, una consapevole e puntuale operazione di demitologizzazione e defeticizzazione dei luoghi raccontati, li emancipa dalla «topografia dell’immaginario»,[8] per restituire loro, a costo di apparire prosastico, una verità altra, fattuale, decongestionata. Sembra che la prosa di Giunta, mai concettosa e sempre divertita, a tratti caustica, sostenuta da un registro piano e colloquiale che non lesina apostrofi dirette al lettore, tenda proprio a voler smorzare l’idealizzazione romantica e artificiosa che storicamente connette – almeno dal periodo del ‘sublime’ romantico in poi – in maniera stringente luoghi brulli, solitari, estremi, a pensieri profondi, sofferti e a intensi e proficui momenti di riflessività. L’afflato antilirico, anti-idillico e disincantato che sorregge e sostanzia il racconto-conversazione di Giunta è utile poi ad allargare l’indirizzo precipuo del narrato ad altre componenti argomentative che si accostano al flusso principale a mo’ di reticolo alveolare, come ad esempio i passaggi dal sapore trattatistico-documentario incentrati sulle manifestazioni più tipiche del turismo in salsa islandese e sulle costanti sociali e folkloristiche che scandiscono il rapporto tra stranieri e autoctoni, i brani analettici che rievocano viaggi precedenti e istituiscono un altalenante dialogo intratestuale e comparativo tra presente e passato, anacronie minime utili a rimarcare le divergenze sviluppatesi e ad estendere la prospettiva dello scrivente e del lettore, o le considerazioni personali che incrementano la presenza e la voce autoriale. Inoltre, le intersezioni di carattere ricognitivo storico-politico – indice primario e maggiormente riscontrabile di una tendenza diffusa alle digressioni e all’aneddotica –, non solo rispondono alla funzione di contestualizzare e tratteggiare un approssimativo quadro informativo, ma altresì arricchiscono il sostrato narrativo, ampliandone il portato e intensificandone l’interesse. I brevi intermezzi lirici – Rilke, Sereni, Borges – fungono invece da contraltare denotativo, dunque rivelatorio di una sensibilità acuitasi di fronte a certe persone, luoghi, eventi, alla scrittura piana e orizzontale di Giunta, attento, come già accennato, a evitare patetismi e a non scadere nel sentimentalismo retorico in cui rischia di rimanere irretito nel descrivere le toccanti vicende che si celano dietro le vite sorprendenti degli interlocutori con cui entra in contatto. Del resto, uno dei fenomeni più frequenti che pare innescarsi durante la visita o il soggiorno in Islanda è uno sfasamento profondo della percezione e dello sguardo, una sproporzione tra ciò che ci si immagina e la realtà tangibile. Entro le spire di un’atmosfera sospesa e rarefatta, quello che appare allo sguardo interpretante dello straniero, abituato a determinati sistemi di pensiero e valutazione, non è ciò che realmente è; il processo attivo nel soggetto percipiente, dal momento che percepire è «sempre percepire da un qualche programma d’azione all’interno di un mondo che è già fortemente intriso di valore per chi lo abita»,[9] tende a confondere, a corrompere e a trasfigurare il noumeno, lo scheletro fondante del percepito, assegnandogli significati impropri e imprecisi. È l’uomo ad applicare alla fenomenologia del reale un consolidato canone di bellezza, a decriptare i segni dell’altro da sé attraverso un pregresso bagaglio di conoscenze e mediante il filtro del proprio immaginario. La cognizione di tutto ciò che si pone al di fuori deriva dal filtraggio continuativo introdotto dalle nostre categorie di interpretazione e riflessione, dalle nostre articolate tassonomie e ingegnose casistiche, eppure, da secoli l’Islanda pare soprassedere agli assalti, alle catalogazioni, alle mode passeggere. In Islanda l’uomo acquisisce chiara consapevolezza del proprio fallimento, il fallimento di non poter essere altro che sé stesso e di non poter possedere nient’altro rispetto a quello che possiede già. L’isola decentralizza l’uomo, lo marginalizza, lo allontana dalla cabina di comando a cui è ancorato e lo restituisce alla sua esiguità, alla sua caducità. La natura in Islanda è un sostitutivo ‘logico’ delle forme artistiche, storicamente latenti in un paese che non ha mai avuto un ceto aristocratico o alto borghese che potesse permettersi un’esistenza dedita all’arte e al mecenatismo. Essa appare magnificente e intimorente, ma ciò che davvero la declina e la trasfigura, mutandone l’aspetto e la fisionomia, è la luce, una luce che scolpisce e influenza l’osservazione esterna, ne orienta il sentimento e ne estende il momento dell’appercezione. Il paesaggio in Islanda, luogo in cui la morte e la privazione sono elementi storicamente ordinari, parla un linguaggio muto, capace però di determinare l’umore di chi lo guarda e lo attraversa, decretandone gli apici e le svolte improvvise. Per questo motivo, per non dipendere eccessivamente da un clima né amico né nemico, che conduce l’essere umano a riconsiderare le virtù insite nel limite e nella stasi, a raggiungere l’apogeo della frugalità, è necessario coltivare l’interiorità, ispessire il proprio baricentro intimo, le proprie risorse caratteriali. Giunta si sofferma a più riprese sulla paradossale seduzione esercitata dal monotono, dal ripetitivo, una seduzione espressiva che trasla dal piano tematico a quello formale mediante i vuoti, le espunzioni del discorso intrapreso e non attraverso i pieni, le forzature illustrative e conative. In un mondo socializzato e aperto, globalizzato e interconnesso, in cui ogni fenomeno pretende d’essere significativo e di destare attenzione, le parole di Giunta, sovraesponendo fedelmente la dignità dell’ordinario, costituiscono un sincero e sentito elogio del marginale, del contro-egemonico, dell’antiestetico, del normale. Il Dossier Islanda che segue la sezione iconografica è un innesto ibrido, di carattere letterario, costituito da tre microaree: un commento critico a Gente indipendente (1935) di Halldór Laxness (premio Nobel per la letteratura nel 1955), un commento critico a Letters from Iceland (1937) di W. H. Auden e al libro eponimo di Jean Young, e infine l’intervista di Barbara Casavecchia a Roman Signer, artista svizzero particolarmente legato all’Islanda. Questa sezione aggiuntiva permette non solo di gettare nuova luce, con la relativa dose di paragoni e differenziazioni, sul passato della terra islandese, ma anche di estendere e impreziosire il ventaglio di lettura, conoscenze e discernimento. Rappresenta, inoltre, una modalità comparativa di attraversamento del reale che si avvale della sonda letteraria e artistica, spesso capace di rivelare ciò che la realtà medesima tende a nascondere.

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Abstract: ITA | ENG

L’articolo prende in esame l’inserimento della fotografia nel testo autobiografico contemporaneo francese secondo una prospettiva di genere e diacronica, a partire dagli esordi, rintracciabili nell’opera di Claude Cahun Aveux non avenus (1930), fino al contemporaneo. L’obiettivo è di riconoscere le peculiarità di questa produzione e individuarne i nuclei semantici nell’ambito della letteratura francese al femminile dagli anni Novanta. L’analisi dell’opera delle scrittrici che si sono servite dell’immagine per coniugare memoria coloniale e memoria personale – è il caso di Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous e Colette Fellous – e di quelle la cui prospettiva è più personale, intimista, come Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin e Catherine Cusset ha messo in rilievo la presenza di un’importante costante formale e tematica: il modello dell’album fotografico e del suo layout nel fototesto autobiografico contemporaneo. Tale modello consente alla scrittura di focalizzarsi sul minuscolo e sul quotidiano di vite secondarie che diventano così protagoniste, al centro di un’attenzione e una partecipazione caratteristiche della cultura femminile del care. Abbiamo inoltre scorto nell’interrogazione dell’album famigliare un modello a cui questi testi si ispirano e nella scrittura banale e inespressiva una delle modalità che ne accomuna la poetica, al punto da poter parlare di un’autofotobiografia al femminile nella letteratura francese contemporanea che potremmo definire, coniando un neologismo, ‘autofotoginobiografia’

The article examines the insertion of photography in the contemporary French autobiographical text according to a diachronic perspective on gender, starting from the outset, in the works of Claude Cahun, Aveux non avenus (1930), passing through Roland Barthes and Marguerite Duras, up to the contemporary. The goal is to recognise the peculiarities of this production and identify its semantic core in the context of French feminine literature since the nineties. The analysis of the work of writers who used the image to combine colonial memory and personal memory – as is the case of Marie Cardinal, Leïla Sebbar, Hélène Cixous and Colette Fellous – and of those whose perspective is more personal, intimist, as Annie Duperey, Silvia Baron Supervielle, Chantal Akerman, Annie Ernaux, Marie Ndiaye, Anne-Marie Garat, Marie Desplechin and Catherine Cusset, highlighted in the contemporary autobiographical photo-text the presence of an important formal and thematic constant: the model of photo album and its layout. This model allows writing to focus on the minuscule and everyday life of secondary people who thus become protagonists, at the centre of attention and participation that characterise the feminine culture of care. We also saw in the interrogation of the family album – a model to which inspired these texts – and in the banal and inexpressive writing, one of the modalities that those poetics have in common, to the point of being able to speak of a feminine ‘self-photo biography’ in contemporary French literature.

 

L’inserimento della fotografia nel testo narrativo è una delle declinazioni di quel visual turn che coinvolgerà progressivamente tutte le scienze umane a partire dagli anni Novanta. Alla base di opere transgeneriche che elaborano nuovi paradigmi dell’archivio e del ricordo, è tra i maggiori vettori d’innovazione formale ed estetica della letteratura contemporanea. Risale al 1892 Bruges-la-morte, romanzo decadente del belga Georges Rodenbach che, per serendipità dell’autore o dell’editore, è considerato il primo fototesto della storia della letteratura francese. Le avventure del protagonista, il misogino Hughes Viane, si stagliano sullo sfondo delle riproduzioni d’archivio di Bruges: grazie all’impaginazione, palazzi e chiese, riflessi nei canali, offrono una declinazione visiva del principio di analogia che governa la trama.[1] In letteratura, il ricorso alla fotografia come oggetto concreto o come metafora – si pensi alle sperimentazioni surrealiste, a quelle dell’école du regard fino alla letteratura degli ultimi anni – ha mutato la definizione di fototesto in dispositivo foto-letterario, quest’ultimo più adatto a sottolineare la reciprocità dell’interazione semiotica tra immagine e scrittura.

La critica letteraria tende spesso, come sottolinea Nachtergael, ad equiparare testo e immagine, di fatto introducendo un gap metodologico che impedisce al lettore di cogliere il significato del dispositivo foto-letterario valutandone il crocevia visivo-testuale.[2]

Il caso dell’autobiografia associata all’immagine è tra i più interessanti in quanto, pur interpellando lo statuto testimoniale della fotografia, il racconto autobiografico spesso trasforma l’immagine in un nodo polisemico che va interrogato nel fitto dialogo con la scrittura:

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Tra le pratiche concettuali degli anni Settanta, la Narrative Art si distingue per l’indagine condotta sulle fratture e sulle ambiguità del rapporto tra fotografia e scrittura. Come afferma Franco Vaccari, «lo spazio mentale della Narrative Art è quello incerto, ma pieno di fermenti, dove non esistono ancora configurazioni stabili, formulazioni esplicite, concetti definiti, ma dove è possibile cogliere questi elementi allo stato nascente. La Narrative Art è una pratica del senso e si applica a realtà fugaci, mobili, sconcertanti e ambigue, che non si prestano alla misura precisa, al calcolo esatto, al ragionamento rigoroso». Partendo da una contestualizzazione storico-critica del fenomeno, il saggio evidenzia il carattere ipertestuale dei rapporti tra scrittura e fotografia proposti dalla Narrative Art e analizza le strategie di narrazione del sé attuate da Christian Boltanski, Jean Le Gac e Didier Bay, rintracciando in esse dinamiche trasformative proprie dei fototesti autobiografici.

Among the conceptual practices of the nineteen seventies, Narrative Art is notable for its investigation into the fractures and ambiguities found in the relationship between photography and writing. As Franco Vaccari states, «the conceptual dimension of Narrative Art is an uncertain one, but highly fertile, where stable configurations, explicit formulations and clearly-defined concepts do not yet exist, but where it is possible to grasp these elements in their germinal state. Narrative Art is a practice of meaning applied to fleeting, mobile, disconcerting and ambiguous realities, which do not lend themselves to precise measurement, exact calculation, or rigorous reasoning». Starting from a historical-critical contextualization of the phenomenon, the essay highlights the hypertextual nature of the relationships between writing and photography seen in Narrative Art and analyses the self-narrative strategies implemented by Christian Boltanski, Jean Le Gac and Didier Bay, exploring the transformative dynamics intrinsic to autobiographical phototexts.

 

Un uomo è sempre un narratore di storie;

vive circondato dalle sue storie e dalle storie altrui,

tutto quello che gli capita lo vede attraverso di esse,

e cerca di vivere la sua vita come se la raccontasse.

Ma bisogna scegliere: o vivere o raccontare.

Jean-Paul Sartre[1]

 

La comprensione che ognuno ha di se stesso è narrativa:

non posso cogliere me stesso al di fuori del tempo

e dunque al di fuori del racconto.

Paul Ricoeur[2]

 

Fotografia e scrittura giocano un ruolo centrale nella stagione della ‘smaterializzazione dell’oggetto artistico’:[3] innumerevoli artisti ricorrono infatti a questi mezzi per condurre operazioni variamente ascritte all’Arte Povera, all’Arte Processuale o alla Body Art ma tutte riferibili, invero, alla più vasta categoria di Arte Concettuale. A dispetto di ogni uso tattico, settario o militante del termine, la concettualità costituisce un denominatore comune a tutte le ricerche tese a rivendicare la priorità dell’idea e del processo sulla forma o a mettere in discussione ogni convenzione semantica. Non si compie infatti azione, processo o verifica senza intenzione, ipotesi o idea, cioè senza presupposti di ordine noetico; e non c’è operazione di questo tipo che non necessiti di supporti informativi, quali appunto fotografia e scrittura, per essere attuata, documentata, descritta e divulgata. Per dare un ordine generale alle molteplici forme assunte dall’Arte Concettuale è allora opportuno concentrarsi sulla funzione attribuita di volta in volta a questi mezzi: ‘analitica’, cioè tesa a verifiche interne e riflessioni tautologiche, o ‘mondana’, ossia volta a una più diretta e immediata presa sulla realtà fisica e sulle dinamiche dell’esistenza.[4]

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A distanza di pochi anni dalla pubblicazione di Condominio Oltremare (L’orma, 2014), Giorgio Falco e Sabrina Ragucci tornano sulla via dell’incontro fra letteratura e fotografia, contribuendo a dare ulteriore impulso alle dinamiche verbo-visive messe in atto dalle produzioni fototestuali contemporanee. Flashover. Incendio a Venezia (Einaudi, 2020) è infatti l’ultima tappa – al momento – di un sodalizio che vede impegnati nella realizzazione di opere ibride e proteiformi uno scrittore la cui prosa mostra di possedere una spiccata propensione al visuale e una artista visiva che ha da poco scelto di dedicarsi, con il romanzo Il medesimo mondo (Bollati Boringhieri, 2020), alla scrittura letteraria. E di questa inscindibilità tra spazio narrativo e racconto fotografico, tra sguardi di natura diversa ma disposti a contaminarsi, Flashover sembra recare il segno già a partire dalla struttura del volume. Se si osserva la successione delle pagine, si nota che i frammenti iconografici, costituiti complessivamente da settantatre fotografie di Ragucci e da uno scatto eseguito da Falco (cfr. p. 52), sono intercalati nel testo privi di didascalie. L’esperienza di lettura che se ne ricava, pertanto, si nutre di un simultaneo integrarsi dei tasselli fotografici con l’impianto narrativo.

Riguardo innanzitutto alla componente verbale, il racconto appare racchiuso da una cornice che, nell’attacco e nei brani conclusivi, ricalca l’andamento descrittivo di una tradizionale terza persona romanzesca. Sul piano della forma, tuttavia, il testo di Falco sfugge alle definizioni. Non è «né romanzo, né saggio, né novella, né poesia» (p. 10) e – accordandosi, da questo punto di vista, a una più generale tendenza del romanzo contemporaneo ad accogliere documenti ‘grezzi’, linguaggi e generi del discorso non finzionali – concentra il funzionamento dell’ingranaggio narrativo sul recupero dei fatti. L’episodio di cronaca al quale l’opera si ispira è l’incendio del Teatro La Fenice appiccato nel gennaio del 1996 dal titolare di una ditta specializzata in impianti elettrici, Enrico Carella, con la complicità del cugino, nel tentativo di sottrarsi alla penale che la società avrebbe dovuto pagare per il ritardo accumulato rispetto alla fine prevista dei lavori. Riportando anche stralci delle deposizioni dei testimoni e degli imputati chiamati a processo quattro anni dopo l’accaduto, la voce narrante sviluppa in slow motion il racconto del gesto doloso e del modo in cui è stato premeditato, delle operazioni necessarie all’estinzione delle fiamme, della vita che in quegli istanti si consuma nella parte della città lagunare in cui si trova il teatro. Accanto a questo nucleo tematico, che procede come in studiata sintonia con l’imparzialità di un referto, si situano frequenti ‘smarginature’ della prosa, con l’effetto di una moltiplicazione dei livelli semantici. I passaggi divaganti rispetto al flusso diegetico sono di vario tipo. Numerosi sono i brani in cui, come a bilanciare il ritmo della narrazione, la voce narrante dialoga con se stessa – come quando, con un significativo slittamento dalla terza alla seconda persona, nelle pagine iniziali interviene e avverte: «(Da qui in avanti rinunci al romanzo […]. Rifiuti di assegnare profondità a ciò che profondo non è. Niente psicologismi, meglio abbandonare i personaggi alla solitudine dei propri gesti; […])» (pp. 9-10) – oppure anticipa gli eventi, secondo una più consueta funzione prolettica, oppure ancora esprime una dimensione universale liberata da condizionamenti di ordine sia spaziale che temporale: «(Compiamo sempre gli stessi gesti modulati attorno a piccolissime variazioni», si legge in una temporanea pausa dall’incendio, «ciononostante, crediamo ogni volta di fare qualcosa di nuovo; crediamo alle nostre menzogne, […] impreparati all’esito dei nostri gesti abitudinari; […])» (p. 69). Al di là degli esempi menzionati, evidenti sono anche le implicazioni metatestuali generate dalla progressione delle fasi dell’incendio: «(Ignizione, propagazione, incendio pienamente sviluppato, decadimento finale. Inizio, svolgimento, svelamento, conclusione. L’incipit è l’innesco, l’accelerante: […]. Quest’opera, invece, scaturisce dalla sequenza, dal montaggio. […])» (p. 38). All’interno di tale processo, il ‘flashover’ non solo rinvia alla fase di massima diffusione delle fiamme, al cosiddetto ‘incendio generalizzato’, ma diventa anche il punto di convergenza, testimoniato e accentuato dal titolo del volume, di una articolata risemantizzazione del termine in chiave metaletteraria.

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Abstract: ITA | ENG

In questo saggio si intende leggere Wunschloses Unglück come fosse una impressionistica biografia per immagini; il racconto sarebbe nato dal tentativo di restituire alla madre cinquantenne, morta suicida, una storia e un’identità. Un modo per conferire contenuto e contorni alla donna e neutralizzare l’effetto spersonalizzante del trafiletto con cui si dà notizia dell’avvenimento, nelle pagine del giornale locale. La storia della madre è in realtà, sin dall’esordio, una riflessione dello scrittore sul proprio lavoro, sulla difficoltà di scrivere storie ‘vere’, sulla tormentata ricerca di un precario equilibrio tra descrizione e documentazione, tra narrazione e immagine, tra verità e finzione. A guidare Handke sembrerebbe la consapevolezza che la cornice di un racconto, come di una fotografia, in quanto misura e forma delle cose, sia l’elemento capace di renderle visibili, di conferire loro un senso, e in ultima istanza una sorta di salvezza terrena.

In this work Wunschloses Unglück is read as if it were an impressionistic biography in images. The tale was born out of an attempt to give Handke’s fifty-year-old mother, who died of suicide, back a story and an identity.  A way to give content and contours to the woman and to neutralize the depersonalizing effect of the news of the event in the pages of the local newspaper. The story of the mother is actually, from the very beginning, a reflection of the writer on his own work, on the difficulty of writing 'true' stories, on the tormented search for a precarious balance between description and documentation, between narration and image, between truth and fiction. Handke would seem to be guided by the consciousness that the frame of a story, like a photograph, as the measure and form of things, is the element capable of making them visible, giving them a sense, and ultimately a sort of earthly salvation.

 

 

 

La scelta di un testo come Wunschloses Unglück (1972)[1] per parlare di fototestualità e autobiografia/biografia nella scrittura di Handke può suscitare qualche perplessità. La presenza di immagini, a un’analisi ‘oggettiva’ del volume, risulta circoscritta alla sola copertina, che nella prima edizione raffigurava un paesaggio a tutta pagina e sulla quarta, immerso nel paesaggio, l’autore a figura intera, sostituito in quelle successive dallo stesso paesaggio ridotto a un riquadro, e poi da foto in vari formati dell’autore, come nelle edizioni di molte altre opere di Handke, o in alternativa dalla riproduzione fotografica di un chiostro di un convento. Tutte immagini che non sembrerebbero avere particolare attinenza con i fatti narrati, a conferma dell’atipicità dell’opera, che nonostante le sue anomalie si può leggere come un fototesto.

Il racconto di Handke inizia con un breve trafiletto tratto dalla Volkszeitung in cui si dà notizia della morte di una casalinga cinquantunenne, avvenuta nella notte tra un sabato e una domenica: si tratta di un suicidio per intossicazione da farmaci, e la donna morta è la madre di Peter Handke. Lo scrittore comunica al lettore il legame personale con la donna suicida dell’annuncio in modo scarno, incidentale, più che altro per spiegare l’antefatto da cui il racconto prende le mosse, e si preoccupa anche di rimarcare subito la distanza temporale che separa l’evento luttuoso dal momento in cui la narrazione ha inizio, un lasso di tempo di quasi sette settimane. Il racconto sarebbe nato dal «bisogno di scrivere di lei», prima che questo bisogno si trasformi nell’«ottuso mutismo» che aveva caratterizzato in un primo momento la reazione di Handke alla notizia della scomparsa del genitore. Irritabilità e insensibilità sono le emozioni che l’io narrante registra nel proprio animo al pensiero di ciò che è avvenuto, sensazioni ‘negative’, ma comunque ben accolte, perché capaci di sottrarlo al senso di torpore che altrimenti lo pervade: «Eppure desidero questi momenti, perché allora il torpore non c’è più e la testa diventa lucidissima. È un orrore in cui torno a star bene: niente più noia finalmente, un corpo che non fa più resistenza, non più lontananze faticose, l’innocuo passare del tempo» (WU, p. 9, S. 11).

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